Rebecca indossava un abito corto a fiori, che le lasciava le braccia scoperte; al polso aveva un kara, il tipico braccialetto dei sikh. Quando Jack aveva chiamato, era pronta per uscire. Di solito avrebbe evitato una mostra privata al Barbican, ma era un'opportunità per uscire da Greenwich, almeno per quella sera. Aveva bisogno di svagarsi. Dal giorno in cui Caffery ed Essex erano venuti da lei, Rebecca non aveva pensato ad altro: aveva passato il tempo davanti al cavalietto, senza lavorare, accarezzando, con aria assente, un pennello di zibellino, rievocando i volti, i volti di Kayleigh, Shellene, Petra, mentre Joni canticchiava tra sé e fumava un po' di marijuana, di Acapulco gold, col tè e il pane abbrustolito, rimanendo stordita fino a sera. Era stata chiara: non aveva nessuna voglia di parlare di ciò che stava accadendo; tornava di rado a casa e, quando accadeva, sulle due ragazze calava una pseudo-tranquillità alquanto insolita.
E, in quella tranquillità, Rebecca avvertì i primi, lievi sintomi del cambiamento.
Diamine, ce n'è voluto di tempo.
Due mondi a parte – lo sostenevano tutti – appartenevano a due mondi completamente diversi; il loro unico legame, un tempo importante, si stava indebolendo.
Rebecca proveniva dalle Home Counties. Suo padre – un uomo alto e serio col viso e l'atteggiamento da filosofo – era veramente felice solo quando, in completa solitudine, si ritirava nello studio con le sue edizioni di lusso dei sonetti d'amore elisabettiani. La madre, nel contempo, vagava per le stanze del piano superiore, infilandosi in bocca manciate di trazodone. Per gli esperti, si trattava di disturbo bipolare. Talvolta la donna stava a letto per giorni, dimenticandosi di lavarsi o di mangiare, dimenticandosi anche di avere una figlia cui badare.
Su queste basi Rebecca aveva dovuto costruirsi un'identità: gli Amoretti di Spenser, l'amitriptilina e le punizioni serali. Se la piccola Becky era troppo irrequieta, i tranquillanti della mamma finivano nel suo succo d'arancia.
Divenne un'adolescente esile e seria, convinta di essere assolutamente sola e diversa.
Sono i padri che esercitano violenza sui figli, non le madri. I giornali e la TV non parlano delle madri.
La ragazza scappò dal Surrey, inizialmente con l'intenzione di frequentare l'università e finendo invece a Londra. E un bel giorno conobbe Joni: in shorts, avanzava disinvoltamente verso di lei lungo le strade di Greenwich, con gli occhiali dalle lenti a cuore sul naso e uno spinello tra i denti. Parlava della sua «infanzia di merda» con la stessa veemenza di un predicatore. La vita di Joni era fatta di case popolari, di code per riscuotere il sussidio, di vomito sulle scale e di piccioni che si accoppiavano sul davanzale della finestra. Per Rebecca, quella era una musica familiare, tanto che decise di stare con lei.
«Mia madre. E colpa di mia madre se ho iniziato a drogarmi… Se un bel giorno non mi avesse fatto prendere i suoi tranquillanti, solo per farmi stare zitta… Me li faceva ingoiare a forza, e urlava che me le avrebbe date se non avessi preso quella roba. Bisognava farla a pezzi prima della mia nascita, quella vacca di una puttana.»
E Rebecca: «Una volta mi ha obbligato a farle il bagno. Piangeva. Avevo otto anni e anch'io ho incominciato a piangere. E lei mi ha dato qualche pastiglia per calmarmi».
«Non dirmelo… Forse il Tofranil?»
«Sì, o qualcosa del genere… Mangiava quando le pareva e mi dava da mangiare quando se ne ricordava. Una volta ho vissuto di Nesquik alla banana per una settimana. Quando mio padre disse che stavo diventando troppo magra, si spaventò. Si precipitò da Bejam, a Guildford, tornò con cinque vaschette di gelato e mi costrinse a mangiarlo finché non vomitai tutto.»
«Ti avrà riempita di botte, immagino.»
Sapevano di essere molto diverse, eppure giuravano che, nel loro intimo, erano sorelle. Trascorsero insieme alcuni anni felici e spensierati, scambiandosi i ragazzi e i rossetti, senza preoccuparsi di fermarsi a riflettere, senza notare che, mentre Joni passava le giornate dormendo per recuperare il sonno perduto nelle notti in bianco, Rebecca si alzava presto e prendeva l'autobus per andare al Goldsmiths College. Poi la loro complicità si era andata lentamente deteriorando. Ormai Rebecca confidava a Joni meno di ciò che avrebbe detto a una bambina.
Soprattutto non le confidava ciò che aveva pensato del detective Jack Caffery.
Uno sbirro? Per l'amor del cielo, sei matta?
Il giorno prima, fuori del pub, era rimasta colpita dal suo collo – sapeva che non aveva senso, ma ne era praticamente ossessionata – e soprattutto dal punto in cui la pelle abbronzata e il colletto bianco s'incontravano. E aveva anche notato i capelli, tagliati corti intorno alle orecchie. Più volte aveva cercato d'immaginarselo durante un orgasmo.
In quel momento, seduta nello studio, con indosso l'abito che si era messa per uscire, allontanò con cautela quell'immagine. Sii seria, Becky, ficcati in quella testolina malata qualcosa di bello e di corretto, degno di una ragazza per bene.
Attese che il rossore fosse svanito dal viso e premette il tasto del citofono per far entrare il detective. Poco dopo Jack fu davanti alla sua porta, l'aria stanca e la barba incolta.
«Si accomodi», esclamò la ragazza, spalancando la porta e piegando una gamba per infilarsi una ballerina di pelle. «Sono quasi pronta», aggiunse, mettendo l'altro piede nella scarpa e accendendo le luci alle pareti, mentre lo seguiva in cucina. «Un bicchiere di Pouilly?»
«È già aperto?»
«Il vino scorre a fiumi quando sono nervosa.»
«Per quale motivo?»
«A prescindere dalla risposta più ovvia? Cioè dallo 'Squartatore del Millennio'?»
«C'è qualche altro motivo?»
«Se proprio vuole saperlo, ho paura delle riunioni di gente con pretese artistiche, ho il terrore dei dolcevita neri, dei pizzetti, delle discussioni infinite, di Fluxus e dell'Espressionismo tedesco e del bla, bla, bla. Sa come vanno queste cose. Ci sono addirittura certi tizi che pagano duecento ghinee per vedersi gettare in faccia della vernice o che altro… Se proprio devo uscire dal mio atelier e dimostrare interesse, mi aiuto con un po' di Fuissé!»
Notando che Jack non sorrideva, tacque e prese il vino dal frigorifero, posandolo sul tavolo in legno. Sulla bottiglia si formarono piccole gocce di condensa. «Mi ha detto che voleva parlarmi.» Stava in punta di piedi, cercando di prendere i bicchieri dalla credenza.
«Gemini è stato fermato per un interrogatorio.»
Rebecca si bloccò per un attimo e i due calici rimasero sospesi a mezz'aria. «Capisco.»
«Pensavo che desiderasse saperlo.»
Lei riappoggiò i talloni e rimase ferma, fissando il frigorifero. «Ne abbiamo già parlato.»
«Lo so.»
«Che cos'è andato storto?»
«Ne abbiamo parlato troppo tardi. Se mi avesse raccontato di Gemini e di Shellene quando gliel'ho chiesto la prima volta…»
«Mi sta forse facendo la predica?»
«Oppure quand'eravamo all'obitorio.»
«Sì, mi sta proprio facendo la predica.»
«Quello che ha visto non era forse più importante della fonte da cui la sua amica si procurava la droga? Forse avrei dovuto farle vedere più foto di Petra. Le ha squartate, sa? Ha mutilato i seni, le ha sezionate…»
A quelle parole, la ragazza si voltò verso di lui. Jack smise di parlare, lo sguardo fisso, come se stentasse a credere alle parole che aveva appena detto. «Merda. Mi dispiace.»
Rebecca rabbrividì. «È tutto a posto.» Posò i bicchieri sul tavolo, versò il vino e gli porse il bicchiere. Le dita le tremavano. «Anch'io ho lavorato in quel locale, avrei potuto essere io. O Joni.» Poi lo guardò e chiese: «Le trova lì, le sue vittime, vero?»
«Proprio di questo io e lei dovremmo parlare.»
«Quindi è lì che le trova.»
«È probabile.»
«Le segue mentre tornano a casa?»
«È un'ipotesi.» Jack sollevò il bicchiere e lo guardò, pensieroso, rigirandolo tra le mani per catturare gli ultimi raggi di sole provenienti dalla finestra. «Ma è necessario che lei sappia qual è la mia opinione in proposito.»
«Vada avanti.»
«Penso che le ragazze avessero un appuntamento con lui, per far sesso o per farsi una dose. Penso che lo conoscessero già e che, in qualche modo, avessero fiducia in lui, perlomeno abbastanza da rimanere sole in sua compagnia, nella sua auto, forse persino a casa sua. Sembra bene integrato; forse è un medico, un assistente di laboratorio o comunque qualcuno che lavora in ospedale.» Tacque per un istante, soppesando con cura le parole. «Sicuramente è qualcuno di cui si fidavano al punto di lasciare che iniettasse loro la droga.»
Rebecca smise di sorseggiare il vino, tenendo il bicchiere a mezz'aria. «Cosa?»
«Le ha convinte che quello era il modo più veloce per partire. Forse è qualcuno con cui avevano avuto a che fare in passato. Magari è il loro pusher.»
«Perché mi sta raccontando tutto questo?»
«Perché penso che anche lei lo abbia incontrato. Forse lo conosce persino. E penso che forse anche Joni lo conosce, pur senza rendersene conto. Quindi ora le chiedo: se per qualche motivo sta proteggendo qualcun altro, per quanto insignificante le possa sembrare…»
«Si risparmi altre parole», replicò lei, alzando una mano. «Non sto proteggendo nessuno. Glielo giuro.»
«Le credo.» Jack sorseggiò il vino con aria pensierosa, osservandola al di sopra del bicchiere. «Non si ricorda se nel locale ha conosciuto qualcuno che lavorasse al St. Dunstan's? All'ospedale?»
La ragazza aggrottò le sopracciglia. «Non saprei… Malcolm, credo. Ha qualcosa a che fare con un ospedale. È uno che Joni conosce da parecchi anni.»
«Il cognome?»
«Non lo so. Joni lo frequenta quando non ha niente di meglio da fare: lui le paga da bere e roba del genere.»
«Sembra forse un hippy?»
«No.»
«Conosce un certo Thomas Cook?»
«Come l'agenzia di viaggi? Me ne ricorderei, non crede?»
«Ha i capelli rossi, lunghi. Occhi strani. Un aspetto particolare.»
La ragazza scosse il capo.
Jack sospirò. «Va bene. Rischio di perdere il posto per tutto quello che le ho raccontato stasera.» Posò il bicchiere vuoto sul tavolo e le sorrise. «Forse diventerò un critico d'arte.»
«Terrò la bocca chiusa.»
«Grazie», esclamò lui con sincerità. «Grazie.»
La ragazza rimase davanti alla porta e lo guardò scomparire giù per le scale. Era quasi uscito dall'edificio, quando lo chiamò. «Detective Caffery!»
La testa scura di lui comparve in fondo alle scale. «Che c'è?»
Le parole le uscirono di bocca prima ancora che se ne rendesse conto. «Ho paura, sa. Sì, ho paura dell'assassino.»
Jack non rispose. D'un tratto parve immensamente stanco. «Mi dispiace», si limitò a rispondere, strofinandosi la fronte. «Ora devo andare. Mi chiami, se le viene in mente qualcosa.»
I lampioni del centro di Greenwich erano ormai accesi e gli edifici venivano illuminati di luci bianche e dorate, simili a quelle sulle navi da crociera ormeggiate in porto. Del giorno non rimaneva che una sottile striscia rosata all'orizzonte, dietro i tetti. I taxi si fermavano davanti ai palazzi, la gente faceva la coda fuori dei cinema. Rebecca, davanti all'Hotel Ibis, tenendosi un cardigan sulle spalle, stava cercando di trovare un taxi.
Era più nervosa del solito. Da quando aveva lasciato High Road, aveva l'inquietante sensazione che qualcuno la osservasse dall'alto di qualche grondaia. Sentì un formicolio lungo la schiena e il sudore diventare freddo. Non vedeva l'ora di andarsene da Greenwich.
Dalla terrazza del ristorante Spread Eagle proveniva il lieve tintinnio dei bicchieri e dell'argenteria. Gli aranci e i lauri nei vasi spargevano le loro foglie sulla strada sottostante e l'illuminazione ne proiettava le ombre ingrandite sulla parete intonacata.
Qualcosa in quelle foglie tremolanti indusse Rebecca a fermarsi.
Che cosa ha detto Jack? Che le ragazze avevano tanta fiducia nell'assassino al punto di permettergli d'iniettare loro una dose?
Ecco la risposta. Il suo respiro divenne regolare. L'aranciera di Croom's Hill. Toby Harteveld.
Era ovvio. Gettò indietro la testa e guardò in alto. Harteveld. Non ci aveva mai pensato prima. Delle infinite ipotesi che le erano passate per la testa, non aveva mai preso in considerazione quella che ora, invece, le sembrava chiara come il sole.
Rabbrividì, nonostante la serata calda, e, abbottonandosi il cardigan, si diresse verso casa. Era meglio lasciar perdere il Barbican. Voleva parlare con Jack Caffery.