Alla fine della giornata avevano trovato le impronte di Shellene su un bicchiere, su una forchetta col manico d'osso e su una bottiglia di Malibu tirata fuori da un mobile bar, in soggiorno. Due capelli color prugna vennero prelevati dallo scarico del bagno al pianterreno; Logan scoprì alcune siringhe in una scatola di lacca, piccole quantità di eroina e cocaina in due antiche boccette per inchiostro, una di vetro blu e una d'argento. Il tutto fu scrupolosamente sigillato nelle buste per reperti.
«Ma sono ancora preoccupata», ammise Fiona Quinn alla riunione serale. «Mi aspettavo prove organiche delle mulilazioni. Non credo di averle trovate nel sopralluogo di oggi.»
Né avevano identificato il materiale di sutura, il bisturi che, secondo Krishnamurthi, era stato usato per operare le mutilazioni e neanche il sapone Wright's Coal Tar.
«Avremmo dovuto trovare più disordine. Quando le ha aperte, potete solo immaginare che cos'è successo. Perché non c'erano sangue e tessuti putrefatti? Perché non abbiamo trovato qualche prova, almeno negli scarichi? La Scien tifica, però, ne ha scoperte molte nell'auto e nel portabagagli… Penso che questo sia il punto chiave: le ha portate da un'altra parte. Forse per ucciderle, ma non è da escludere anche dopo averle uccise. Dove tiene gli uccelli in gabbia.»
«Affidiamoci a Schloss-Lawson e Walker», intervenne Jack. «Sono gli avvocati di famiglia. Prepareranno un elenco delle sue proprietà per domani.»
Maddox scosse la testa. «Se non stiamo attenti, non otterremo il mandato. Si tratta di proprietà off limits. E potremmo aver bisogno di tempo.»
«Vero, ma continuo a dare ragione alla Quinn. Dobbiamo perquisirle.»
«Sì», mormorò lei. «E quando troveremo ciò che cerchiamo, troveremo la Jackson.»
Per qualche istante, nessuno parlò. Il giorno seguente il primo compito di Paul sarebbe stato chiamare Clover Jackson e chiederle di andare alla stazione per esaminare le fotografie degli articoli recuperati nel bagno di Harteveld. Per verificare se la gonna verde chiaro fosse la stessa indossata dalla figlia la sera della sua scomparsa.
«D'accordo», sospirò Maddox. «Marilyn, l'elenco delle azioni da effettuare nella mattina con riferimento alle altre residenze di Harteveld. Voglio la Jackson prima che il tempo ne faccia ulteriore scempio.»
Dopo l'incontro, Jack, esausto, si tolse la cravatta e chiamò Rebecca.
«Stavo andando al parco», rispose lei. «Voglio dipingere il Naval College.»
«Ci possiamo vedere là?»
«Certamente. Tra mezz'ora? Ehi, stai bene?»
«Sì. Perché?»
«Be'…» Lei fece una pausa. «Non mi sembra.»
«Ma sì. Sto bene. Davvero.»
Quando riattaccò, Paul cominciò a strillare: «Tu, piccolo bastardo. L'hai tenuto segreto, eh? Dille che metta una parola buona per me con Joni. Dille quanto sono sensibile o qualche stronzata del genere».
Jack chiuse la cravatta nel cassetto della scrivania, si lavò il viso in bagno, infilò il cellulare in tasca e guidò fino a Greenwich. Il sole della sera dorava le antiche finestre del Royal Observatory quando arrivò al parco. Con Harteveld morto, avrebbe dovuto provare un senso di sollievo. Invece si sentiva a disagio, i suoi nervi erano tesi e pronti, come se il corpo si stesse preparando ad affrontare altre difficoltà. Sei solo stanco, Jack, si disse. Fai una bella dormita. Il mondo ti sembrerà migliore domani.
Lei era seduta sull'erba di fronte alla cupola a cipolla di Flamsteed, un blocco di carta per acquerello sulle ginocchia piegate e un pennello tra i denti. Stava mescolando i colori.
Jack si fermò, godendosi il lusso di osservarla senza essere visto. Il sole le illuminava una guancia, e lui credette quasi di scorgerne la sottile peluria dorata. Con quella gonna corta di tessuto scozzese pareva sorprendentemente vulnerabile. Su quella distesa di erba color smeraldo, sembrava quasi un incoraggiamento.
Becky posò il pennello, si asciugò le mani in un piccolo straccio e, come se avesse saputo che lui era lì da tempo, sbirciò verso l'alto, una mano sugli occhi per proteggersi dal sole basso.
«Ciao.» Non aveva trucco, e lui scorse un abbozzo di sorriso sulla parte destra della bocca. «Ciao, Jack.»
«Conosci il mio nome.»
«Sì.» Lei guardò in basso, e i capelli celarono la sua espressione. «Senti, ho del Borgogna», disse poi, prendendo lo zaino e porgendogli una bottiglia e un cavatappi. «E questo. Un sacchetto di nettarine. Spero che tu non pensassi di andare da McDonald's.»
«Questo significa che beviamo qualcosa insieme.»
«E allora?»
Jack si strinse nelle spalle, si tolse la giacca, si sedette sull'erba e le prese la bottiglia. «Non sono io a preoccuparmi.»
«In ogni caso, eri tu che volevi vedere me.»
«Vero.»
«Perché? Che cosa vuoi?»
La verità? Vorrei, vorrei… Lui si schiarì la voce. Cominciò a togliere la protezione di metallo dalla bottiglia. «L'abbiamo preso. Era Toby Harteveld. L'abbiamo annunciato alla stampa un'ora fa.»
«Ah.» Rebecca posò Io zaino e si passò una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Toby.»
«E c'è dell'altro.»
«Cosa?»
«È morto. Lo diranno stasera in televisione, ma io volevo che tu lo sapessi subito. Si è buttato dal London Bridge stamattina alle dieci.»
«Capisco.» Lei espirò lentamente, fissando la distesa di Londra sotto di loro. A monte, il London Bridge pareva puntare i suoi gomiti sulle sponde, fuori della foschia azzurra, e, a valle, luccicante vicino all'orizzonte venato di smog, c'era il Millennium Dome, simile a un osso pulito su uno sfondo azzurro. E, alle sue spalle, sorgeva l'area industriale… «Quindi è finita.»
«Credo di sì.»
Rebecca rimase a lungo in silenzio. Infine, come se avesse preso una decisione, come se volesse scrollarsi qualcosa di dosso, prese due bicchieri dallo zaino e li mise vicino a lui, sull'erba. Lo guardò, sorridendo. «Abbiamo qualcosa in comune. Tu e io.»
«Cosa?»
«Le unghie delle dita», rispose guardandosi le mani. «Da quand'è iniziata questa faccenda non sono riuscita a toccare nulla senza che le unghie mi si spezzassero. È come se lo stress uscisse di lì.» Tacque per un istante, poi chiese: «E tu, che scusa hai?»
Lui sorrise, sollevando il pollice coi segni della ferita. «Questo?»
«Sì?»
«Ah… Vuoi saperlo davvero?»
«Naturalmente.»
«Be', vediamo. Avevamo una casa sull'albero. Questa è la prima cosa.»
«Una casa sull'albero?»
«Adesso non esistono quasi più. Forse un giorno ti farò vedere dov'era.»
«Mi piacerebbe.»
«Mio fratello, Ewan, mi spinse. Avevo otto anni. U nero doveva scomparire, ma non è andata così. I dottori sono sconcertati. Per loro sono un mistero scientifico.»
«Spero che tu l'abbia ucciso, per questo.»
«Chi?»
«Tuo fratello.»
«No… io…» Fece una pausa. «No, l'ho perdonato. Credo.»
Jack sembrò chiudersi in se stesso e Rebecca si accigliò. «Quello che ho detto…»
«Non fa niente, non fa niente.» Jack stappò la bottiglia e le versò il vino nel bicchiere.
«Mi dispiace, non intendevo… Talvolta non ho proprio tatto.»
«No!» Lui sollevò una mano. «Veramente, Rebecca. Davvero… non… preoccuparti.»
Si fissarono: Rebecca era disorientata, Jack aveva un finto sorriso di sicurezza stampato in faccia. Il cellulare nella sua giacca colmò quel vuoto imbarazzante mettendosi a trillare e facendoli sobbalzare entrambi.
«Oddio.» Jack posò la bottiglia, si alzò, prese la manica tra l'indice e il medio e trascinò la giacca sull'erba. «Che tempismo… Scusami.»
«Ma certo», rispose lei, contenta di quel diversivo.
Jack prese la comunicazione.
«L'ho fatto.» Aveva una voce molto fioca.
«Veronica?»
«L'ho fatto.»
Jack guardò Rebecca e si allontanò, coprendo il microfono con la mano. «Veronica, dove sei?»
«L'ho fatto. Finalmente l'ho fatto.»
«Non parlare per indovinelli.»
Silenzio.
«Veronica?»
«Bastardo.» Lei trattenne il respiro come se stesse piangendo. «Te lo sei meritato.»
«Senti…»
Ma lei aveva già riattaccato.
Jack sospirò, mise il telefono tra i piedi e sollevò lo sguardo verso Rebecca. Stava tracciando linee nell'erba con l'estremità del pennello, senza guardarlo.
«Chi era?» chiese poi.
«Una donna.»
«Ah. Veronica? È questo il suo nome?»
«Sì.»
«Che cosa voleva?»
«Attenzione.»
«Ah», osservò Becky, appoggiando il mento sulla mano e guardandolo. «E tu hai intenzione di prestargliene?»
«No.»
Rebecca annuì. «Capisco.»
Non ti crede, Jack.
Lui cercò una sigaretta, e improvvisamente, da dietro i tetti rossi dell'Osservatorio, un gruppo di storni vocianti si alzò in aria. Jack si fermò e li fissò, impiegabilmente sorpreso. «Uccelli.»
Rebecca reclinò la testa per guardarli e la luce del crepuscolo le scivolò sul viso. Sorrise, citando due versi di Keats: «Tu non sei nato per la morte, uccello immortale! / Nessuna generazione affamata ti calpesta». Gli storni rotearono nell'aria, si fermarono per un breve istante, poi caddero in picchiata verso la terra, riempiendo l'aria di ali. Lei si rannicchiò, mormorando: «Oh…» Ma gli uccelli girarono di nuovo e scomparvero all'improvviso, com'erano apparsi, oltre la collina. Una piuma ondeggiò nell'aria e cadde ai piedi di Jack.
«Pensavo che volessero attaccarci!» esclamò lei, ridendo. Poi si sistemò i capelli, ridacchiando del suo nervosismo. Quando scorse l'espressione sul viso di Jack si bloccò. «Che cosa c'è?»
«Non lo so…» Lui scosse la testa. Aveva visto gli uccelli da vicino, aveva visto le iridi maculate e provato una contrazione allo stomaco. Pensò a Veronica, al mucchio d'ossa, al suo sorriso affascinato, malsano, nel momento in cui Penderecki era entrato nella stanza, neanche fosse stata lei a programmarne la comparsa. Improvvisamente spense la sigaretta e si alzò. «È meglio che vada.»
«Allora le presterai attenzione.»
«Sì», rispose lui, srotolandosi le maniche. «Credo di sì.»
La Tigra rossa di Veronica era parcheggiata fuori della casa. Con compiacimento. Come se avesse il diritto di stare lì. Era buio, ormai. Sopra i tetti, dalla parte di Penderecki, oltre la ferrovia, una sottile colonna di fumo si levava al cielo. La casa era avvolta nell'oscurità. Jack entrò con cautela, preparato al peggio.
«Veronica?» Rimase immobile, nervoso in casa sua. «Veronica?»
Silenzio. Accese la luce del corridoio e si fermò. Era tutto come lui l'aveva lasciato: il tappeto dell'ingresso leggermente spostato, la borsa della tintoria dimenticata contro il battiscopa… Attraverso la porta aperta della cucina scorse persino la tazza del caffè che aveva bevuto quel mattino. Chiuse la porta, appese la giacca alla balaustra e andò in cucina.
«Veronica?» Mancava l'aria, lì dentro. Sul davanzale della finestra una delle piante di Veronica, una buganvillea di un rosso ripugnante, era fiorita. Gli sembrava che stesse filtrando tutto l'ossigeno di casa coi suoi petali grassi e sgargianti. In fretta aprì la finestra, lasciò entrare in cucina l'odore acuto del fumo e bevve una sorsata veloce direttamente dalla bottiglia di Glenmorangie.
Il soggiorno era tranquillo: i preziosi bicchieri nelle loro ceste di vimini stavano ancora aspettando di essere portati via. Aprì le porte finestre e tornò in corridoio. In sala da pranzo scoprì la prima prova della presenza di Veronica. La stanza era stata pulita completamente, in maniera ossessiva: il profumo del lucido per mobili alla lavanda era ancora forte nell'aria.
Rimase nel corridoio a lungo prima di notare, appoggiato sulla mensola del caminetto, un biglietto coi bordi neri, come quelli usati per le condoglianze. Il messaggio era semplice.
Vaffanculo, Jack.
Con affetto, Veronica.
«Grazie, Veronica.» S'infilò il biglietto in tasca, aprì i bovindi e tornò in corridoio. Gli unici rumori erano il ticchettio dell'orologio del nonno e il ronzio meccanico e pigro di una mosca morente. Di sopra, allora. Lei doveva essere di sopra.
«Sono qui, Veronica.» Si fermò a metà strada dal pianerottolo, guardando le porte chiuse delle camere da letto. «Veronica.» Silenzio. Mosse gli ultimi passi e si fermò, posando la mano sulla porta della stanza da letto.
Improvvisamente si sentì sopraffatto dalla stanchezza. Se Veronica, sdraiata sul suo letto, si era fatta un'overdose di farmaci, allora lui avrebbe passato un'altra notte insonne.
Pronto soccorso. Lavanda gastrica. Visita psichiatrica. La famiglia, grigia come il granito, seduta in silenzio. E senza dire neppure una parola gli avrebbe fatto capire che il responsabile era lui.
Oppure lui avrebbe potuto – il pensiero lo fece tremare -, sì, avrebbe potuto voltarsi e uscire dalla porta. Chiamare Rebecca, scusarsi per essersene andato, incontrarla per un drink, trascorrere la serata con lei cercando di portarsela a letto, mentre Veronica se ne andava silenziosamente, da sola.
Rimase in piedi, il cuore che batteva all'impazzata, mentre quell'idea svaniva rapidamente com'era arrivata. Jack fece un lungo, profondo respiro e lentamente, molto lentamente, aprì la porta della camera da letto.
«Merda.»
Aveva fatto il letto e aveva spolverato anche lì. Ma non c'erano impressionanti immagini di morte, nessuno schizzo di sangue sul muro, nessuna bottiglietta vuota di farmaci. Non c'era nemmeno Veronica.
Rapidamente controllò l'armadio. Tutto era come doveva essere, compresi gli asciugamani piegati ordinatamente in pile bianche. La sveglia, accanto al letto, ticchettava. Allora si trovava nella camera di Ewan… Ritornò sul pianerottolo e vide che la porta di quella stanza era aperta. Veronica stava a mezzo metro da essa e lo fissava.
«Veronica.»
Si studiarono per un momento, le pulsazioni alle stelle. Lei indossava una camicia bianca di seta e pantaloni larghi, sempre bianchi, di lino; una sciarpa decorata con piccole fibbie d'oro era fermata al collo da una spilla di diamanti. Appariva pallida, controllata. Nulla suggeriva che avesse provato a farsi del male.
«Perché sei a casa mia?»
«Sono venuta a prendere i bicchieri di mamma. È permesso?»
«Prendili e vattene.»
«Un po' di educazione.» Inspirò, inarcando le sopracciglia. «Conosci questa parola, Jack? Educazione.»
«Non sono qui per discutere…» replicò lui, interrompendosi subito. Osservò il resto della stanza, gli scaffali vuoti, le scatole dell'archivio sul pavimento: aperte, spaccate, svuotate.
Per un momento rimase lì, senza scomporsi, in silenzio, immobile: sentiva soltanto il ritmico tonfo del suo cuore.
Merda, sa esattamente dove colpirmi. Poi avanzò, ignorando Veronica che stava in piedi, calma, al suo fianco, e si accovacciò tra i resti, con mani tremanti. Mentre esaminava i contenitori – sollevandoli, girandoli, scuotendoli, scorrendoli – già sapeva che avrebbe trovato ben poco. Sapeva quanto diligentemente un cuore ferito come quello di Veronica sapesse fare il suo lavoro.
«Be'?» esclamò lui infine, appoggiandosi ai talloni, respirando a fatica. «Allora? Cos'hai fatto? Dove hai messo tutto?»
Lei si strinse nelle spalle come se quel suo interesse la sorprendesse e si girò con noncuranza verso la finestra. Con riluttanza lui seguì il suo sguardo. Dietro le tende chiare, sollevate, alcuni fili di fumo salivano pigramente verso la luna.
«Merda», sospirò lui. «Già, è ovvio, avrei dovuto immaginarlo.» Stancamente si alzò e attraversò la stanza, appoggiando le dita fredde sul telaio della finestra. E lì, proprio come si era aspettato, dall'altra parte della trincea, illuminato di rosso e di nero dai tizzoni, stava Penderecki, intento ad aprire il coperchio dell'inceneritore per gettarvi dentro un altro mucchio, fischiettando e sorridendo come se avesse atteso l'arrivo di Jack.
«Oh, Veronica.» Appoggiò la fronte rovente contro il vetro ed emise un lungo respiro. «Sarebbe stato meglio se mi avessi strappato il cuore.»
«Dai, Jack, non esagerare.»
«Troia», mormorò lui. «Piccola troia.»
«Come? Che cos'hai detto?»
«Puttana.» Jack si voltò con calma verso di lei. «Ti ho chiamata puttana.»
«Tu sei pazzo», esclamò lei, incredula. «Sai, a volte mi fai sperare che quel pervertito abbia davvero ucciso tuo fratello. E anche lentamente.» La sua faccia si contorse. «Perché te lo meriti, Jack. Te lo meriti per il modo in cui stai uccidendo me. Tu mi stai uccidendo…» Ma lui l'aveva ormai afferrata per il braccio. I bottoni del polsino schizzarono nella stanza. «Jack!»
Lui la trascinò alla porta, calpestando e sparpagliando i contenitori vuoti.
«Jack!» urlò di nuovo Veronica, sferrandogli un calcio. «Lasciami andare, Jack!»
«Sta' zitta.» La rabbia lo aveva reso forte e calmo. La trascinò lungo le scale, godendo della sua impotenza, del suo inutile gridare e combattere, le unghie curate che si spezzavano sulla balaustra. Alla fine delle scale si fermò e la tenne a un braccio di distanza, osservandola.
«Cristo.» Lei si divincolò, liberando il braccio, e fece un passo indietro, massaggiandosi il gomito, gli occhi sgranati, i capelli arruffati. Le era scoppiato un capillare nella cornea dell'occhio sinistro, ma il viso era asciutto. L'aveva spaventata. «Non mi toccare mai più, hai capito? Non…»
«Sta' solo zitta e ascolta.»
«Papà la prenderà molto seriamente se ti avvicini ancora a me…»
«Ho detto: sta' zitta e ascolta.» Jack avvicinò la faccia a quella di lei. «Te lo dirò una volta sola: girami ancora intorno e io ti uccido. Parlo sul serio: ti ammazzo. È chiaro?»
«Jack… per favore…»
Lui la scosse violentemente. «È chiaro?» gridò.
«Sì, sì!» Improvvisamente Veronica cominciò a piangere. «Adesso toglimi le mani di dosso, d'accordo? Basta che tu mi tolga le tue fottute mani di dosso.»
«Fuori di casa mia.» La lasciò andare, la bocca piegata in una smorfia di disgusto mentre spalancava la porta d'ingresso. «Vai. Vai fuori. Esci da casa mia, subito.»
«Va bene, va bene», borbottò Veronica, avviandosi e guardando dietro le spalle per assicurarsi che lui non la seguisse. «Me ne vado, d'accordo?»
Jack andò in soggiorno, prese le ceste di vimini e le portò fino all'ingresso.
Veronica si trovava sul sentiero del giardino e, tutta tremante, stava componendo un numero sul cellulare. Quando la porta si aprì, indietreggiò, impaurita. Poi vide ciò che lui teneva in mano e la sua espressione mutò.
«Oh, no», gemette. «Costano una fortuna.»
Lui le passò davanti e fuori, in strada, lanciò le due ceste in aria. Piroettarono graziosamente, sputando fuori bicchieri di cristallo e stoffa verde, rimbalzarono sul cofano della Tigra, scheggiando il parabrezza, e infine ricaddero al centro della strada.
«Dico sul serio, Veronica», le mormorò all'orecchio, passandole accanto mentre tornava indietro sul sentiero. «Ti ucciderò.» Sbatté la porta, la chiuse col catenaccio e andò in cucina per cercare il Glenmorangie.