DAVOS

La cella era molto più calda di quanto avrebbe dovuto essere qualsiasi cella.

Era piena di tenebre, questo sì. Il tremolante chiarore arancione di una torcia che ardeva in una nicchia nella parete del corridoio esterno riusciva a filtrare tra le ancestrali sbarre di ferro, ma la metà più interna della segreta rimaneva immersa in una penombra fitta. Era anche umido, là dentro. Esattamente come c’era da aspettarsi su un’isola come la Roccia del Drago, dove il mare non era mai troppo lontano. E c’erano anche ratti, come in qualsiasi altra cella. Forse addirittura qualcuno di più.

In ogni caso, Davos Seaworth non aveva da lamentarsi per il freddo. I passaggi di pietra levigata che solcavano la grande massa della Roccia del Drago erano sempre caldi, e Davos aveva sentito dire spesso che più in profondità si scendeva nelle viscere del sottosuolo più il calore aumentava. Si trovava molto al di sotto della fortezza, aveva valutato. A volte, nell’appoggiare il palmo della mano alle pareti le trovava calde al tocco. Forse c’era del vero nelle antiche leggende: forse la Roccia del Drago era veramente costruita con le pietre dell’inferno.

Quando lo avevano rinchiuso là dentro, era malato. La tosse che lo aveva tormentato dalla battaglia sul fiume era peggiorata. Anche la febbre aveva sferrato i suoi attacchi. Vesciche sanguinose gli erano scoppiate sulle labbra. A dispetto del calore della cella, non riusciva a smettere di tremare. “Non reggerò ancora a lungo” ricordava di aver pensato. “Presto sarò morto, da solo, in queste tenebre.”

Ma di lì a non molto, Davos scoprì di sbagliarsi. Così come si era sbagliato su molte altre cose. Aveva solo memorie vaghe. Due mani gentili, una voce determinata, il giovane maestro Pylos che lo osservava. Gli erano stati dati da bere del brodo caldo all’aglio e del latte di papavero, in modo da alleviare la sofferenza e i brividi. Il papavero lo aveva fatto scivolare nel sonno. Mentre dormiva, le sanguisughe avevano portato via il sangue cattivo. O per lo meno, questo aveva pensato al risveglio, ritrovandosi con le braccia disseminate dalle tracce lasciate da quei viscidi animali. Con il tempo, la tosse diminuì, le vesciche scomparvero e il brodo cominciò a contenere pezzetti di pesce, di carote e di cipolle. E poi, un giorno, Davos si rese conto di sentirsi più in forze di quanto lo non lo fosse stato da quando la Betha nera era andata in pezzi sotto di lui, scaraventandolo nel fiume delle Rapide nere.

C’erano due carcerieri a sorvegliarlo. Uno era tozzo e nodoso, dalle spalle spesse e le mani enormi, fortissime. Indossava una tunica di cuoio costellata di borchie di ferro e, una volta al giorno, portava a Davos una ciotola di porridge d’avena. In certi casi l’addolciva con il miele, oppure l’allungava con un po’ di latte. L’altro carceriere era più anziano, aggobbito, avvizzito, dai capelli unti non lavati e la pelle chiazzata. Indossava un farsetto di velluto bianco che aveva sul pettorale sinistro un anello di stelle ricamato con filo dorato. Come indumento gli stava male: era troppo corto e troppo largo, e anche lurido, lacerato. Portava a Davos piatti di carne e patate, o di stufato di pesce. In una circostanza, gli aveva servito addirittura un mezzo sformato di lampreda. Un piatto talmente ricco che Davos non era riuscito a tenerlo nello stomaco. Comunque, per un prigioniero gettato in fondo a una segreta, si trattava di una vera leccornia.

Non brillavano né sole né luna nelle segrete. Nessuna finestra perforava le spesse pareti di pietra. Erano i ritmi dei carcerieri a fornire le uniche tracce della transizione dal giorno alla notte. Non erano muti, ma nessuno dei due gli rivolgeva mai la parola. A volte, al cambio del turno, li sentiva scambiare poche battute aspre. Non gli avevano neppure detto i loro nomi, per cui Davos aveva affibbiato loro dei soprannomi. Quello tozzo e forte era Porridge, quello vecchio e gobbo Lampreda, per lo sformato. Il passare dei giorni era scandito dall’alternarsi dei pasti, e dalla sostituzione delle torce nella nicchia fuori della cella.

Nelle tenebre, un uomo arriva a sentire il peso della solitudine, un uomo ha sete anche solo del suono della voce umana. Davos parlava con i carcerieri ogni volta che entravano nella cella, o a portargli il cibo o a prelevare il secchio degli escrementi. Sapeva che sarebbero stati sordi a qualsiasi invocazione di libertà o di clemenza. Per cui, nella speranza che un giorno potessero dargli delle risposte, si era messo a fare loro domande. «Che notizie ci sono della guerra?» chiedeva, e: «Il re sta bene?». Aveva anche chiesto di suo figlio Devan, della principessa Shireen, di Salladhor Saan. «Com’è il tempo?», «Le tempeste d’autunno hanno avuto inizio?», «Le navi continuano ad attraversare il mare Stretto?».

Solo che, qualsiasi cosa lui chiedesse, non aveva nessuna importanza: i carcerieri non rispondevano mai. A volte, Porridge gli lanciava una mezza occhiata e, per meno di un battito di ciglia, Davos arrivava a sperare che l’altro potesse rispondere. Ma non accadeva mai. Quanto a Lampreda, non c’era nemmeno la mezza occhiata. “Non sono un uomo, per lui” aveva intuito Davos. “Sono solamente una sorta di pietra che mangia e caca e parla.” Arrivò a decidere che, dei due, era Porridge quello che gli piaceva di più. Porridge per lo meno sembrava sapere che lui era vivo, e c’era una sorta di strana gentilezza in lui. Davos sospettava che desse da mangiare anche ai ratti, talmente tanti ne zampettavano attorno. Credette addirittura di aver udito Porridge parlare con loro come se fossero dei bambini, ma forse, questo lo aveva soltanto sognato.

“Non hanno intenzione di lasciarmi morire” si rese conto. “Mi stanno tenendo in vita, per, chissà quale loro scopo.” Ma non gli piaceva pensare quale potesse essere la loro strategia. Lord Sunglass era stato confinato nelle celle sotto la Roccia del Drago, per un certo periodo di tempo. E anche i figli di ser Hubard Rambton. Erano stati tutti bruciati sul rogo. “Avrei dovuto consegnare me stesso al mare” pensò Davos, osservando la torcia al di là delle sbarre. “Oppure avrei dovuto lasciare che quella vela se ne andasse e basta. Preferisco essere cibo per i granchi piuttosto che nutrire la fiamma.”

Poi, una notte, mentre stava finendo la cena, Davos ebbe come la percezione di una presenza. Spostò lo sguardo al di là delle sbarre. E lei era là. Una visione scarlatta: il grande rubino alla gola, gli occhi rossi che scintillavano vividi come la torcia che la illuminava.

«Melisandre» disse Davos, con una calma che non aveva.

«Cavaliere della cipolla» replicò lei con la medesima calma, come se si fossero appena incrociati sulle scale o nel cortile, scambiandosi piacevolezze. «Ti senti meglio?»

«Meglio di quanto non mi sentissi prima.»

«Ti manca qualcosa?»

«Il mio re. Mio figlio. Sono loro che mi mancano.» Spinse da parte la ciotola e si alzò in piedi. «Sei venuta a bruciarmi?»

«Questo è un luogo cattivo, non è forse così?» Gli inquietanti occhi rossi di lei lo studiarono attraverso le sbarre. «Un luogo oscuro, infetto. E il sole non brilla, qua sotto, né la luna.» Melisandre allungò una mano verso la torcia nella nicchia. «Questa è l’unica cosa che ti separa dalle tenebre, cavaliere della cipolla. Questo pìccolo fuoco, dono di R’hllor. Vuoi che lo estingua?»

«No.» Davos si avvicinò alle sbarre. «Non farlo.» Sapeva che non sarebbe stato in grado di tollerarlo: rimanere solo nelle tenebre assolute, con i topi quale unica compagnia.

Le labbra della donna rossa s’incurvarono verso l’alto in un sorriso. «Quindi hai imparato ad amare il fuoco, sembrerebbe.»

«Ho bisogno della torcia.» Le mani di Davos si aprirono, tornarono a serrarsi. “Non la supplicherò. Non lo farò.”

«Io sono come questa torcia, ser Davos. Siamo entrambi strumenti di R’hllor. Esistiamo per un unico scopo: tenere lontane le tenebre. Tu credi a questo?»

«No.» Forse avrebbe dovuto mentire, dirle quello che lei voleva sentire. Ma Davos Seaworth era troppo abituato a dire la verità per farlo. «Tu sei la madre delle tenebre. Ho visto con i miei occhi che cosa hai partorito sotto Capo Tempesta.»

«Quindi il valoroso cavaliere della cipolla ha paura dello scivolare di un’ombra? Rincuorati, allora. Le ombre vivono soltanto quando è la luce a farle nascere. In questo momento, i fuochi del re ardono talmente deboli che non oso nutrirmene per generare un altro figlio. Lo sforzo potrebbe ucciderlo.» Melisandre si fece più vicina. «Ma con un altro uomo… un uomo la cui fiamma arde torrida, e alta… se tu veramente desideri servire la causa del tuo re, vieni nelle mie stanze, una notte. Potrei darti piacere quale mai hai conosciuto, E per mezzo del tuo fuoco vitale, potrei generare…»

«…un orrore.» Davos si ritrasse da lei. «Io non voglio nessuna parte di te, mia signora. Né del tuo dio. Possano i Sette Dèi proteggermi.»

Melisandre sospirò. «I Sette Dèi non hanno protetto Guncer Sunglass. Pregava tre volte al giorno, il buon lord. E sul suo scudo aveva raffigurate sette stelle a sette punte. Ma quando R’hllor ha allungato la mano per prenderlo, le sue preghiere si sono tramutate in urla, e lui è bruciato. Perché rimanere aggrappati a questi falsi dèi?».

«Li ho adorati per tutta la mia vita.»

«Tutta la tua vita, Davos Seaworth? Tanto varrebbe dire: era così ieri.» La donna rossa scosse il capo con tristezza. «Non hai mai avuto paura di dire la verità ai re, perché quindi menti a te stesso? Apri gli occhi, messer cavaliere.»

«Che cosa vorresti che vedessi?»

«La struttura del mondo. La verità è tutto attorno a te, bene in vista. La notte è oscura e piena di terrori, il giorno è chiaro e splendido, pieno di speranza. L’una è nera, l’altro è bianco. Esiste il ghiaccio ed esiste il fuoco. Odio e amore. Amaro e dolce. Dolore e piacere. Inverno ed estate. Male e bene. Maschio e femmina.» La sacerdotessa fece un passo verso di lui. «Morte e vita. Dovunque esistono gli opposti. E dovunque esiste la guerra.»

«Quale guerra?» chiese Davos.

«La guerra!» affermò Melisandre. «Sono due, cavaliere della cipolla. Non sette, non uno, non cento e nemmeno mille. Due! Credi forse che abbia davvero attraversato metà del mondo soltanto per mettere un ennesimo, vuoto re su un ennesimo, vuoto trono? La guerra si combatte dal momento stesso in cui il tempo ha avuto inizio e, prima che si concluda, tutti gli uomini dovranno scegliere da che parte schierarsi. Da una parte c’è R’hllor, Signore della luce, Cuore del fuoco, Dio della fiamma e dell’ombra. Contro di lui si erge il dio Estraneo, il cui nome non può essere pronunciato, Signore delle tenebre, Anima del ghiaccio, Dio della notte e del terrore. La nostra scelta non è tra Baratheon e Lannister, o tra Greyjoy e Stark. È la morte che siamo chiamati a scegliere, oppure la vita. Le tenebre, oppure la luce.» Le sue snelle mani bianche afferrarono le sbarre della cella. Il grande rubino che portava alla gola parve pulsare di una propria radianza interna. «Dimmi, quindi, ser Davos Seaworth, e dimmi il vero: il tuo cuore brilla della pura, splendente luce di R’hllor? Oppure è nero e freddo e pieno di vermi?» Melisandre allungò una mano oltre le sbarre. Pose tre dita sulla parte sinistra del petto di Davos, quasi stesse cercando di sentire la verità sotto la lana, il cuoio, la carne.

«Il mio cuore» rispose lentamente Davos. «È pieno di dubbi.»

«Ahhh, Davos…» Melisandre sospirò. «Il buon cavaliere è onesto fino alla fine, perfino nel giorno delle tenebre. È un bene che tu non mi abbia mentito. Lo avrei saputo. I servitori del dio Estraneo spesso celano i loro cuori neri dietro una luce brillante. Per questo R’hllor concede ai suoi preti rossi il potere di vedere oltre la falsità.» Arretrò leggermente dalla cella. «Perché volevi uccidermi?»

«Te lo dirò» disse Davos. «A patto che tu dica a me chi mi ha tradito.» Sapeva che poteva essere stato solo Salladhor Saan. Eppure, perfino in quel momento, in quel luogo, pregò che non fosse quella la risposta.

La donna rossa rise. «Nessuno ti ha tradito, cavaliere della cipolla. Sono stata io a vedere le tue intenzioni, nelle fiamme.»

Le fiamme. «Se davvero sei in grado di vedere il futuro, in queste tue fiamme, perché siamo bruciati sulle Rapide nere? Tu hai consegnato i miei figli al fuoco… i miei figli, i miei vascelli, i miei uomini… bruciati. Tutti.»

«Tu mi fai un torto, cavaliere della cipolla.» Melisandre scosse il capo. «Quello non era il mio, di fuoco. Se fossi stata con voi, la battaglia avrebbe avuto un esito molto diverso. Ma sua maestà era circondato da miscredenti, e il suo orgoglio è stato più forte della sua fede. La sua punizione si è rivelata estrema, ma lui ha imparato dai suoi errori.»

“Quindi i miei figli altro non sono stati che una lezione per un re?” Davos sentì le labbra contrarsi.

«È notte nei vostri Sette Regni, adesso» riprese Melisandre. «Ma presto il sole tornerà a sorgere. La guerra continua, Davos Seaworth, e tra breve qualcuno imparerà che perfino da una brace sepolta sotto la cenere può avere origine un grande incendio. Il vecchio maestro guardava Stannis, ma tutto quello che vedeva era un uomo. Tu vedi un re. Entrambi vi sbagliate. Lui è il prescelto del Signore della luce, lui è il guerriero del fuoco. Io l’ho visto guidare la lotta contro l’oscurità, l’ho visto nelle fiamme. E le fiamme non mentono, diversamente tu non ti troveresti qui dentro.

«Quando la stella rossa sanguinerà e le tenebre si faranno più fitte, Azor Ahai nascerà di nuovo dal fumo e dal sale, per risvegliare i draghi dalla pietra. La stella che sanguina è arrivata ed è andata, e la Roccia del Drago è il luogo del fumo e del sale. Stannis Baratheon è Azor Ahai nato di nuovo!» I suoi occhi rossi parevano ardere come due fuochi, scrutando nelle profondità stesse dell’anima di Davos. «Tu non mi credi. Perfino qui e ora, tu dubiti della verità di R’hllor… cionondimeno, lo hai servito. E lo servirai ancora. Ti lascio, Davos Seaworth, in modo che tu possa pensare a tutto quello che ti ho detto. E poiché R’hllor è la sorgente di tutto il bene, ti lascerò anche la torcia.»

Un sorriso, un vorticare di gonne scarlatte, e Melisandre di Asshai svanì. Uniche tracce del suo passaggio, il suo profumo e la torcia.


Davos si lasciò scivolare sul pavimento della cella, stringendosi le ginocchia tra le braccia. La luce della torcia disegnò su di lui un cangiante mosaico di chiaroscuri. Dopo che anche l’eco dei passi di Melisandre si fu disperso, l’unico suono rimasto nelle segrete fu lo zampettare dei ratti.

“Ghiaccio e fuoco” pensò Davos. “Terrore e speranza. Tenebre e luce.” Non poteva negare il potere del dio della donna rossa. Aveva visto con i suoi occhi l’ombra emergere dal ventre di Melisandre, e la sacerdotessa sapeva cose che nessun uomo le aveva detto. “Ha visto le mie intenzioni nelle fiamme.” Era lieto che Salladhor Saan non lo avesse venduto, ma il pensiero della donna rossa in grado di scoprire i suoi segreti scrutando nel fuoco lo rendeva inquieto oltre il descrivibile. “E che cosa intendeva quando ha detto che ho servito il suo dio e che lo servirò ancora?” Un’altra idea che non gli piaceva affatto.

Sollevò lo sguardo, fissando la torcia. Rimase a fissarla per molto tempo, senza mai sbattere le palpebre, osservando le fiamme torcersi e pulsare. Cercò di vedere al di là di esse, di scrutare nei tendaggi di fuoco, di capire che cosa potesse esistere in quelle regioni sconosciute… ma non vide nulla, solamente fuoco. E dopo un po’, i suoi occhi cominciarono a lacrimare.

Cieco nei confronti di qualunque dio, stremato nel corpo, Davos si raggomitolò su se stesso e si abbandonò al sonno.


Erano passati tre giorni, Porridge era venuto tre volte e Lampreda due, quando Davos udì delle voci all’esterno della cella. All’istante, da sdraiato si mise a sedere, la schiena contro la parete di pietra, ascoltando i rumori di qualcuno che lottava. Qualcosa di nuovo: un mutamento in un mondo immutabile. I rumori venivano da sinistra, dove i gradini conducevano verso l’alto, verso la luce del giorno. Udì la voce di un uomo che implorava, che urlava.

«…follia!» gridava l’uomo, entrando nel campo visivo di Davos. Era trascinato in avanti da due guardie con l’emblema del cuore fiammeggiante sui pettorali delle tuniche. Li precedeva Porridge, con in mano l’anello con le chiavi delle celle che tintinnava. Ser Axell Florent chiudeva il piccolo gruppo.

«Axell!» invocò disperatamente il prigioniero «in nome dell’amore che hai per me… lasciami andare! Non puoi farmi questo! Non sono un traditore!» Era un uomo anziano, capelli grigio argento, barba appuntita. I suoi lunghi, raffinati lineamenti erano distorti dalla paura. «Dov’è Selyse? Dov’è la regina? Esigo di vederla. Che gli Estranei vi portino tutti quanti alla dannazione! Lasciatemi andare!»

Le guardie ignorarono lo sfogo. «Qui?» domandò Porridge di fronte alla cella. Davos si alzò in piedi. Per un attimo, valutò la possibilità di aggredirli nel momento in cui avessero aperto la porta, ma anche questo era follia. Erano in troppi, le guardie erano armate di spada e Porridge era forte come un toro.

Ser Axell annuì al carceriere in modo secco. «Che i traditori si tengano buona compagnia.»

«Non sono un traditore!» sbraitò il prigioniero mentre Porridge faceva scattare la serratura. Per quanto vestito dimessamente, farsetto di lana grigia e brache nere, il suo modo di parlare era quello di un nobile. “Il suo lignaggio non gli servirà a niente, qui sotto.”

Porridge spalancò la porta a sbarre, ser Axell annuì di nuovo, e le due guardie spinsero dentro il prigioniero. L’uomo scivolò, sarebbe caduto se Davos non lo avesse afferrato in tempo. Ma il nuovo arrivato si sciolse immediatamente dalla sua stretta e si lanciò contro le sbarre. Che gli vennero sbattute in faccia, quella sua faccia pallida e ben curata.

«No…» urlò. «Nooo!» Di colpo, tutta la forza che aveva nelle gambe di dissipò. Lentamente, si lasciò scivolare a terra, le mani strette sulle sbarre di ferro. Ser Axell, Porridge e le due guardie si erano già voltate per andare via. «Non potete fare questo» gridò mentre si allontanavano. «Io sono il Primo Cavaliere del re!»

Fu allora che Davos lo riconobbe. «Tu sei Alester Florent.»

L’uomo girò la testa verso di lui. «Chi…?»

«Ser Davos Seaworth.»

«Seaworth…» Lord Alester strinse gli occhi. «Il cavaliere della cipolla. Hai cercato di assassinare Melisandre.»

Davos non negò. «A Capo Tempesta, tu indossavi un’armatura d’oro rosso, con fiori di lapislazzuli sulla corazza pettorale.» Allungò una mano, aiutando il nobiluomo a rialzarsi.

Lord Alester si tolse dagli abiti fili di paglia lurida. «Io… io devo scusarmi per il mio aspetto, cavaliere. I miei bauli sono andati perduti quando i Lannister hanno assaltato il nostro accampamento. Sono riuscito a fuggire con soltanto la maglia di ferro che avevo addosso e gli anelli alle dita.»

“Anelli che porta ancora” rilevò Davos, al quale mancavano perfino parti delle dita.

«Senza dubbio alcuno» continuò lord Alester, in tono del tutto assente «in questo momento, un qualche sguattero, un qualunque stalliere se ne sta andando in giro per Approdo del Re sfoggiando il mio farsetto di velluto ricamato e il mio mantello ornato di gioielli. Ma la guerra ha i suoi orrori, ogni uomo è consapevole di questo. Né dubito che anche tu abbia perduto qualcosa.»

«La mia nave» disse Davos. «Tutti i miei uomini. Quattro dei miei figli.»

«Possa… possa il Signore della luce guidarli attraverso l’oscurità fino a un mondo migliore» balbettò lord Alester.

“Possa il Padre giudicarli in modo giusto, e la Madre assicurare loro misericordia” pregò silenziosamente Davos. Silenziosamente in quanto i Sette Dèi non potevano più esistere alla Roccia del Drago.

«Mio figlio è al sicuro ad Acquachiara» riprese il lord. «Ma ho perduto un nipote che era a bordo della Furia. Ser Imry, figlio di mio fratello Ryam.»

Era stato proprio ser Imry Florent a condurli alla cieca su per il fiume delle Rapide nere, a massima forza di remi, ignorando nel modo più completo le piccole torri di pietra erette di recente all’imboccatura del fiume. Qualcosa che Davos non avrebbe mai dimenticato.

«Mio figlio Maric era capo rematore sulla Furia.» Davos ricordò l’ultima immagine che aveva del vascello, tramutato in una crisalide di fuoco verde. «C’è notizia di eventuali superstiti?»

«La Furia è bruciata, per poi inabissarsi con tutto il suo equipaggio» disse il lord. «Tuo figlio e mio nipote sono caduti, assieme a innumerevoli altri uomini coraggiosi. Quel giorno, cavaliere, anche la guerra è stata perduta.»

“Questo è un uomo sconfitto.” A Davos tornarono in mente le parole di Melisandre sulle braci sepolte sotto le ceneri, che ancora potevano accendere grandi incendi. “Nessuna meraviglia che sia finito qui.” «Sua maestà non si arrenderà mai, mio lord.»

«Follia, pura follia.» Lord Alester sedette nuovamente a terra, come se lo sforzo di rimettersi in piedi fosse stato per lui troppo grande. «Stannis Baratheon non arriverà mai a sedere sul Trono di Spade. È forse tradimento dire la verità? Un’amara verità, certo, ma non per questo meno valida. La sua flotta non esiste più, eccetto per le navi lyseniane. E comunque, al primo avvistamento di una vela Lannister, Salladhor Saan è pronto a fuggire. La maggior parte dei lord che appoggiavano Stannis sono passati a Joffrey, oppure sono morti…»

«Perfino i lord del mare Stretto? I lord che hanno giurato fedeltà alla Roccia del Drago?»

Lord Alester fece un vago gesto con la mano. «Lord Celtigar è stato catturato e ha fatto atto di sottomissione. Monford Velaryon è affondato con la sua nave, la donna rossa ha bruciato Sunglass sul rogo, quanto a lord Bar Emmon, ha quindici anni, ed è grasso e cagionevole. Eccoli, i tuoi lord del mare Stretto, ser. A Stannis, rimane solo la forza della Casa Florent, contro il potere congiunto di Alto Giardino, Lancia del Sole e Castel Granito. E ora, anche della maggior parte dei lord della tempesta. L’unica speranza è tentare di salvare il salvabile negoziando la pace. Era solo questo che intendevo fare, nulla di più. Che gli dèi siano misericordiosi, com’è possibile chiamarlo tradimento

Davos rimase in piedi, la fronte aggrottata. «Mio lord, che cosa hai fatto?»

«Nessun tradimento. Mai, il tradimento. Amo sua maestà più di qualsiasi altro uomo. Mia nipote è la regina, e io sono rimasto leale a Stannis quando uomini ben più saggi di me lo hanno abbandonato. Io sono il suo Primo Cavaliere, il Primo Cavaliere del re, come faccio a essere un traditore? Il mio unico scopo era salvare delle vite e… ebbene sì: anche salvare l’onore.» Si passò la lingua sulle labbra secche. «Ho scritto una lettera. Salladhor Saan aveva spergiurato di avere a disposizione un uomo in grado di recapitarla ad Approdo del Re, a lord Tywin. Il signore di Castel Granito, lui… è uomo di ragione. E i miei termini negoziali… i miei termini erano onesti… più che onesti.»

«E quali condizioni erano, mio lord?»

«È lercio, qui dentro» disse lord Alester all’improvviso. «E quest’odore… che cos’è quest’odore?»

«Viene dal secchio.» Davos accennò verso le ombre della segreta. «Non abbiamo latrina. Per cui, quei termini?»

Il lord guardò il secchio con espressione orripilata. «Che lord Stannis rinunciasse alla sua pretesa al Trono di Spade e ritrattasse tutto quanto aveva detto in merito alle origini bastarde, incestuose di Joffrey… a condizione di venire riammesso nella pace del re e di essere confermato quale lord della Roccia del Drago e di Capo Tempesta. Io giuravo di fare altrettanto, contro la restituzione della Fortezza di Acquachiara e di tutte le terre dei Florent. Pensavo… ecco, pensavo che lord Tywin avrebbe visto la validità delle mie proposte. Ha ancora gli Stark con cui fare i conti, e anche gli uomini di ferro. Ho offerto di suggellare il trattato con il matrimonio tra Shireen e Tommen, il fratello minore di Joffrey.» Scosse il capo. «Come termini… sono quanto di meglio possiamo sperare di ottenere. Perfino tu te ne rendi conti, non è vero?»

«Sì» disse Davos. «Perfino io.» A meno che Stannis a un certo punto non avesse generato un figlio maschio, quel trattato significava che, un giorno, sia la Roccia del Drago sia Capo Tempesta sarebbero passati a Tommen, qualcosa che senza dubbio avrebbe compiaciuto lord Tywin. Nel frattempo, i Lannister avrebbero avuto Shireen come ostaggio, in modo che Stannis non potesse tentare altre insurrezioni. «E sua maestà come ha reagito quando tu gli hai proposto il trattato?»

«È sempre con la donna rossa, e… la mente di sua maestà non è più la stessa, temo. Questi discorsi della pietra del drago… follia, te lo assicuro, pura follia. Non abbiamo imparato proprio niente da Aerion Respiro di Fuoco, dalle nove magie, dagli alchimisti? Non abbiamo imparato niente da Sala dell’Estate? Nulla di buono è mai scaturito da tutti questi sogni di draghi, io l’ho detto ad Axell. Il mio metodo era migliore. Inoltre Stannis mi ha dato il suo sigillo, mi ha dato il suo permesso di dominare. Il Primo Cavaliere del re parla con la voce del re.»

«Non su questo.» Davos non era un cortigiano e non pensò neppure di dover attenuare le sue parole. «Fino a quando Stannis riterrà che la sua pretesa al trono è giusta, la resa non farà parte della sua natura. Né lui ritratterà quello che ha detto riguardo a Joffrey, se ritiene che sia la verità. Quanto al matrimonio, Tommen è nato dal medesimo incesto da cui è nato Joffrey. Piuttosto che dare Shireen in sposa a una simile creatura, sua maestà preferirebbe vederla morta.»

Sulla fronte di Florent, una vena si era messa a pulsare ritmicamente. «Ma non ha scelta!»

«Ti sbagli, mio lord. Può scegliere di morire da re.»

«E noi con lui? È davvero questo che desideri, cavaliere della cipolla?»

«No. Ma io sono e rimango un uomo del re. E senza il consenso del re, io non farò nessuna pace con nessuno.»

Lord Alester Florent lo fissò come inebetito per un lungo momento. Poi cominciò a piangere.

Загрузка...