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La casa: una grande villa in stile Regency, arretrata rispetto alla strada, circondata da un parco cinto da un muro e sovrastata da un boschetto di cedri dai tronchi contorti. Un tempo apparteneva a un ricco magnate del gruppo di Bloomsbury, che aveva commissionato la serie di trompe l'oeil, di murales in bianco e nero. C'era persino un'aranciera che, si diceva, fosse opera del celebre architetto Sir Edwin Lutyens. Gli ultimi visitatori della proprietà, se interrogati in proposito, avrebbero descritto giardini molto più grandi di quelli normalmente presenti in gran parte delle abitazioni cittadine. Ci si poteva perdere nei dedali di piante, siepi e susini coltivati a spalliera. Le rose bianche Pascali sbocciavano sulle piante rampicanti sostenute dai graticci, e le api sciamavano lungo i corridoi di tassi, alla ricerca delle piracante e delle fucsie.

Ormai, invece, strati e strati di foglie marcescenti si accumulavano accanto ai muri e, parzialmente nascosti vicino all'ingresso del garage, si scorgevano i resti di un cane, rimasto intrappolato in quel luogo dal dicembre del 1999. Durante il giorno, le tende restavano chiuse. La domestica era stata licenziata mesi prima, e, a poco a poco, diverse zone della villa erano diventate inabitabili. Harteveld vi si recava solo la notte, per frugare nel disordine. Durante il giorno, però, la pesante porta di quercia che si apriva su quelle parti della villa restava chiusa. Non poteva rischiare che qualche estraneo vedesse accidentalmente le sue cose. Le sue proprietà…

Quella sera aveva chiuso a chiave la porta e si trovava nella «zona pubblica», cioè nell'area che poteva mostrare ai visitatori, comprendente l'atrio, la cucina, il guardaroba, il piccolo studio e il soggiorno, dove stava in quel momento, accanto al caminetto, di fronte al ritratto dei genitori.

Aveva passato il pomeriggio a pulire, per evitare qualsiasi rischio per la serata, aveva attaccato un tubo al lavandino della cucina principale e inondato di disinfettante la zona adibita alla raccolta dei rifiuti. Ma l'odore aveva avuto la meglio. Lo si sentiva sempre… E a quel punto aveva esitato, la mano appoggiata sulla vecchia porta. Era rimasto a fissare i pannelli intarsiati, i bambù e i ponti lunghi ed esili che sorreggevano le geishe col parasole. No. Si voltò. Non c'era nulla che potesse fare per quel disastro, là dentro.

Inghiottì due compresse di buprenorfina con l'aiuto di un po' d'acqua e di pastis. Quindi aprì una tabacchiera di lapislazzulì e, con l'unghia lunga e affilata del mignolo, si infilò una presa nella narice sinistra. Si sfregò il resto sulla gengiva, e chiuse gli occhi per un istante.

Se non fosse arrivata presto, sarebbe esploso.

Si morse il labbro e fissò il ritratto dei genitori: Lucilla e Henrick.

No, rifletté, no: non sarebbe esploso. Doveva rimanere appoggiato alla cappa del caminetto e aspettare finché non fosse stato sicuro del suo equilibrio: poi si sarebbe proteso e, con grande precisione, senza creare troppo scompiglio, avrebbe strappato a morsi la faccia di Lucilla dalla tela.

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