BRAN

«È soltanto un altro castello abbandonato.» Meera Reed scrutò la desolazione di rovine, macerie, erbacce.

“No, non è soltanto un altro castello abbandonato.” Il pensiero rimbalzò nella mente di Brandon Stark, Bran lo Spezzato. “Questo è il Forte della Notte. Ed è l’ultimo confine del mondo.” Mentre attraversavano le montagne, le uniche cose a cui Bran riusciva a pensare erano state raggiungere la Barriera e trovare il corvo con tre occhi. Ma adesso che erano arrivati a destinazione, si sentiva pieno di terrori. Quel sogno che aveva fatto… che Estate aveva fatto… “No, non devo pensare a quel sogno.” Non ne aveva parlato neppure con i due ragazzi Reed, per quanto Meera sembrasse avere la percezione che qualcosa non andava. Se non avesse mai parlato forse sarebbe riuscito a dimenticare di averlo fatto, per cui non si sarebbe avverato, quindi Robb e Vento grigio non sarebbero…

«Hodor.» Hodor spostò il proprio peso. Bran si spostò con esso. Si sentiva stanco. Camminavano da ore. “Per lo meno lui stanco non è.” Quel posto, il Forte della Notte, a Bran faceva paura. Ammetterlo con i Reed gli faceva addirittura più paura. “Sono un principe del Nord, sono uno Stark di Grande Inverno e sono quasi un uomo adulto. Devo essere coraggioso come Robb.”

Jojen lo scrutò con i suoi profondi occhi verdi. «Non c’è niente qui che possa farci del male, maestà.»

Bran non ne era altrettanto sicuro. Il Forte della Notte era presente in alcune delle storie più spaventose della vecchia Nan. Era questo il luogo in cui aveva regnato il re della Notte, prima che il suo nome venisse cancellato dalla memoria degli uomini. Il luogo in cui il Cuoco dei Topi aveva servito al re andalo il suo stufato di pancetta e principe, in cui le settantanove sentinelle avevano montato la guardia, in cui il giovane, coraggioso Danny Flint era stato stuprato e assassinato. Questo era il castello dove re Sherrit aveva lanciato la maledizione sugli antichi andali, dove i giovani apprendisti avevano affrontato la cosa venuta dalle tenebre, dove Symeon Occhi di stelle, il cantore cieco, aveva assistito alla lotta tra i mastini infernali. Il Pazzo dell’Ascia aveva attraversato questi cortili e salito queste torri, macellando i suoi fratelli nel buio.

Tutto questo era accaduto centinaia, migliaia di anni prima, era vero; e alcuni di questi fatti forse non erano neppure mai realmente accaduti. Maestro Luwin diceva sempre che non bisognava credere proprio a tutte le storie della vecchia Nan. Ma Bran si ricordava ancora della volta in cui lo zio Benjen era venuto giù dalla Barriera per fare visita a suo padre, il grande lord Eddard Stark, Protettore del Nord. E ricordava di avergli chiesto del Forte della Notte. Benjen Stark, Primo Ranger dei Guardiani della notte, non aveva mai detto che quelle storie erano vere. Ma non aveva nemmeno detto che non lo erano. Si era limitato ad alzare le spalle, commentando: “Abbiamo abbandonato il Forte della Notte duecento anni fa”. Come se fosse una risposta.

Bran si costrinse a guardarsi intorno. Era una mattina fredda e luminosa, il sole scintillava nel cielo azzurro. Quello che non gli piaceva erano i suoni. Infilandosi tra le torri diroccate il vento sibilava in modo sinistro. E i manieri scricchiolavano, si lamentavano. Poteva udire i topi correre sotto il pavimento della sala grande. “I figli del Cuoco dei Topi in fuga da loro padre.” I cortili erano ridotti a piccole foreste, piene di alberi scheletrici i cui rami strisciavano gli uni contro gli altri, invasi da foglie morte che si rincorrevano sul granito come scarafaggi, scavalcando placche di neve vecchia. Al posto delle stalle crescevano altri alberi. Un contorto, livido albero-diga si era aperto la strada nello squarcio frastagliato che aveva sostituito il tetto a cupola delle cucine. Perfino Estate non si trovava a suo agio. Bran entrò nella sua pelle, solo per un momento, giusto per assorbire l’odore del Forte della Notte. Un’altra cosa che non gli piacque affatto.

E non c’era alcun passaggio.

Bran aveva avvertito Meera e Jojen che non ci sarebbe stato. Lo aveva detto e ripetuto, ma Jojen aveva insistito per vedere con i suoi occhi. Aveva avuto un sogno dell’oltre, sosteneva, e i suoi sogni dell’oltre non mentivano. “Non mentiranno, d’accordo” pensò Bran “però non aprono passaggi.”

Il Forte della Notte era stato eretto a difesa di un transito sotto la Barriera chiuso dal giorno in cui i confratelli in nero avevano caricato i loro muli e i loro destrieri e se ne erano andati a Lago Profondo. La grata abbassata per sempre, le catene di sollevamento smontate e portate via, il tunnel ostruito da massi e da macerie così da formare un blocco unico, impenetrabile come la Barriera stessa.

«Avremmo dovuto seguire Jon» aveva commentato Bran nel vedere quella massa compatta. Pensava spesso al suo fratello bastardo. Ci pensava dalla notte in cui Estate lo aveva guardato scomparire al galoppo nella tempesta. «Avremmo dovuto raggiungere la strada del Re e arrivare al Castello Nero.»

«Non osiamo farlo, mio principe» aveva risposto Jojen. «Ti abbiamo detto il perché.»

«Ma qui ci sono i bruti. Hanno ucciso quell’uomo ed erano pronti a uccidere anche Jon. Erano centinaia, Jojen. Centinaia…»

«Tu dici. Mentre noi siamo in quattro. Hai aiutato tuo fratello, se davvero era lui, e per poco non ci hai rimesso Estate.»

«Lo so.» A quel pensiero, Bran continuava a sentirsi disperato.

Il meta-lupo ne aveva uccisi tre, forse di più, ma i bruti erano troppi. Nel momento in cui formarono un cerchio stretto a difesa dell’uomo alto e senza orecchie, lui, loro… Bran… Estate… cercarono la fuga nella pioggia. Poi ci fu il lampo metallico di una freccia dei bruti. La vampata di dolore strappò Bran fuori dalla pelle del meta-lupo, risucchiandolo di nuovo nella propria. Una volta che la tempesta finalmente si fu calmata, rimasero rannicchiati assieme nel buio, senza accendere il fuoco, parlando a stento, a sussurri, ascoltando il respiro pesante di Hodor, domandandosi se il mattino dopo i bruti avrebbero cercato di attaccare il torrione nel lago. Più e più volte Bran cercò di raggiungere Estate. Trovò solo sofferenza. Una sofferenza talmente brutale, talmente terribile, da respingerlo così come una teglia di ferro arroventato respinge la mano che cerca di afferrarla. Hodor fu l’unico a dormire, quella notte, continuando a girarsi e rigirarsi, mugolando “Hodor, Hodor”. Bran combatté il terrore del pensiero di Estate morente chissà dove nelle tenebre. “Antichi dèi, vi prego” invocò. “Vi siete già portati via Grande Inverno, mio padre e le mie gambe. Vi prego, non portatemi via anche Estate. E vegliate su Jon Snow, fate che i bruti se ne vadano.”

Nessun albero-diga cresceva sulla piccola isola in mezzo al lago eppure, in qualche modo, gli antichi dèi dovettero udirlo. I bruti se la presero fin troppo comoda prima di andarsene, il mattino seguente. Depredarono i morti e il corpo del vecchio che avevano assassinato. Pescarono addirittura qualche pesce. Ci fu un momento di terrore quando tre di loro trovarono il camminamento di pietre sommerse e cominciarono a percorrerlo… ma poi il camminamento mutò direzione e loro invece no. Per poco, due bruti non annegarono prima che gli altri arrivassero a tirarli fuori. L’uomo alto, calvo e senza orecchie inveì contro di loro, le sue parole echeggiavano sulle acque. Parole in una lingua sconosciuta perfino a Jojen. Non molto tempo dopo raccolsero scudi e picche e si misero in marcia verso nordest, la stessa direzione presa da Jon. Anche Bran avrebbe voluto partire per andare a cercare Estate, ma i Reed dissero di no.

«Resteremo qui un’altra notte» dichiarò Jojen «in modo da mettere un po’ di leghe tra noi e i bruti. Non credo che tu voglia incontrarli di nuovo, o sbaglio?»

Nel tardo pomeriggio Estate tornò da dovunque fosse andato a nascondersi, trascinando una delle zampe posteriori. Divorò brandelli dei corpi rimasti nella locanda distrutta, allontanando i corvi, e alla fine raggiunse l’isola a nuoto. Meera estrasse la freccia che il meta-lupo aveva ancora conficcata nella zampa e massaggiò la ferita con l’essenza vegetale di certe piante che crescevano alla base del torrione. Estate continuò a zoppicare, ma secondo Bran sempre meno ogni giorno che passava. Gli dèi avevano ascoltato la sua invocazione.

«Forse dovremmo tentare con un altro castello» disse Meera al fratello. «Forse potremmo riuscire a passare in qualche altro punto. Posso andare in esplorazione, se vuoi. Da sola mi muovo più in fretta.»

Bran scosse la testa. «A est c’è Lago Profondo, e poi Porta della regina. A ovest c’è Segno di Ghiaccio. Ma sono fortini come questi, solo più piccoli. Tutti i passaggi sotto la Barriera sono chiusi, eccetto quelli del Castello Nero, del Forte orientale e della Torre delle Ombre.»

«Hodor» confermò Hodor.

I Reed si scambiarono un’occhiata.

«Almeno lasciami scalare la Barriera» replicò Meera. «Da lassù potrò vedere qualcosa di più.»

«E che cosa speri di vedere?» chiese Jojen.

«Qualcosa» rispose Meera. E questa volta fu irremovibile.

“Dovrei essere io a farlo.” Bran sollevò lo sguardo sulla vasta muraglia congelata. Immaginò se stesso salire, un pollice dopo l’altro, con le dita che si insinuavano nelle crepe del ghiaccio, i piedi che scavavano appoggi a calci. A dispetto di tutto, di Jon, dei bruti, di tutto quanto, fu un pensiero che riuscì a farlo sorridere. Aveva scalato le mura di Grande Inverno, quando era piccolo, e anche tutte le torri, ma niente era paragonabile all’altezza della Barriera. Inoltre quelle costruzioni erano di pietra. Anche la Barriera a volte sembrava di pietra, così grigia e corrosa, ma poi le nubi si aprivano, il sole la colpiva sotto un’angolazione diversa e di colpo si trasformava in una torreggiante muraglia bianca e azzurra e scintillante. Era l’ultimo confine del mondo, diceva sempre la vecchia Nan. Dall’altra parte c’erano i mostri, i giganti, i divoratori di cadaveri. Ma finché la Barriera fosse esistita, quelle creature non avrebbero potuto passare. “Voglio arrivare in cima assieme a Meera” pensò Bran. “Voglio essere lassù, a vedere.”

Ma ormai lui non era altro che un ragazzo spezzato, le sue gambe erano inutilizzabili. Tutto quello che poté fare fu guardare Meera che saliva.

In realtà, non stava veramente scalando come faceva lui una volta. Si limitava a salire i gradini che i Guardiani della notte avevano creato migliaia di anni prima. Bran ricordò qualcosa che maestro Luwin gli aveva detto: il Forte della Notte era l’unico castello in cui i gradini erano stati scavati nel ventre stesso del ghiaccio della Barriera. O forse era stato lo zio Benjen a dirlo. I castelli più recenti avevano gradini di legno o di pietra, o lunghe rampe di terriccio e ghiaia. “Il ghiaccio è troppo pericoloso.” Questo aveva detto lo zio Benjen. Aveva anche detto che certi giorni la superficie esterna della Barriera piangeva lacrime gelide, mentre il nucleo profondo rimaneva congelato, duro come la roccia. Da quando gli ultimi confratelli in nero avevano lasciato il Forte della Notte, quei gradini dovevano essersi sciolti e risolidificati migliaia e migliaia di volte. E ogni volta che tornavano a solidificarsi, erano un po’ più stretti della volta precedente, diventando più lisci, più arrotondati, più pericolosi.

E più piccoli. “È come se la Barriera li stesse inglobando di nuovo dentro di sé.” Meera Reed era un’abile scalatrice, ma procedeva comunque con lentezza, spostandosi da una rampa all’altra. In due punti dove i gradini erano pressoché svaniti fu costretta ad avanzare carponi. “Sarà peggio quando dovrà scendere” pensò Bran, senza smettere di guardarla. Eppure continuava a desiderare di essere lassù. Meera raggiunse finalmente la cima, tutto quello che rimaneva dei gradini più alti erano gibbosità deformi. Le superò e scomparve dalla vista.

«Quando verrà giù?» chiese Bran a Jojen.

«Quando avrà finito. Vuole dare una bella occhiata… alla Barriera e a quello che c’è al di là. E noi dovremmo fare lo stesso qua sotto.»

«Hodor?» disse Hodor in tono dubbioso.

«Potremmo trovare qualcosa» insistette Jojen.

“Oppure qualcosa potrebbe trovare noi.” Ma questo Bran non lo disse. Non voleva che Jojen lo ritenesse un codardo.

Così andarono in esplorazione, Jojen Reed in avanscoperta, Brandon Stark nella gerla sulla schiena di Hodor ed Estate al loro fianco. A un certo punto, il meta-lupo si avventò oltre un portale avvolto nell’oscurità, e poco dopo tornò con un grosso topo grigio tra le zanne. “Il Cuoco dei Topi” pensò Bran. Ma poi vide che non era del colore giusto ed era grosso solo come un gatto. Il Cuoco dei Topi invece era bianco e grande quasi quanto un cinghiale…

C’erano molti altri portali oscuri nel Forte della Notte, e moltissimi topi. Bran poté udirli correre nelle cripte, nei sotterranei e lungo il labirinto di tunnel neri come l’inchiostro che li collegava. Jojen voleva andare a frugare anche là sotto, ma all’idea Hodor disse “Hodor” e Bran disse “no”. Cose ben peggiori dei topi erano in agguato nelle viscere tenebrose del Forte della Notte.

«Sembra un posto molto vecchio» fu il commento di Jojen mentre percorrevano una galleria illuminata da oblique lame di polverosa luce solare che penetravano da finestre simili a occhiaie svuotate.

«Vecchio il doppio di Castello Nero» rispose Bran, pensieroso. «È stata la prima fortezza costruita sulla Barriera, e anche la più grande.»

Ma, nei tempi perduti del Vecchio Re, era stata anche la prima fortezza a essere abbandonata. Perfino allora rimaneva per tre quarti vuota e risultava troppo costosa da mantenere. La regina Alysanne la Buona aveva suggerito che la confraternita in nero rimpiazzasse il Forte della Notte con un nuovo castello, di dimensioni più piccole, da costruirsi circa sette miglia più a est, nel punto in cui la Barriera faceva una curva lungo le rive di uno splendido lago dalle acque verdi. Il forte di Lago Profondo era stato pagato con i gioielli della regina e costruito dagli uomini che il Vecchio Re aveva mandato nel Nord. Alla fine, i confratelli in nero avevano lasciato il Forte della Notte ai topi.

Questo però accadeva due secoli prima. Ora, anche Lago Profondo era vuoto come il Forte della Notte…

«Qui ci sono gli spettri» disse Bran. Erano tutte storie che Hodor aveva già sentito raccontare, ma forse Jojen no. «Spettri antichi, da prima del Vecchio Re, anzi prima ancora di Aegon il Drago. Settantanove disertori si diressero a sud per diventare fuorilegge. Uno di loro era il figlio più giovane di lord Ryswell. Così, quando raggiunsero la terra delle tombe dei Primi Uomini, cercarono rifugio nel suo castello. Ma lord Ryswell li prese tutti prigionieri e li riportò al Forte della Notte. Il lord comandante fece scavare delle buche sulla sommità della Barriera, vi mise dentro i disertori e li seppellì nel ghiaccio. Ancora vivi. Hanno picche e corni, e sono tutti rivolti verso nord. Sono chiamate le settantanove sentinelle. In vita, abbandonarono i loro posti. In morte, il loro turno di guardia andrà avanti per l’eternità. Anni dopo, quando lord Ryswell era vecchio e prossimo alla morte, si fece trasportare al Forte della Notte in modo da prendere il nero e da essere al fianco di suo figlio. Lo aveva riportato alla Barriera in nome dell’onore, ma lo amava ancora, per cui volle condividere la guardia con lui.»

Trascorsero una buona metà della giornata aggirandosi per il castello. Alcuni torrioni erano crollati e altri apparivano pericolanti, ma scalarono la torre campanaria — le campane non c’erano più — e l’uccelliera… nemmeno gli uccelli c’erano più. Sotto la birreria trovarono una cantina piena di enormi botti di rovere. Quando Hodor vi batté contro con le nocche, rimbombarono a vuoto. Trovarono una biblioteca, scaffalature e teche crollate, libri spariti, topi dappertutto. Trovarono il sotterraneo con le segrete, un luogo umido, immerso in una tetra penombra, abbastanza grande da ospitare cinquecento prigionieri. Bran afferrò una delle sbarre arrugginite che gli si spezzò tra le mani. Tutto quello che rimaneva della sala grande era un’unica parete in rovina, i bagni sembravano sul punto di sprofondare nella terra e un colossale groviglio di rovi ora dominava il cortile dove un tempo i confratelli in nero si addestravano con picche, spade e scudi. L’arsenale e la forgia si ostinavano a ergersi, anche se festoni di ragnatele, topi e polvere avevano preso il posto di lame, mantici e incudini. Di tanto in tanto Estate percepiva suoni ai quali Bran era sordo, o snudava le zanne al nulla, con il pelo sulla schiena ritto… ma il Cuoco dei Topi non comparve mai, né apparvero le settantanove sentinelle, né il Pazzo dell’Ascia.

Bran si sentì molto sollevato. “Forse è soltanto un castello abbandonato.”


Meera Reed tornò che il sole stava per svanire dietro le colline a occidente.

«Che cosa hai visto?» le chiese suo fratello Jojen.

«Ho visto la foresta Stregata» rispose lei in tono eccitato. «Colline selvagge a perdita d’occhio, coperte da alberi che nessuna scure ha mai violato. Ho visto il sole riflettersi su un lago, e nubi che si avvicinano da occidente. Ho visto placche di neve vecchia, e stalattiti di ghiaccio lunghe quanto una lancia. Ho visto anche un’aquila, e penso che lei abbia visto me. Le ho fatto un cenno di saluto.»

«Hai visto una strada per scendere?» s’informò Jojen.

«No, nessuna.» Meera scosse la testa. «La Barriera strapiomba pressoché in verticale, e il ghiaccio è talmente liscio che… Si potrebbe tentare di calarsi, avendo una buona fune e un’ascia per scavare appigli, ma…»

«…ma noi non potremmo calarci da nessuna parte» l’anticipò Jojen.

«Proprio così» concordò la sorella. «Sei sicuro che è proprio questo il posto che hai visto nel tuo sogno dell’oltre? Forse siamo nel castello sbagliato.»

«No. Il castello è questo. Il passaggio è qui.»

“Certo” pensò Bran “solo che è bloccato dalle rocce e dal ghiaccio.”

Mentre il sole calava e le ombre delle torri si allungavano, il vento iniziò a soffiare più forte, spingendo refoli di foglie morte a scricchiolare sul selciato dei cortili. Le tenebre incombenti fecero tornare in mente a Bran un’altra storia della vecchia Nan, quella del re della Notte. Era stato il tredicesimo uomo a comandare i Guardiani della notte, raccontava Nan, un uomo che non sapeva che cosa fosse la paura. “E fu proprio questa la sua pecca” aggiungeva “perché gli uomini devono avere paura.” Fu una donna a provocare la caduta del re della Notte, una donna che apparve sulla cima della Barriera, con la pelle bianca come la luna e gli occhi come stelle azzurre. Non conoscendo la paura, il re della Notte la inseguì, la prese, la amò. Ma la carne di lei era fredda come il ghiaccio, e quando lui le diede il suo seme, le diede anche la sua anima.

La portò con sé al Forte della Notte, la dichiarò la sua regina e si proclamò il suo re. Attraverso strani sortilegi riuscì a incatenare i confratelli al proprio volere. Per tredici anni regnarono, il re della Notte e la sua regina cadavere vivente, fino a quando lo Stark di Grande Inverno e Joramun, re oltre la Barriera e dei bruti, unirono le loro forze per liberare la confraternita dalle loro invisibili catene. Alla sua caduta, si scoprì che il re della Notte compiva sacrifici agli Estranei. Tutte le tracce di lui vennero distrutte, e fu proibito pronunciare il suo nome.

“Alcuni sostengono che fosse un Bolton di Forte Terrore” concludeva la vecchia Nan. “Secondo altri era uno dei maknar dall’isola di Skagos, secondo altri ancora un Umber, un Flint o un Norrey. Qualcuno ritiene che fosse un Piede-di-legno, del clan che dominava l’isola dell’Orso prima degli uomini di ferro. Ma lui non era nessuno di loro. Era uno Stark. Era il fratello dell’uomo che alla fine lo uccise.” A questo punto, l’anziana narratrice dava sempre un pizzicotto sul naso a Bran, in modo che lui non dimenticasse. “Era uno Stark di Grande Inverno. E chi lo sa? Forse il suo nome era Brandon. E forse ha dormito in questa stessa stanza, in questo stesso letto.”

“No” pensò Bran “ma ha abitato in questo castello, dove noi dormiremo questa notte.” Idea che non gli piaceva affatto. Durante il giorno, diceva sempre la vecchia Nan, il re della Notte era un uomo come tutti gli altri, ma era al calar delle tenebre che iniziava il suo vero dominio. “E ora le tenebre stanno calando…”

I Reed decisero che avrebbero dormito nelle cucine, un ottagono di pietra dalla cupola diroccata. Sembrava offrire un riparo migliore delle altre costruzioni, anche se un contorto albero-diga era emerso dal sottosuolo accanto all’enorme pozzo centrale, sfondando il pavimento di ardesia e innalzandosi obliquo attraverso lo squarcio nel tetto, e i suoi rami bianchi come ossa sembravano artigliare il sole. Era uno strano albero, più sottile di qualsiasi altro albero-diga Bran avesse mai visto prima. E privo del volto scolpito nel tronco. Eppure era comunque una presenza amica, come se gli antichi dèi fossero vicini a lui.

Solo che, delle cucine del Forte della Notte, era l’unica cosa che gli piacesse. Il tetto era ancora quasi intero per cui, se si fosse messo a piovere, almeno sarebbero stati all’asciutto, ma Bran non credeva che avrebbero mai potuto sentire caldo là dentro. Poteva percepire il gelo salire dal pavimento di ardesia. E non gli piacevano neppure tutte quelle ombre, né gli enormi forni di mattoni che li circondavano come tante bocche spalancate, né gli uncini da macellaio arrugginiti, o le cicatrici e le macchie che notò sull’ancestrale tagliere a ridosso di una delle pareti. “È stato qui dentro che il Cuoco dei Topi ha fatto a pezzi il principe” Bran questo lo sapeva “e poi ha cotto lo stufato in uno di questi forni.”

Ma la cosa che gli piaceva meno di tutte era il pozzo. Interamente di pietra, aveva un diametro di almeno dodici piedi. E al suo interno erano stati scavati dei gradini, in lenta discesa verso le tenebre sottoterra. Il muro ricurvo era umido, incrostato di salnitro, e nessuno di loro riuscì a vedere l’acqua sul fondo, neppure Meera, con i suoi acuti occhi da cacciatrice.

«Forse non c’è nemmeno un fondo» ipotizzò Bran, pieno d’incertezza.

Hodor si sporse oltre il parapetto del pozzo, che gli arrivava alle ginocchia. «HODOR!» gridò. Quella parola si disperse in una cacofonia di echi, Hodorhodorhodo-rhodorhodorhodor, sempre più flebili, sempre più remoti, Hodorhodorhodorhodorhodor, fino a quando fu solo un sussurro. Il gigantesco ragazzo di stalla rise, chinandosi a raccogliere un frammento di ardesia da terra.

«Hodor! No!» Il grido di Bran arrivò troppo tardi. Il frammento cadde oltre l’orlo. «Non avresti dovuto farlo. Non sai che cosa può esserci là sotto. Puoi aver fatto male a qualcuno, oppure… risvegliato qualcosa.»

Hodor lo guardò con aria innocente. «Hodor?»

In basso, molto in basso, udirono il tonfo dell’impatto contro una superficie liquida. Solo che non fu realmente un tonfo: fu una specie di risucchio, come se laggiù, nelle tenebre viscide, una bocca gelida e tremolante si fosse aperta per inghiottire la pietra gettata da Hodor. Deboli echi si attorcigliarono lungo il condotto del pozzo. Per un momento, Bran credette di udire qualcosa che si muoveva, agitando l’acqua.

«Forse non dovremmo essere qui» disse a disagio.

«Vicino a questo pozzo?» chiese Meera. «Oppure nel Forte della Notte?»

«In nessuno dei due posti» rispose Bran.

Meera rise, mandò Hodor a cercare legna. Estate lo seguì. Era ormai notte, e il meta-lupo voleva andare a caccia.


Hodor tornò solo, con le braccia cariche di rami secchi. Jojen Reed si mise al lavoro con pietra focaia e coltello per accendere il fuoco, Meera iniziò a pulire il pesce che aveva pescato nell’ultimo torrente che avevano attraversato. Bran si domandò quanti anni fossero passati dall’ultima volta in cui qualcuno aveva preparato una cena nelle cucine del Forte della Notte. Si domandò anche chi fosse stato a prepararla, ma forse sarebbe stato meglio non avere una risposta.

Una volta che le fiamme bruciarono alte, Meera mise il pesce ad arrostire. “Per lo meno non è uno stufato di carne.” Il Cuoco dei Topi aveva cucinato il figlio del re andalo in un grande stufato con carote, cipolle, funghi, tanto sale e pepe e abbondante pancetta affumicata, il tutto annaffiato da un robusto rosso dorniano. Dopo di che aveva servito il manicaretto al padre, che ne aveva lodato il sapore, chiedendone una seconda porzione. Ma in seguito gli dèi avevano tramutato il cuoco in un mostruoso topo bianco, condannandolo a divorare la sua prole. Era da quell’epoca che il Cuoco dei Topi vagava per il Forte della Notte, nutrendosi dei propri figli, senza che la sua fame potesse mai placarsi. “Non fu per il suo delitto che gli dèi lo maledissero” spiegava la vecchia Nan “né per aver servito al re andalo lo stufato fatto con la carne del figlio. Qualsiasi uomo in fondo ha il diritto di vendicarsi. No, fu per aver assassinato un ospite sotto il proprio tetto. E questo gli dèi non lo possono perdonare.”

«Dovremmo metterci a dormire» dichiarò solennemente Jojen, una volta che si furono riempiti la pancia. Le fiamme si erano abbassate. Jojen le attizzò con uno stecco. «Forse farò un altro sogno dell’oltre che ci mostrerà la via.»

Hodor si era già rannicchiato su se stesso, e aveva cominciato a russare. Ogni tanto si agitava sotto il mantello, mugolando qualcosa che avrebbe potuto essere “hodor”. Bran si trascinò più vicino al fuoco. Il calore era piacevole e il lieve crepitio delle fiamme contribuì a calmarlo, ma il sonno non venne comunque. Fuori, il vento freddo spingeva armate di foglie morte a marciare attraverso i cortili, a raschiare debolmente porte e finestre. Suoni che gli facevano ricordare nuovamente le storie della vecchia Nan. Poteva quasi udire le sentinelle fantasma lanciarsi richiami sulla sommità della Barriera, dando fiato ai loro corni. I raggi della luna si allungarono oltre il foro nella cupola, dipingendo di una tonalità livida le biforcazioni dell’albero-diga tese verso l’alto. Era come se quell’albero contorto stesse cercando di afferrare la luna, per trascinarla nelle tenebre del pozzo. “Antichi dèi” pregò Bran “se potete udirmi, non mandatemi nessun sogno questa notte. Ma se lo manderete, fate almeno che sia un buon sogno.” Gli antichi dèi non gli risposero.

Bran si costrinse a chiudere gli occhi. Forse riuscì addirittura ad addormentarsi, o forse si appisolò soltanto, fluttuando nello stato di dormiveglia, cercando di non pensare al Pazzo dell’Ascia, al Cuoco dei Topi, alla cosa venuta dalle tenebre.

Poi udì dei rumori.

I suoi occhi si aprirono. “Che cos’è stato?” Trattenne il fiato. “L’avrò sognato? Sarà stato un altro incubo?” Non voleva svegliare Meera e Jojen a causa di un brutto sogno, ma… “Eccolo di nuovo…” Un suono evanescente, lontano… “Foglie, quelle foglie secche che strisciano contro le vecchie mura, che si accartocciano… o forse il vento, sì, potrebbe essere il vento…” Il rumore, però, non proveniva dal mondo esterno. Bran sentì rizzarsi i peli sulle braccia. “È qui, con noi, e sta diventando sempre più forte.” Si appoggiò su un gomito e rimase in ascolto. C’era vento, c’era lo scricchiolare delle foglie secche, ma c’era anche qualcos’altro. “Rumore di passi.” Qualcuno stava venendo verso di loro. Qualcosa stava venendo verso di loro.

Non si trattava delle sentinelle fantasma, no. Le sentinelle non abbandonavano mai la Barriera. Ma potevano esserci altri spettri nel Forte della Notte, ancora più terribili delle settantanove sentinelle. Gli tornò in mente quello che la vecchia Nan diceva riguardo al Pazzo dell’Ascia. Si toglieva gli stivali e percorreva le sale del castello a piedi nudi, nel buio, senza che un solo suono rivelasse la sua presenza: le uniche tracce erano le gocce di sangue che colavano dall’acciaio della sua ascia, dai gomiti e dalla barba rossa, viscida. O forse non era il Pazzo dell’Ascia, forse era la cosa che veniva dalle tenebre. Tutti gli apprendisti l’avevano vista, diceva la vecchia Nan, ma in seguito, quando ne avevano parlato al lord comandante, le loro descrizioni erano state tutte diverse. “Tre di loro morirono entro l’anno, il quarto impazzì. E quando dopo cento anni la cosa dalle tenebre tornò al Forte della Notte, tutti i giovani apprendisti la seguirono avvinti in catene.”

Ma in fondo era una storia tramandata, una leggenda. E lui stava facendosi paura da solo. Non esisteva nessuna “cosa venuta dalle tenebre”, maestro Luwin era stato chiaro. E se anche un’entità simile fosse mai esistita, doveva comunque essere scomparsa dalla faccia della terra, come erano scomparsi i giganti, e i draghi. “Non è niente” tentò di convincersi Bran.

Ma i rumori erano sempre più forti.

“Provengono dal pozzo” si rese conto, e questo lo terrorizzò ancora di più. Qualcosa stava salendo dal ventre della terra, dall’oscurità. “Hodor l’ha risvegliata gettando quello stupido pezzo di ardesia e adesso sta arrivando.” Tra il russare di Hodor e il martellare del proprio cuore, Bran faceva fatica ad ascoltare. Era quello il rumore che fa il sangue quando gocciola da un’ascia? O forse era il debole, remoto tintinnare delle catene degli spettri? Bran tese le orecchie. “Passi.” Erano senza dubbio dei passi, ogni volta un po’ più forti. Non riuscì a definire di quanti… esseri. Il pozzo creava tutti quegli echi. Non udì gocce che cadevano, né catene che tintinnavano. In compenso udì qualcos’altro… un lamento esile, piuttosto acuto, come di qualcuno che soffre, e un respiro pesante, soffocato. Ma il rumore più forte erano i passi. E si stavano avvicinando.

Bran era troppo spaventato per urlare. Il fuoco era ridotto a poche braci, i suoi amici dormivano tutti. Avrebbe voluto scivolare fuori dalla propria pelle per raggiungere il suo lupo, ma Estate era lontano miglia. E lui non avrebbe abbandonato i suoi amici nelle tenebre ad affrontare da soli qualsiasi cosa stesse salendo dal pozzo. “Lo avevo detto che non bisognava venire in questo posto” pensò con disperazione. “Avevo detto che il Forte della Notte è abitato da fantasmi. Li avevo avvertiti che era meglio andare al Castello Nero.”

Quei passi risuonavano pesanti, alle orecchie di Bran, lenti, grevi, strascicati contro la pietra. Secondo le storie della vecchia Nan, il Pazzo dell’Ascia era stato un uomo grande e grosso, e la cosa venuta dalle tenebre una presenza addirittura mostruosa. Quando ancora esisteva Grande Inverno, Sansa gli aveva assicurato che se lui si fosse nascosto bene sotto le coperte i demoni in agguato nel buio non avrebbero potuto toccarlo. Bran fu a un passo dal farlo… “No, sono Brandon Stark, principe di Grande Inverno…” E ormai era quasi un uomo.

Bran si contorse sul pavimento, trascinandosi dietro le gambe inerti, fino a che allungando un braccio riuscì a toccare il piede di Meera. Lei si svegliò di scatto. Bran non aveva mai conosciuto nessuno in grado di svegliarsi con la rapidità di Meera Reed, né di essere così immediatamente all’erta. Bran si portò l’indice alle labbra facendole segno di non parlare. Meera percepì i rumori pressoché all’istante, lui glielo lesse in faccia: l’eco dei passi strascicati, i deboli lamenti, il respiro pesante.

Senza dire una parola, Meera si alzò e impugnò le sue armi. Con il tridente da rane nella destra e la rete nella sinistra, si accostò a piedi nudi all’imboccatura del pozzo. Jojen continuava a dormire, ignaro, Hodor a mugolare e agitarsi nel suo sonno inquieto. Meera scivolò da una tenebra all’altra, aggirando le lame di luce lunare, silenziosa come una pantera-ombra. Anche se non le staccò mai gli occhi di dosso, perfino Bran stentò a distinguere il debole riflesso dell’acciaio del tridente. “Non posso permetterle di affrontare questa minaccia da sola.” Estate era lontano, ma…

… Bran strisciò fuori dalla propria pelle, tendendosi verso Hodor.

Non fu affatto come scivolare dentro Estate: ormai quel passaggio gli riusciva così naturale che Bran aveva smesso di pensarci. Questa volta fu più difficile, fu come cercare di infilare il piede destro nello stivale sinistro. Calzava tutto sbagliato, e anche lo stivale era spaventato, non sapeva che cosa stesse succedendo, cercava di respingere il piede. Bran sentì il gusto acre del vomito in fondo alla gola di Hodor, e questo per poco non lo fece fuggire. Ma non fuggì. Si contorse e si spinse dentro, si mise seduto, raccogliendo le gambe sotto di sé, quelle gambe immani, forti. Si alzò. “Sono in piedi.” Fece un passo. “Cammino.” Una sensazione così strana che Bran per poco non cadde. Poté vedere se stesso, una piccola cosa spezzata, sul freddo pavimento di pietra. Ma adesso lui non era spezzato. Afferrò la spada lunga di Hodor. Il suo respiro risuonò possente come il mantice di un fabbro.

Dal pozzo salì un gemito, uno stridere perforante come una lama. Una forma nera, colossale, si issò dalle tenebre, avventandosi nella luce della luna. Bran sentì la paura dilagare dentro di lui. Una paura talmente feroce, talmente divorante che gli impedì perfino di pensare a impugnare la spada lunga come avrebbe voluto. D’un tratto fu di nuovo sul pavimento. Accanto a lui, Hodor che ruggiva: «Hodor, Hodor, hodor…» nello stesso modo folle in cui aveva urlato nel torrione sull’isola, quando tuoni e fulmini si scatenavano sul lago. Ma anche la cosa venuta dalle tenebre stava urlando, agitandosi freneticamente nella rete di Meera. Bran vide il tridente schizzare all’attacco nel buio. La cosa barcollò, cadde, senza smettere di lottare contro la rete. E dalle profondità del pozzo continuarono a salire i lamenti, ancora più forti. Sul pavimento, l’enorme cosa nera si attorcigliò e sussultò.

E adesso stava anche gridando: «No, vi prego, no! fermi.…».

Meera torreggiava su di lui e i raggi della luna scintillavano argentei sulle punte del tridente. «Chi sei?» intimò.

«SAM!» singhiozzò la cosa nera. «Sono Sam, Sam, lasciami andare… mi hai accoltellato!» Rotolò nella pozza di luce lunare, annaspando nei grovigli della rete di Meera.

Hodor non cessava di gridare: «Hodor Hodor Hodor!».

Per fortuna Jojen aggiunse altra legna al fuoco, attizzò le braci e soffiò fino a quando le fiamme non tornarono ad avvampare crepitando. Il buio si diradò. Bran vide una ragazza esile e pallida immobile sul bordo del pozzo, ricoperta di cuoio e pelli, avvolta in un enorme mantello nero, che cercava di calmare il bimbo che urlava tra le sue braccia. Sul pavimento, la cosa nera stava tentando di arrivare al coltello, ma le maglie della rete continuavano a impedirglielo. Non era un’entità mostruosa, e nemmeno il Pazzo dell’Ascia. Era soltanto un uomo assurdamente grasso vestito di lana nera, pelliccia nera, cuoio nero e maglia di ferro nero.

«È un confratello in nero» esclamò Bran. «Meera, è uno dei Guardiani della notte.»

«Hodor?» Hodor si mise carponi, andando a guardare da vicino la massa nella rete. «Hodor» ripeté in una specie di ululato.

«I Guardiani della notte, sì.» Il grassone respirava anche lui come il mantice di un fabbro. «Sono un confratello dei Guardiani della notte.» Una delle funi della rete premeva contro la sua gola, schiacciandogli la testa verso l’alto. Altre maglie gli intrappolavano la faccia, affondando nelle guance. «Sono un corvo. Tiratemi fuori di qui.»

«Un corvo?» Improvvisamente Bran si sentì attanagliare dal dubbio. «Sei forse il corvo con tre occhi?» “Ma no, non può essere lui.”

«Direi proprio di no.» L’uomo grasso roteò gli occhi, ne aveva solamente due. «Sono Samwell Tarly. E adesso liberatemi… mi fa male.» Quindi riprese a lottare contro le maglie della rete.

Meera fece un verso di disgusto. «Smettila di agitarti. Se mi laceri la rete, ti ributto nel pozzo. Stai fermo e ti libero.»

«Tu chi sei?» chiese Jojen alla ragazza con il bimbo.

«Gilly» rispose lei. «Da gillyflower, garofano. Lui è Sam, Non volevamo farvi paura, davvero.» Cullò il bimbo, sussurrandogli all’orecchio e finalmente riuscì a farlo smettere di piangere.

Meera intanto cercava di districare il grasso confratello in nero.

Jojen si accostò al pozzo, osservò la profondità oscura. «Da dove venite?»

«Dal Castello di Craster» disse Gilly. «Sei tu il prescelto?»

Jojen si voltò a guardarla. «Quale prescelto?»

«Lui ha detto che Sam non era quello giusto» spiegò la ragazza. «Che c’era qualcun altro, così ha detto. Che lui doveva trovare il prescelto.»

«Lui chi?» chiese Bran.

«Manifredde» rispose Gilly in un sussurro.

Meera ripiegò un lembo della rete e l’uomo grasso finalmente riuscì a mettersi seduto. Bran notò che stava tremando mentre cercava di riprendere fiato.

«Ha detto che ci sarebbe stata gente, nel castello» ansimò. «Però non credevo che la trovavamo proprio in cima ai gradini, e nemmeno che mi gettavate addosso una rete, accoltellandomi nello stomaco.» Si tastò il ventre con una mano coperta da un guanto nero. «Perdo sangue? Non riesco a vedere.»

«Era solo un colpetto per rimetterti in piedi» disse Meera. «Qui, fammi vedere.» Mise un ginocchio a terra e gli tastò la pancia. «Ma porti una maglia di ferro: non ho nemmeno sfiorato la pelle.»

«Be’, mi ha fatto male lo stesso» protestò Samwell.

«Ma sei davvero un confratello dei Guardiani della notte?» insistette Bran.

L’uomo grasso annuì, facendo tremolare svariati menti. La sua pelle era pallida e malandata. «Sono solo un attendente. Mi occupavo dei corvi di lord Mormont.» Per un attimo, parve sul punto di mettersi a piangere. «Li ho perduti tutti sul Pugno dei Primi Uomini. I corvi, intendo. È stata colpa mia. E poi ci siamo perduti, anche noi. Non sono nemmeno riuscito a trovare la Barriera. È lunga centinaia di leghe e alta settecento piedi, eppure… non sono riuscito a trovarla!»

«Be’, adesso l’hai trovata» intervenne Meera. «Su, forza, alza il culo da terra: rivoglio la mia rete.»

«Come hai fatto a superare la Barriera?» chiese Jojen, mentre Samwell arrancava per rimettersi in piedi. «Questo pozzo porta a un fiume sotterraneo, è da là che vieni? Non sei neppure bagnato…»

«C’è un passaggio» spiegò il grasso Sam. «Un passaggio nascosto, antico quanto la Barriera stessa. È chiamato il Portale delle Tenebre.»

I due Reed si scambiarono un’occhiata. «E lo troveremo in fondo a questo pozzo?» chiese Jojen.

«Non troverete un bel niente. E se anche lo trovaste, non si aprirebbe. Non per voi. È un Portale delle Tenebre, ve l’ho detto.» Sam diede qualche colpetto alla manica impolverata di lana nera scolorita. «Soltanto un Guardiano della notte può aprirlo, così dice lui; un confratello ordinato che abbia pronunciato il giuramento.»

«Così dice lui» Jojen corrugò la fronte. «Parli sempre di questo… Manifredde?»

«Quello non è mica il suo vero nome» disse Gilly, continuando a cullare il piccolo. «Siamo noi che lo abbiamo chiamato a quel modo, io e Sam. Le sue mani sono fredde come il ghiaccio, ma ci ha salvato dai morti che camminano — lui e i suoi corvi — e ci ha portato fino a qua sul suo alce.»

«Un alce?» Bran era senza parole.

«Un alce?» fece eco Meera incredula.

«I suoi corvi?» ripeté Jojen.

«Hodor?» disse Hodor.

«Era verde?» chiese Bran. «Aveva corna di cervo?»

L’uomo grasso era confuso. «Chi, l’alce?»

«No, Manifredde» rispose Bran, con impazienza. «Gli uomini verdi cavalcano alci, la vecchia Nan lo diceva sempre, e alcuni hanno anche le corna.»

«Non era un uomo verde. Portava abiti neri, come tutti i confratelli dei Guardiani della notte, ma era pallido come un morto che cammina, e le sue mani erano così fredde che all’inizio ho avuto paura. I morti che camminano hanno occhi azzurri scintillanti, però, e sono senza lingua, o forse non sanno più come si usa.» L’uomo grasso si voltò verso Jojen. «Lui è giù che aspetta. Dovremmo muoverci. Non avete qualcosa di più caldo da mettervi addosso? Il Portale delle Tenebre è freddo. E al di là della Barriera fa anche più freddo. Voi…»

«Perché non è salito anche lui?» chiese Meera, poi aggiunse facendo un cenno verso Gilly e il piccolo: «Loro sono venuti, perché non hai portato anche lui attraverso il Portale delle Tenebre?».

«Lui… non può passare.»

«Perché?»

«A causa della Barriera. La Barriera non è solo ghiaccio e roccia, dice. Custodisce al suo interno magie… antiche e potenti. Lui non può oltrepassare la Barriera.»

Di colpo calò il silenzio nelle cucine del Forte della Notte. Bran poté udire di nuovo il lieve crepitare delle fiamme, il vento che trascinava le foglie morte nel buio, lo scricchiolare dell’esile albero-diga proteso verso la luna. “Al di là vivono i mostri” gli tornarono alla mente le parole della vecchia Nan “ma fino a quando la Barriera si ergerà possente, loro non potranno passare. Per cui, dormi, mio piccolo Brandon, dormi, bambino mio. Non avere paura. Qui non ci sono mostri.”

«Non sono io quello che ti è stato detto di portare al di là» disse Jojen Reed al grasso Sam, infagottato nei suoi abiti neri chiazzati e malridotti. «È lui.»

«Oh.» Sam abbassò uno sguardo incerto su Bran. Forse era stato in quel preciso momento che si era reso conto che Bran era uno storpio. «Io non… non sono abbastanza forte per trasportarti. Io…»

«Può trasportarmi Hodor.» Bran indicò la gerla. «Mi metto sulla sua schiena.»

Samwell Tarly continuò a osservarlo. «Tu sei il fratello di Jon Snow. Quello che è caduto dalla torre…»

«No» intervenne Jojen. «Quel ragazzo è morto.»

«Non dirlo a nessuno» disse Bran. «Ti prego.»

Per qualche attimo, Sam parve sperduto, ma alla fine disse: «Io… so mantenére un segreto. E anche Gilly». Le lanciò un’occhiata e la ragazza annuì. «Jon… Jon era anche mio fratello. Il migliore amico che io abbia mai avuto. Poi è andato in esplorazione sugli Artigli del Gelo assieme a Qhorin il Monco, e non è più tornato. Lo stavamo aspettando sul Pugno dei Primi Uomini quando… quando…»

«Jon è qui» affermò Bran. «Estate lo ha visto. Era assieme ai bruti, poi loro hanno ucciso un uomo, così Jon ha preso il suo cavallo ed è fuggito. Sono sicuro che è andato al Castello Nero.»

Sam si girò verso Meera con gli occhi spalancati. «Sei certa che fosse Jon? Lo hai visto bene?»

«Io sono Meera» disse lei con un sorriso. «Estate è…»

Un’ombra si staccò dalla cupola in rovina sopra di loro, balzando nel cono di luce della luna. Perfino con una zampa ferita, il meta-lupo atterrò leggero e silenzioso come un fiocco di neve. Gilly si lasciò sfuggire un gemito. Strinse il piccolo così forte da farlo piangere di nuovo.

«Non vi farà alcun male» assicurò Bran. «Lui è Estate.»

«Jon diceva che tutti voi Stark avete dei meta-lupi.» Sam si sfilò un guanto. «Io ho conosciuto Spettro.» Tese una mano tremante, con le dita morbide e grasse come salsicciotti. Estate si avvicinò, l’annusò e poi la leccò.

Fu questo a fare decidere Bran. «Verremo con te.»

«Tutti?» Sam era sorpreso.

Meera arruffò i capelli di Bran. «Lui è il nostro principe.»

Estate girò intorno al pozzo, annusando. Si fermò vicino al gradino più alto, voltandosi a osservare Bran. “Anche lui vuole venire.”

«Gilly sarà al sicuro qui fino al mio ritorno?» chiese Sam.

«Penso di sì» rispose Meera. «Potrà riscaldarsi al nostro fuoco.»

«Il castello è vuoto» aggiunse Jojen.

Gilly diede un’occhiata all’interno. «Craster ci raccontava storie sui castelli, ma non sapeva che fossero così grandi.»

“E queste sono solo le cucine.” Bran si chiese che cosa avrebbe detto di Grande Inverno, se mai le fosse capitato di vederlo.

Nel giro di pochi minuti raccolsero tutte le loro cose e issarono Bran nella gerla sulle spalle di Hodor. Quando furono pronti, Gilly si era seduta accanto al fuoco ad allattare il piccolo. «Torna per me» disse a Sam.

«Il più in fretta possibile» promise lui «e poi andiamo in qualche posto dove fa caldo.»

Nell’udire quelle parole, Bran non poté fare a meno di domandarsi che cosa stava per fare. “E io? Potrò mai andare ancora in un posto dove fa caldo?”

«Vado prima io che conosco la strada.» Sull’orlo del pozzo, Samwell esitò. «È che sono così tanti, questi gradini…» Sospirò e cominciò a scendere. Jojen lo seguì, poi Estate, poi Hodor con Bran sulla schiena. Meera si mise di retroguardia, con il tridente e la rete in pugno.

Fu una strada molto lunga per arrivare in fondo. L’imboccatura del pozzo era ammantata dai raggi della luna e bene illuminata. Ma, a mano a mano che scendevano a ridosso della parete ricurva, la strada diventava sempre più stretta e sempre meno illuminata. I loro passi echeggiavano sui gradini bagnati. Dal basso, il rumore d’acqua si faceva sempre più forte.

«Forse avremmo dovuto portare delle torce» disse Jojen.

«I vostri occhi si abitueranno all’oscurità» rispose Sam. «Tenete una mano contro il muro, così non cadrete.»

Ma a ogni giro, il muro diventava più freddo e più scuro. Bran sollevò il viso per guardare in alto. L’imboccatura del pozzo non era più grande di una mezza luna.

«Hodor» sussurrò Hodor.

«Hodorhodorhodorhodorhodorhodor» sussurrò il condotto in risposta.

Il rumore d’acqua adesso era più vicino. Bran guardò giù, ma non vide altro che oscurità.

Un giro, un altro giro. All’improvviso, Sam si fermò. Si trovava a un quarto di circonferenza del pozzo rispetto a Bran e Hodor, circa sei piedi più in basso, eppure Bran riusciva a vederlo a stento. In compenso poteva vedere il passaggio. Il Portale delle Tenebre, come lo aveva chiamato Samwell Tarly. Solo che non era affatto tenebroso.

Era un albero-diga bianco, su cui era scolpito un volto.

Il legno emanava una sorta di luminescenza lattiginosa sotto i raggi della luna, un chiarore così tenue da non oltrepassare nemmeno il portale stesso. Non illuminava neppure Sam, in piedi a un passo di distanza. Il volto scolpito era pallido, scavato, contratto. “Sembra il viso di un morto.” Aveva la bocca chiusa, e anche gli occhi, le guance erano infossate, la fronte raggrinzita e il mento sfuggente. “Se un uomo potesse vivere fino a mille anni senza mai morire, invecchiando e basta, forse il suo viso avrebbe questo aspetto.”

Il Portale delle Tenebre aprì gli occhi.

Occhi bianchi. Occhi ciechi. «Chi sei?» domandò.

«Seiseiseiseiseiseisei» sussurrò il pozzo.

«Io sono la spada nelle tenebre» rispose Samwell Tarly, Guardiano della notte. «Io sono la sentinella che veglia sul muro. Io sono il fuoco che arde contro il freddo, la luce che porta l’alba, il corno che risveglia i dormienti. Io sono lo scudo che veglia sui dominii degli uomini.»

«Allora passa» rispose il Portale delle Tenebre.

Le labbra del volto si aprirono, di più, sempre di più. Continuarono ad aprirsi fino a quando non restò che una grande bocca spalancata circondata da grinze.

Sam si spostò da una parte, fece cenno a Jojen di andare per primo. Poi passò Estate, annusando la soglia. Quindi fu il turno di Bran. Hodor si chinò, ma non abbastanza. Il labbro superiore del Portale delle Tenebre sfiorò, sfiorò appena, il capo di Bran. Una goccia d’acqua cadde su di lui, scivolando lentamente lungo il suo naso. Era stranamente calda. Ed era salata.

Come le lacrime.

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