Alle dieci, il NIB aveva identificato un'altra donna in base alle impronte. La vittima numero due era una certa Michelle Wilcox, una prostituta di Deptford. La sua scheda fu trasferita da Bermondsey a Shrivermoor quel mattino, mentre Caffery ed Essex stavano percorrendo il tunnel Rotherhithe per andare a interrogare l'amico di Shellene Craw. Era una giornata limpida e frizzante. Persino l'East End che si lasciavano alle spalle pareva vivo, i miseri e sudici alberi londinesi verdi di fogliame.
«Questo Harrison… So che tu non credi sia l'assassino…» esordì Paul Essex. Si trovavano tra le querce di Stepney Green e, guardando oltre una fila di case georgiane di mattoni gialli – dipinte da poco, orgoglio dei loro proprietari, tutti operatori finanziari -, osservavano l'abitazione popolare vittoriana di mattoni rossi di Harrison, annerita da anni d'inquinamento e ormai priva di qualunque parvenza di rispettabilità.
Jack fermò l'auto e tirò il freno a mano. «Ovviamente non lo credo.»
«Allora, che ne pensi?»
«Non penso niente.» Jack chiuse il finestrino, scese dalla macchina e, quasi sul punto di chiudere la portiera, esitò, infilando nuovamente la testa nell'abitacolo. «L'assassino possiede un'auto, questo è sicuro.»
«Tutto qui?» Paul scese a fatica dalla Jaguar e sbatté la portiera. «Non hai un'ipotesi migliore di 'possiede un'auto'?»
«No.» Jack fece roteare le chiavi intorno a un dito, poi le infilò in tasca. «Non ancora.»
Nell'edificio l'ascensore era rotto, perciò salirono a piedi le quattro rampe di scale. Di tanto in tanto Jack si fermava per permettere a Paul di raggiungerlo.
Maddox gli aveva spiegato com'era fatto Paul Essex: «Ogni squadra deve avere un buffone. Nella B abbiamo Essex. Gli piace tenere allegri i ragazzi: giura che, quando va a casa la sera, s'infila un baby doll e passa l'aspirapolvere. Sono tutte stronzate, ovviamente: accettale, ma prendilo sempre sul serio. In verità è un poliziotto fidato, una roccia…» E lentamente Jack stava iniziando a credere nell'innato buonumore di quell'uomo, forte come un cavallo da tiro. Ciò in base al modo con cui le donne lo trattavano: come un vecchio orso ferito. Flirtavano con lui e lo stuzzicavano, si sedevano sulle sue ginocchia e gli davano affettuose pacche sulle spalle quando scherzava. Ma forse avevano segretamente capito che lui agiva a un livello emotivo troppo profondo per le loro capacità: infatti, all'età di trentasette anni, il sergente Essex viveva ancora da solo. Questa consapevolezza induceva talvolta in Jack un senso di colpa per la naturalezza e la serenità con cui viveva la sua vita. Persino in quel momento, la discrepanza risultava palese: Jack raggiunse l'appartamento di Harrison calmo, pronto all'azione; Paul si trascinò per gli ultimi gradini per fermarsi poi sul pianerottolo, ansante, sudato e paonazzo in volto, allentandosi il colletto della camicia e scuotendo i pantaloni appiccicati alle gambe. Impiegò parecchi minuti per riprendersi.
«Pronto?» chiese Jack.
«Sì», annuì l'altro, asciugandosi la fronte. «Andiamo.»
Jack bussò alla porta di Harrison.
«Che c'è?» La voce proveniente dall'interno era assonnata.
Chinandosi, Jack si avvicinò alla buca delle lettere. «Il signor Harrison? Barry Harrison?»
«Chi lo vuole?»
«Il detective Caffery», rispose, lanciando un'occhiata fulminea a Paul. C'era un inconfondibile odore di marijuana. «Vorremmo scambiare quattro chiacchiere.»
Si udirono un sibilo e il rumore di un corpo che si trascinava fuori del letto. Poi quello dell'acqua di un rubinetto, dello sciacquone del water: infine la porta si aprì. Il catenaccio tagliò in due il volto dell'uomo: due occhi azzurri rotondi e una barba poco curata.
«Signor Harrison?» chiese Jack, mostrando il distintivo.
«Che succede?»
«Il sergente Essex e io possiamo entrare?»
«Se mi dite perché, sì.» Era magro e lentigginoso, nudo dalla vita in su.
«Vorremmo parlarle di Shellene Craw.»
«Non è qui, capo. Non la vedo da giorni.» Fece per chiudere la porta, ma Jack la bloccò con la spalla.
«Voglio parlare di lei, non con lei.»
Harrison scrutò Caffery ed Essex, come per valutare chi avrebbe avuto la meglio in uno scontro. «Sentite, lei e io abbiamo chiuso. Se è nei guai, mi spiace, ma non eravamo sposati né altro, perciò, vedete, non sono responsabile.»
«Non la arresteremo, stia tranquillo.»
«Non mollate proprio, eh?»
«No, signor Harrison.»
«Oh, cazzo!» La porta si chiuse, e lo udirono togliere il catenaccio di sicurezza. «Facciamola finita. Forza, entrate.»
Il soggiorno di Harrison era piccolo e sporco: da un lato dava su un balcone, dall'altro sulla cucina, costellata di smorte pianticelle e di scatole di Kentucky Fried Chicken. Il pavimento era disseminato di cartine di sigarette e di tabacco.
Jack si sedette, senza essere invitato, su una sedia di plastica blu accanto alla finestra e incrociò le braccia. «Quando ha visto per l'ultima volta Shellene, signor Harrison?»
«Chessò… Un paio di settimane fa.»
«Può essere più preciso?»
«In che razza di guai si è cacciata adesso?»
«Un paio di settimane significa una settimana o un mese?»
«Non ricordo.» Harrison s'infilò una T-shirt ed estrasse un pacchetto di sigarette dai jeans. Prese una Silk Cut tra i denti e raccolse un accendino dal pavimento. «È stato dopo il mio compleanno.»
«Che è quando?»
«Il 10 maggio.»
«Viveva qui, vero?»
«Cazzo, se siete in gamba!»
«Che cos'è successo?»
«E a me lo chiede? Ha tagliato la corda. È uscita una sera e non è più tornata.» Stendendo la mano, batté la parte inferiore del palmo sul ginocchio, sollevandola poi in direzione della finestra. «Ma così era fatta Shellene. Ha lasciato metà della sua merda in camera.»
«Ce l'ha ancora?»
«No, sapete, ero tanto incazzato che l'ho buttata: c'era un po' di roba per i suoi numeri…»
«Era una spogliarellista?»
«Anche. Ma Shellene batte… e in situazioni estreme. Non l'avete forse presa mentre scopava con gli arabi a Portland Place?»
«Ha segnalato la sua scomparsa?»
Harrison fece schioccare sarcasticamente la lingua. «Scomparsa? Scomparsa di che? Degli scrupoli?»
«Ha lasciato la sua roba qui e lei non si è preoccupato?»
«E perché? Quando si è trasferita qui, è arrivata coi suoi trucchi, una radio portatile e un po' di siringhe… conoscete il tipo.»
«Non si è chiesto se le sia successo qualcosa?»
«No», rispose Harrison, scuotendo il capo. «Comunque, stavamo per mollarci. Non mi sono sorpreso più di tanto quando, quella sera, non è più tornata…» La sua voce si affievolì. Guardò prima Essex poi Caffery, poi ancora Essex. «Ehi», esclamò, improvvisamente agitato, «che volete dire?» Nessuno dei due rispose e nei suoi occhi balenò un lampo. Si accese la sigaretta e inalò profondamente il fumo. «Non credo che mi piacerà sentirlo, eh? Forza. È meglio che lo spariate in fretta. Che le è capitato? È morta o che?»
«Sì.»
«Sì, cosa?»
«È morta.»
«Cazzo.» Harrison sbiancò in volto e si lasciò cadere sul divano. «Dovevo immaginarlo. Dovevo immaginarlo nel momento che vi ho visti. Un'overdose del cazzo.»
«Probabilmente non si tratta di un'overdose. Probabilmente è stato un omicidio.»
Harrison fissò Jack senza battere ciglio. Poi, come se volesse proteggersi da quelle parole, portò le mani alle orecchie. Sugli avambracci bianchi spiccavano i pallidi segni degli aghi. «Oddio», ansimò. «Non posso…» Aspirò avidamente una boccata di fumo, gli occhi lucidi di lacrime. «Aspettate qui», aggiunse all'improvviso, balzando in piedi e scomparendo nel corridoio.
Caffery ed Essex si guardarono per un istante. Lo sentirono aggirarsi in camera, aprire alcuni cassetti. Essex fu il primo a parlare. «Non ne sapeva niente, vero?»
«No.»
Rimasero in silenzio per un po'. Al piano di sotto, qualcuno si era svegliato e aveva acceso lo stereo a tutto volume. Musica trance: Jack la sentiva spesso quand'era al CID e indagava nei locali notturni. Agitandosi sulla sedia, esclamò: «Che diavolo starà facendo lì dentro?»
«Non lo so…» La voce di Paul si affievolì. «Cristo, non penserai mica che…?»
«Merda!» Jack scattò in piedi e, giunto in corridoio, batté il palmo della mano sulla porta della stanza da letto. «Non ti fare, Barry!» urlò. «Mi senti? Non ti fare, cazzo! Ti arresterò!»
La porta si aprì e fece capolino la faccia immobile di Harrison. «Non mi potete arrestare per le anfetamine. Me le hanno prescritte. Prima della messa al bando.» Premendosi l'incavo del gomito, li oltrepassò, dirigendosi in soggiorno.
Jack lo seguì, imprecando sottovoce. «Dobbiamo parlarti. Non possiamo farlo se sei fuori.»
«Vi sarò più d'aiuto cosi che senza. Sarò più lucido.»
«Più lucido», borbottò Paul, scuotendo il capo.
Harrison si lasciò cadere sul divano e portò le ginocchia al petto, abbracciandosi le gambe, con un gesto stranamente infantile. «Ho passato gran parte del tempo con Shellene in queste condizioni». Reclinò la testa e, per un attimo, Jack pensò che stesse per scoppiare a piangere. Invece, contrasse la bocca e chiese: «D'accordo. Ditemi. Dov'era?»
«Nel sud-est.»
«A Greenwich?»
Jack sollevò lo sguardo. «Sì. Come fai a saperlo?»
Harrison lasciò cadere le braccia e scosse il capo. «Bazzicava sempre da quelle parti. Gran parte del suo lavoro era lì. E quando? Quand'è successo?»
«L'abbiamo trovata ieri mattina.»
«Sì, ma sapete…» Tossì, poi continuò. «Quando l'hanno…»
«Più o meno quando l'hai vista per l'ultima volta.»
«Merda.» Harrison sospirò, si accese un'altra sigaretta e aspirò il fumo, poi, gettando indietro la testa, lo espirò verso il soffitto. «Andate avanti, forza. Che volete sapere?»
Jack si sedette sul divano e pescò il notes dalla giacca. «Questa è una deposizione, chiaro? Perciò dimmi se sei troppo andato per parlare.» Quando l'uomo non rispose, annuì. «Va bene. Lo considero un'autorizzazione a procedere. Il sergente Essex qui con me è incaricato di gestire i rapporti con le famiglie. È quello con cui parlerai ogni volta che avrai a che fare con noi. Rimarrà con te dopo che io me ne sarò andato, rivedrà la deposizione insieme con te, ti chiederà di aiutarci a contattare la famiglia di Shellene. Vogliamo sapere ogni particolare, fino alla nausea: che cosa indossava, che trucco usava, che biancheria portava, se preferiva EastEnder o Coronation Street.» Fece una pausa, poi proseguì: «E suppongo sia una perdita di tempo convincerti a incontrare un assistente sociale, vero? Così magari la smetteresti di ridurti le vene a un colabrodo…»
Harrison si portò la mano alla testa. «Porca puttana…»
«Lo immaginavo», replicò Jack, sospirando. «Ora, sai dov'era diretta Shellene, quella sera?»
«A uno dei suoi pub. Ci faceva un numero.»
«Quale?»
«Non lo so. Chiedete alla sua agenzia.»
«Qual è?»
«La Little Darlings.»
«Little Darlings?»
«Non ha una bella fama, credetemi. È dalle parti di Earl's Court.»
«Va bene. Altri nomi? Di chiunque la frequentasse.»
«Hmm…» Harrison strinse la Silk Cut fra i denti. «C'era Julie Darling, l'agente.» Contò i nomi sulle dita. «E le ragazze: Pussy… Buffo, c'è sempre una Pussy, vero? Poi Pinky, Tracy o Lacey o qualche stronzata del genere, Petra e Betty e quella…» Si diede una pacca sulle ginocchia, improvvisamente infuriato. «Sono sei in tutto, e questo è tutto quello che so della vita di Shellene, e voi mi dite che siete sorpresi che non ho denunciato la sua scomparsa? Come se sapessi qualcosa, branco di froci del cazzo…»
«D'accordo, d'accordo, calmati.»
«Sì, sì, sì.» Harrison era esasperato. «Sono calmo. Calmissimo.» Quindi si girò e guardò fuori della finestra. Per alcuni istanti nessuno parlò. Harrison scrutava i tetti di Mile End Road, le cupole verdognole del centro commerciale Spiegelhalter che si stagliavano nell'azzurro. Un piccione atterrò sul balcone, poi l'uomo, scrollando le spalle, sospirò e si girò verso Jack. «Bene.»
«Che cosa?»
«Adesso fareste meglio a dirmelo.»
«A dirti cosa?»
«Lo sapete. Quella testa di cazzo l'ha violentata?»
Il sole aveva rallegrato l'umore di Jack quando lui giunse a Mackelson Mew, a Earl's Court. Trovò facilmente l'agenzia: sulla porta si leggeva la scritta LITTLE DARLINGS in lettere dorate adesive.
Julie Darling era una piccoletta sui quarantacinque anni, capelli corti, neri e lucidi ben tagliati alla maschietta, il naso inverosimilmente minuscolo su un viso tirato. Indossava una tuta da ginnastica rosso fragola di velour e un paio di pantofole in tinta, coi tacchi alti. Sollevò e reclinò il capo, come se sostenesse un vetro invisibile, mentre conduceva Jack lungo il corridoio di piastrelle di sughero. Un persiano bianco, disturbato dalla presenza dell'estraneo, infilò rapidamente una porta aperta. Poi Jack udì una voce maschile parlare in fondo a una stanza.
«Mio marito», spiegò Julie. «L'ho conosciuto in Giappone, vent'anni fa.» Chiuse la porta, ma Jack riuscì a intravedere un uomo che si grattava tristemente il ventre, come un tricheco. La stanza era a malapena illuminata dal sole che filtrava attraverso una fessura tra le tende. «Aviazione degli Stati Uniti», sussurrò lei, come se servisse a spiegargli perché non li avrebbe raggiunti.
Jack la seguì in ufficio, un locale dal soffitto basso, rischiarato dalla luce del sole che entrava da due piccole finestre piombate. Un'ape ronzava sui vasi di fiori posti sul davanzale e, dietro i vetri, si scorgeva una Jaguar tipo E, rossa. Qualcuno, nelle ex scuderie adibite ad abitazioni, si esercitava al piano.
«Bene», esclamò Julie, sedendosi alla scrivania. Accavallò le gambe e lo guardò, assorta. «'Caffery'. Che nome! Ha origini irlandesi?»
Lui sorrise. «Probabilmente. Siamo arrivati qui dalla County Tyrone passando da Liverpool.»
«Capelli scuri, occhi blu. Tipicamente irlandesi. Mia madre mi metteva sempre in guardia dai ragazzi irlandesi. 'Se non sono stupidi, sono pericolosi, Julie.'»
«Spero che l'abbia ascoltata, signora, hmm… Darling.»
«È il mio vero nome.»
«Sì, certo.» Jack infilò le mani in tasca e fissò il soffitto basso: era ricoperto di foto pubblicitarie patinate, una schiera di volti che lo osservava. «Vorrei sapere che mi può dire di…» E si fermò.
Sotto il volto di una bionda sorridente c'era un nome stampato: Shellene Craw. Allora quello era il tuo volto. «Shellene Craw lavorava per lei?»
«Ah, così è qui per Shellene. Non mi sorprende. Mi deve due mesi di percentuali. Duecento sterline. E adesso arriva anche lei, per che cosa? Per la droga, immagino…»
«Non credo avrà i suoi soldi», rispose lui, sedendosi e posando le mani sul tavolo. «E morta.»
Julie non batté ciglio. «Me l'aspettavo: prima o poi l'overdose sarebbe arrivata. I clienti si lamentavano, dicevano che aveva i segni delle punture all'interno delle cosce. In quel modo li allontanava. Hmm, duecento sterline. Immagino che non me le abbia lasciate nel testamento.»
«Quando ha avuto sue notizie, l'ultima volta?»
«Due settimane fa. Lo scorso mercoledì non si è presentata in un locale, e non ha nemmeno chiamato.» Tacque per un istante, tamburellando con le unghie sul tavolo. «Li ho persi subito come clienti.»
«Dove?»
«Al Nag's Head. Ad Archway.»
«E qual è l'ultimo posto in cui si è fatta vedere?»
«Hmm…» Julie si protese sulla sedia e, dopo essersi leccata un dito, sfogliò un grosso contenitore a fogli mobili. Jack notò le radici grigie dei capelli e, sotto, il rosa intenso del cuoio capelluto. «Ecco», affermò la donna, picchiettando su un foglio. «Dev'essere stato il Dog and Bell, perché non li ho sentiti. Il numero era all'ora di pranzo, lunedì scorso.»
«Il Dog and Bell?»
«A Trafalgar Road. È a…»
«Sì, lo so.» Jack avvertì un lieve formicolio sotto la pelle. «È a East Greenwich.» L'area industriale si trovava a poco più di un chilometro. Jack prese una nuova pagina del notes. «Quel giorno Shellene lavorava da sola?»
«No.» La donna chinò il capo e lo scrutò attentamente. «Ha intenzione di dirmelo? È stata un'overdose?»
«C'era un'altra ragazza nello spettacolo?»
Julie lo fissò per un istante, la bocca lievemente contratta. «Pussy Willow. Fa spettacoli solo a Greenwich.»
«Ha un nome vero?»
«Abbiamo tutte un nome vero, signor Caffery. Solo i clienti più tristi credono che le nostre mamme e i nostri papà ci chiamino Beverly Hills. Joni Marsh. È con me da anni.»
«Ha il suo indirizzo?»
«Non le piace che lo dia in giro. Soprattutto a uno sb…» Julie si bloccò, sorridendo lentamente. «Soprattutto a un detective.»
«Non verrà a saperlo.»
Lei lo guardò con gli occhi socchiusi e scribacchiò l'indirizzo sul retro di un bigliettino da visita. «Divide l'appartamento con Pinky. Anche lei lavorava per me. Si chiama Becky, ora che ha smesso.»
«Grazie», fece Jack prendendo il biglietto. Il marito aviatore stava tossendo pesantemente in camera da letto.
«Lavora per lei una ragazza di nome Lucy?»
«No.»
«Betty?»
Julie scosse il capo.
«E il nome…» aggiunse, dando una scorsa agli appunti, «…Tracy le dice qualcosa?»
«No.»
«Petra?»
«Petra? Sì.»
Jack sollevò lo sguardo. «Sì?»
«Sì, io… Petra. Che buffa ragazzina.»
«Ragazzina?» ripeté Jack, inarcando le sopracciglia.
«Piccola, intendo», spiegò la donna, guardandolo torvamente. «Non trattiamo mica coi pedofili, signor Caffery. Sto parlando di una delle spogliarelliste. Mi ha anche tirato un bidone, e io che pensavo di essere una brava psicologa!»
«È scomparsa?»
«Dalla faccia della terra. Ho scritto al suo ostello e, ovviamente, non ho mai avuto risposta.» Stringendosi nelle spalle, aggiunse: «Non mi doveva molto, così ho lasciato perdere. È tutta esperienza, giusto?»
«Quand'è accaduto?»
«A Natale. No, all'inizio di febbraio, perché eravamo appena tornati da Maiorca.»
«Droga?»
«Lei? No. Non l'avrebbe mai toccata. Le altre, sì. Ma non Petra.»
«Quando ha detto che era piccola…»
«Ossatura minuta. Come un uccellino. Tutta pelle e ossa.»
Jack si mosse, a disagio, sulla sedia stretta. «Ricorda il suo ultimo spettacolo?»
La donna gli lanciò un'occhiata lunga, intensa, poi lentamente, mestamente, sfogliò il registro. «Ecco», rispose, facendo scorrere un dito sulla pagina. «Era il 25 gennaio. Al King's Head. A Wembley.»
«È mai andata al Dog and Bell?»
«Spesso. Il suo ostello era a Elephant & Castle. Joni la conosce.» Si leccò un dito e girò la pagina. «Strano», mormorò. «È stata al Dog and Bell il giorno prima di andare al King's Head. Il giorno prima di sparire.»
«Bene. Mi dia l'indirizzo.»
«Senta», replicò Julie, appoggiandosi allo schienale, le mani sulla scrivania. «Mi dica che sta succedendo.»
«E mi dia anche una foto di Petra.»
«Ho chiesto che sta succedendo.»
Lui indicò il soffitto con un cenno del capo. «E una di Shellene.»
La donna sbuffò rumorosamente e recuperò un dossier da sotto il tavolo, lo sfogliò e prese due primi piani di Shellene e una foto sottoesposta a colori, a figura intera, di una brunetta con una calzamaglia a rete. Quindi porse le foto a Jack, senza guardarlo.
Petra non era bella. Aveva lineamenti molto minuti, occhi scuri e il mento triangolare deciso di una teppistella da strada. L'unico trucco che usava era un tratto di matita sul contorno delle labbra.
Jack mise la foto alla luce del sole e si soffermò a lungo a studiarla.
«Che c'è?»
Lui sollevò lo sguardo. «Si tingeva i capelli?»
«Lo fanno tutte.»
«Sembra…»
«Rosso scuro. È orribile, vero? Le dicevo di non farlo.»
Jack infilò le foto nella sua Samsonite, pensando al cadavere piccolo come quello di una bambina che si trovava all'obitorio di Greenwich, l'unico a essere stato legato. Chiuse la valigetta, imbarazzato di fronte a un'ondata improvvisa di sentimenti per una povera anoressica, legata e imbavagliata, che lottava per sopravvivere. «Grazie per il suo aiuto, signora Darling.»
«Ha intenzione di dirmi che c'entra Petra con Shellene?»
«Ancora non lo sappiamo.»
«È morta anche lei, vero? La piccola Petra…» esclamò Julie all'improvviso.
I due si scrutarono a lungo. Poi Jack si schiarì la voce e si alzò.
«Signora Darling, per cortesia non parli con nessuno di questa faccenda. Sono i primi giorni d'indagine. Le siamo grati per l'aiuto.» Le porse la mano, ma lei la rifiutò.
«Quando potrà, mi dirà di più?» Era molto pallida, con quel suo caschetto di capelli neri dai riflessi blu. «Vorrei sapere che cos'è successo alla povera, piccola Petra.»
«Lo saprà non appena lo scopriremo», rispose Jack. «Non appena lo scopriremo.»