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Giunta presso l'ufficio del detective Basset a Greenwich, la signora Frobisher si tolse il soprabito e lo appese con cura all'attaccapanni, tenendo indosso cappello e guanti.

«Una tazza di tè, signora Frobisher?»

«Magnifica idea», rispose la donna, sorridendo.

Basset continuò a osservarla con discrezione mentre sollevava le veneziane e accendeva il bollitore. Avvertiva un leggero senso di malessere allo stomaco. La signora Frobisher era ben nota al personale della stazione di polizia: negli ultimi sei mesi si era recata nell'ufficio di Greenwich con regolarità, per lamentarsi di qualsiasi cosa: delle liti nel condominio popolare sul lato opposto della strada, della sporcizia e del rumore causati dai lavori edili, del comportamento asociale dell'inquilino del piano di sotto. Si era rifiutata di rivolgersi al Dipartimento d'igiene ambientale, e le sue lamentele erano ormai considerate dagli agenti di turno parte dell'ingrata routine del lunedì mattina.

Perlomeno fino a quel lunedì quando, alle dieci, la donna fece la sua solita comparsa alla stazione, avanzando a passo lento, con indosso il cappello e il soprabito delle migliori occasioni nonostante la torrida giornata estiva, e fece una dichiarazione tale da indurre il sergente di turno a sollevare subito il telefono. Il detective Basset, uno dei primi uomini del CID a raggiungere l'area industriale alcuni giorni prima, cancellò l'appuntamento col funzionario addetto ai rapporti con la comunità e invitò l'anziana donna nel suo ufficio.

La signora Frobisher si appollaiò sul bordo della sedia e guardò fuori della finestra il sole che illuminava la tenda a righe della latteria Mullins, su Royal Hill. «È bello qui, non le pare?» sospirò. «Veramente bello.»

«Grazie, anche a me piace molto. Dunque…» replicò Basset, sollevando le bustine del tè con un cucchiaio e gettandole nel cestino. «Signora Frobisher, il sergente di turno mi ha riferito che ha avuto altre scocciature. Vogliamo parlarne?»

«Sì, è sempre la solita storia, ma nessuno ha intenzione di fare qualcosa.» Si tolse i guanti, li ripose nella grande borsa di similpelle dello stesso colore fulvo e chiuse la zip. «Sono venuta qui tutte le settimane, puntuale come un orologio, ma finora non ho avuto la benché minima soddisfazione. Non vogliono ascoltarmi. Sono vecchia, ma non stupida… Ho sentito, sa, che mi chiamano 'vecchia strega'.»

«Sì, sì», rispose il detective porgendole la tazza di tè, «mi dispiace, signora Frobisher. Mi dispiace davvero. Il fatto è che, in passato, un paio dei nostri ragazzi è venuto a farle visita, e credo che si senta…»

«Solo per quella storia delle volpi! Questo periodo dell'anno è la stagione degli amori e di tutto il resto, ma che baccano che fanno! Sembrano donne che urlano. E la prudenza non è mai troppa, di questi tempi e alla mia età.» La donna prese la tazza di tè e la posò sulle ginocchia. «Quando il mio George era ancora vivo, ci tirava i mattoni, a quelle bestiacce. E saprebbe riconoscere la differenza tra il verso di una volpe e le urla di una donna.» Si sporse in avanti, contenta che l'uomo la stesse ad ascoltare. «Sa, detective, sono nata a Lewisham e ormai sono cinquant'anni che vivo in Brazil Street. Nonostante tutto, mi ci sono affezionata. Ho visto i bombardamenti dei crucchi, il consiglio comunale che ci ha messo le mani sopra, l'arrivo degli stranieri e ora degli speculatori edili. Hanno distrutto tutto ciò che amavo e costruiscono un palazzo dopo l'altro; edifici esagerati, trasformano tutto in loft e non so cos'altro ancora…»

«Signora Frobisher…» la interruppe Basset, posando la tazza di tè sul notes e sedendosi di fronte alla donna. «Lei, nella sua dichiarazione, parlava di un vicino. È esatto?»

«Quello là!» L'anziana signora reclinò la testa, increspando le labbra. «Sì, anche lui… come se non avessi abbastanza preoccupazioni!»

«Mi racconti di lui. È il proprietario dell'appartamento al pianterreno?»

«Sì, l'appartamento è suo. Non che ne abbia particolarmente cura… Diamine, non è mai a casa!»

«Occupa l'appartamento da molto tempo, vero?»

«Da anni, ormai. Si è stabilito lì subito dopo la morte del mio George. Non feci in tempo a seppellirlo che mio figlio decise che quel posto era troppo grande per me, contattò i membri del consiglio, i progettisti, l'azienda del gas e non so quale altra gentaglia. Demolirono la scalinata, crearono un ingresso su un lato della casa e costruirono una di quelle orrende tettoie per auto, in stile americano, che tuttora non posso sopportare. Dopodiché vendettero l'intero piano a quell'uomo: il gatto e io, neanche fossimo due lebbrosi, fummo costretti a trasferirci di sopra.»

«Quindi l'entrata del suo vicino si trova sul lato della casa.»

«Sul retro, sotto la tettoia. Anche il giardino è diventato di proprietà di quell'individuo. Non che lo curi…» La donna sospirò di nuovo e scosse il capo. «Come potrebbe, visto che non è mai a casa? Di questo passo, entro luglio sarà pieno di erbacce. Ma anche se ne avesse cura, a cosa servirebbe? Chi vorrebbe sedersi là fuori con quel fracasso, la polvere e il martellare continuo? E quando non c'è baccano, ci sono le urla e gli schiamazzi per strada. Non c'è niente da fare, niente…»

«Certo, certo, le credo», annuì Basset. «Vogliamo invece concentrarci su ciò che ha raccontato al sergente a proposito del suo vicino?»

«Penso che quell'uomo abbia lasciato di nuovo il congelatore staccato. Sapesse che odore! Scommetto che non ha mai sentito un tale odore, detective. Di qualsiasi cosa si tratti, non è certo salutare. Non appena è arrivato andava tutto bene, teneva in ordine ogni cosa. Invece ora sta fuori casa per giorni e giorni senza preoccuparsi di niente. E per forza», esclamò con enfasi, battendo sul tavolo un dito deformato dall'artrite, «che tutto va a rotoli. Chiunque penserebbe che si tratta di un professionista, di una persona a modo.» La donna posò la tazza sulla scrivania di Basset e tolse lo spillone del cappello, come se ormai si sentisse completamente a proprio agio. «Mi spiace solo per i suoi pazienti.»

«È un medico?»

«Forse non è proprio un dottore, ma ha a che fare con la medicina, almeno così dice mio figlio. Dev'essere uno importante, a giudicare dall'automobile e dalle sue due proprietà. Ma ciò non toglie che sia un tipo strano. Il modo con cui trascura la casa…»

«Ma c'è qualcos'altro che ha destato le sue preoccupazioni, vero, signora Frobisher?» le suggerì Basset. «Non ha forse parlato al sergente di alcuni animali Il detective tacque per un istante. La donna lo stava guardando di sottecchi. Per un attimo Basset si chiese se l'agente di guardia non avesse capito male, se non si trattasse di un errore. «Non ha forse accennato al fatto che in questa storia sono coinvolti anche degli animali?» ritentò. «Non ha parlato di maltrattamenti?»

«Ah, sì.» Finalmente l'anziana signora capì. «Sì, c'è anche quello. Non se ne occupa come dovrebbe. Ne ho trovati due, morti, nel bidone delle immondizie all'esterno della casa. Avevano tutta l'aria di essere morti di fame.» Sorseggiò un po' di tè e sospirò. «È buono, questo tè. Dicono che non si può fare un buon tè con le bustine, ma in questo caso non sono assolutamente d'accordo.»

«Signora Frobisher», proseguì il detective con un sospiro, cercando di calmarsi. «Signora Frobisher, stiamo parlando di uccelli? Sono uccelli quelli che ha visto nel bidone?»

«Certo, è quello che ho detto», rispose, e lo guardò come si guarda qualcuno un po' tardo. «L'ho già detto, si tratta di uccelli.»

«Che genere di uccelli? Grandi o piccoli? Piccioni? Corvi?»

«Oh, no, no. Piccoli…» Allargando le dita artritiche la donna indicò una lunghezza di circa cinque centimetri. «Uccellini che uno potrebbe tenere in gabbia, se non avesse un gatto di cui preoccuparsi. Con piume rosse. Anzi, rossicce.»

«Potrebbe trattarsi di fringuelli?»

L'anziana signora tacque. Le cateratte, bianche come l'albume, vagarono nei suoi occhi. «Sì, ecco. Fringuelli. Ci scommetterei quello che vuole.»

«Bene.» Basset si asciugò la fronte. «Bene», ripeté. Si sporse in avanti e mise le mani sul tavolo. «Se la sentirebbe di raccontare questa storia a uno dei miei colleghi?»

«Questo suo collega farà qualcosa per risolvere la situazione?»

«Sicuramente se ne interesserà.»

La signora Frobisher si appoggiò meglio alla sedia, soddisfatta dell'interesse che aveva ottenuto. «Questo mi farebbe sentire meglio», dichiarò e, serrando le mani in grembo, aggiunse: «Il suo collega verrà qui a parlarmi?»

«Lo chiamo subito.»

Basset si sedette sul bordo della scrivania e selezionò il numero della centrale di Croydon per mettersi in contatto con Shrivermoor. Stava osservando la signora Frobisher sorseggiare il tè, quando sentì un clic e prese la linea. Avvertiva un lieve senso di nausea.


Essex rabbrividì quando vide fissi su di sé gli occhi della bambola, immobili e azzurri come i non-ti-scordar-di-me. «Non lasciare le finestre chiuse o quella roba diventerà viva. Non hai visto Doctor Who

Jack si prese la testa tra le mani. Sentiva nei muscoli una profonda spossatezza. «Gemini ha mentito.»

«Sì, non è certo una bella notizia», rispose il collega, guardandosi intorno. «Dove vuoi mettere queste foto?»

«Avrebbe potuto spiegare l'intera faccenda in quattro parole. Avrebbe potuto dire: sì, sì, conoscevo Shellene. Sì, è salita sulla mia auto. Sì, ero il suo pusher, facevo sesso con lei e chissà che altro. Sapevamo che scarrozzava le ragazze, gli bastava ammetterlo.» Jack appoggiò la schiena alla sedia e allargò le braccia. «Tutto ciò che conosciamo è il gruppo sanguigno di quel campione. Con la fortuna che abbiamo, coinciderà senz'altro.» Il telefono sulla scrivania prese a squillare. Jack lo fissò, inespressivo. «Abbiamo un mandato di perquisizione per l'appartamento?»

«Diamond sta andando a prenderlo. Poi porteranno Gemini alla stazione per fargli qualche domanda.»

«Cristo», esclamò Jack tamburellando sulla scrivania con impazienza. «Le nostre opportunità stanno diminuendo. Sarebbe ora che venisse fuori qualcosa da questi interrogatori al St. Dunstan's.» Cercò di afferrare il ricevitore, ma il telefono smise di squillare. «Merda.» Si accasciò di nuovo sulla sedia, tenendosi il viso tra le mani.

«Le vuoi queste o no?»

Jack annuì e allungò la mano. «Penso di sapere che cosa siano quelle ferite sulla testa.» Tolse le foto dalla busta e le sparpagliò sulla scrivania. «Qui, vedi? Queste fessure, si vedono bene. Krishnamurthi non è ancora sicuro dello strumento.»

«Tu invece sì?»

«Certo.»

«Allora?»

«I fori sono dovuti a punti di sutura.»

«Punti di sutura?» Paul raccolse la foto di Shellene, la avvicinò alla finestra e la guardò, tenendo gli occhi socchiusi. «Va bene, sono d'accordo con te, ma perché proprio punti di sutura?»

«Ti ricordi che cosa ha detto la zia di Kayleigh?»

«No, cosa?»

«Ha detto che Kayleigh aveva cambiato taglio.»

«Sì, mi ricordo.»

«Kayleigh non aveva queste ferite dovute ai punti. I suoi capelli erano quasi dello stesso colore della parrucca. Il biondo di Shellene invece era più scuro. Dorato, non biondo cenere.»

«E quindi?»

«L'assassino non ha fatto ricorso ai punti di sutura sulla testa di Kayleigh perché non ne ha avuto bisogno. Le ha semplicemente tagliato i capelli secondo il proprio gusto. Ti ricordi la parrucca che pensavamo fosse indossata dall'assassino? Sei stato tu che hai fatto cenno a Vestito per uccidere, no?»

«Sì. Allora?»

«Non era lui a indossarla, ma le ragazze. Lui l'ha semplicemente fissata coi punti per impedire che cadesse mentre giocava coi corpi. Quando l'ha tolta, la pelle si è strappata proprio in corrispondenza della sutura. Sta cercando di fare in modo che le ragazze sembrino identiche.» Jack raccolse le fotografie e le rimise nella busta. «Ecco perché le ha truccate e ha mutilato loro il seno. Sta cercando di farne dei cloni. Probabilmente le tiene nel suo letto per giorni.» Si alzò e indossò la giacca. «Se solo riuscissimo a capire a chi vuole che somiglino le vittime, saremmo a cavallo.» Prese le chiavi dalla tasca. «Andiamo?»

«Andiamo dove?»

«Al St. Dunstan's.»


L'archivio era affollato. Gli investigatori indossavano camicie con le maniche corte in omaggio all'arrivo anticipato dell'estate, e portavano avanti e indietro i dossier. Le veneziane erano abbassate e le luci accese. La Kryotos si era tolta le scarpe e stava sbocconcellando un pezzo di dolce al caramello mentre preparava HOLMES per gli interrogatori al St. Dunstan's. Doveva inserire ancora 180 nominativi per poter trovare tutti i riferimenti incrociati necessari.

«Jack, Jack…» mormorava. «Che cosa ti passa per la testa?»

L'effetto che Jack aveva sulle donne era evidente anche alla Kryotos, l'occhio matronale che tutto controllava. Quando lui camminava per la stanza, Marilyn osservava le impiegate che, dietro i loro monitor, si toccavano i capelli, accavallavano le gambe, si chinavano con aria distratta per grattarsi i polpacci o per infilare le dita nelle cinghiette dei sandali. E lui, puntualmente, si allontanava con la sua aria distaccata e distratta, coi suoi piccoli tagli del rasoio sul viso. La Kryotos non aveva dubbi su come le ragazze avrebbero curato quei tagli. Jack, tuttavia, sembrava distante da tutto ciò, come se al mondo ci fossero faccende ben più importanti. Marilyn non vedeva l'ora di conoscere Veronica, la coraggiosa Veronica, che aveva deciso di non disdire il party di quella settimana sebbene fosse in chemioterapia.

Se nessuno nell'ufficio del capo rispondeva al telefono, dopo cinque squilli le chiamate venivano trasferite automaticamente all'apparecchio della scrivania adiacente a quella della Kryotos. Il detective Diamond, che si era infilato la giacca e si stava dirigendo verso la porta per andare a prendere il mandato di perquisizione, si fermò e rispose.

«Archivio.» Dopo una pausa, aggiunse: «Il detective Caffery non è qui. Chi lo desidera?»

Marilyn guardò Diamond. «È nel suo ufficio», disse sottovoce.

«Adesso è occupato. Posso fare qualcosa?» Diamond ascoltò per un momento, giocherellando con il filo dell'apparecchio telefonico. «Se hai una pista, allora prendi tu la deposizione, spediscicela e, se ci andrà a genio, la terremo in considerazione.» L'interlocutore lo interruppe. «Va bene, come vuoi.» Prese una penna, tolse il cappuccio e si apprestò a scrivere. «Allora, che cos'hai da dirmi?»

Diamond buttò giù alcune righe di appunti, guardò avidamente il dolce della Kryotos, ascoltò ancora il suo interlocutore, rimise il cappuccio alla penna, tenne fermo il ricevitore col mento, guardò di nuovo il dolce e si grattò pigramente la caviglia proprio al di sopra del calzino. Marilyn notò che aveva un altro paio di calzini alla moda. Questa volta riportavano le sagome di Wallace e Gromit. Quindi si voltò verso il monitor.

«Senta, Basset… Basset! Mi permette una parola? Grazie. Ora, mi dica: parliamo di un indiziato… di un bianco? Sì? Bene. E questa donna… è quella che viene spesso, no?» Ascoltò ancora l'interlocutore e sorrise. «Capisco. No, no, no. Prendiamo seriamente tutte le soffiate. Grazie per il suggerimento. Lo dirò anche ai ragazzi. D'accordo?»

Dopo aver riagganciato, Diamond strappò la pagina di appunti, si alzò e si stiracchiò, grattandosi la pancia. «Santo cielo», disse con uno sbadiglio, «ecco la merda che ti buttano addosso non appena la gente intuisce qualcosa.» Si umettò le labbra. «Dov'è l'archivio, tesoro?»

La Kryotos alzò lo sguardo. «Scusi?»

«Dov'è il cestino?»

Col piede scalzo, Marilyn tirò fuori da sotto la scrivania il sacco della carta straccia contrassegnato dalla scritta RISERVATO. «La macchina per tagliare i fogli non funziona bene. Dovrà usare questo.»

«Sei una brava ragazza, lo sai?» Diamond appallottolò la carta, indietreggiò di qualche passo e la gettò nel sacco. «Al diavolo le volpi.»

«Al diavolo gli investigatori», replicò Marilyn tra i denti. Si tolse delicatamente un pezzetto di dolce dalle dita, se le pulì con un fazzolettino e riprese a lavorare.

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