46

Tornato a Shrivermoor, Jack non riusciva a rilassarsi. Si aggirava per l'archivio rovistando tra le carte, fissando le lavagne bianche, poi si piazzò dietro le impiegate, guardando i monitor al di sopra delle loro spalle, finché Marilyn non protestò, sostenendo che, in quel modo, lei s'innervosiva. Allora Jack si diresse nella stanza del capo e chiamò Jane Amedure.

«Scoperto niente sul cemento?»

«Il diffrattogramma è stato spedito nel Maryland. Sapremo qualcosa domani mattina.»

Jack ripescò il fax dell'ufficio personale, quello mandato da Bliss dal St. Dunstan's la settimana precedente, e lo esaminò nella speranza che qualcosa lo illuminasse. Ma così non fu, perciò si sedette con la testa fra le mani finché non calò il buio e gli uffici non si svuotarono. Fu allora che apparve Maddox, con indosso la giacca e la valigetta in mano.

«È molto nobile da parte tua, ma siamo realisti, eh? So di aver usato la frusta stamattina, però questo non significa che ti debba ammazzare di lavoro.»

«Sì, va bene, va bene.»

«Vai a dormire, capito?»

«D'accordo.» Dopodiché richiamò la dottoressa Amedure.

«Dia loro un po' di tempo, detective Caffery. Le prometto che domattina le telefonerò subito. Ora stiamo chiudendo.»

Jack rimase seduto nell'ufficio ormai deserto – in realtà l'intero edificio era cupo e silenzioso -, e si mise a fumare guardando, fuori della finestra, il mondo che rincasava al termine di una lunga giornata. Il sole scialbo si abbassò dietro le casette ordinate; sul cartellone pubblicitario dall'altro lato della strada stavano affiggendo un nuovo poster. Era stato tanto rapido a incolpare Cook, tanto sicuro del suo istinto, e l'idea di aver sbagliato lo mandava su tutte le furie. Maddox aveva ragione, sarebbe dovuto tornare a casa, ma era troppo consapevole della presenza di Birdman, la avvertiva come qualcosa d'intenso e quasi a portata di mano: un grosso pesce che gli nuotava intorno alle gambe.

In strada, gli operai della Maiden Signs srotolavano e incollavano, srotolavano e incollavano, spostavano gli attrezzi di qualche centimetro e ricominciavano daccapo. Ai piedi del cartellone apparvero le parole ESTÉE LAUDER; sopra di esse, la curva scintillante del collo di una modella. Jack osservò con sguardo assente, pensando al capello che era stato ritrovato in mezzo a quelli della Jackson. Avevano supposto che appartenesse a un'altra vittima, a una donna con cui Birdman non aveva ancora terminato, o a qualcuna non ancora rinvenuta. Si strinse la sella del naso tra le dita, cercando di pensare.

Un'altra spiegazione?

Il colore e il taglio erano così uguali a quelli della parrucca che persino Krishnamurthi non aveva notato la differenza. Forse il capello non apparteneva a un'altra vittima, bensì alla persona che Birdman stava ricreando. Forse quella persona era stata a casa sua. O, comunque, gli era stata sufficientemente vicina da consentirgli di prendersi un trofeo.

Eri tanto concentrato su Cook che non ti sei nemmeno soffermato a considerare l'ipotesi.

E qualcosa… Qualcosa…

Jack alzò lo sguardo al viso patinato che gli stava di fronte e tutto gli fu improvvisamente chiaro.

Il metabolita della marijuana nel capello biondo. La punta d'alluminio sulla spettrografia della Scientifica. Joni che spruzzava il deodorante nella stanza, l'appartamento era invaso del suo profumo.

Ma non combaciava tutto alla perfezione: Joni era formosa e alta, non esattamente come si era immaginato la Galatea di Birdman. Eppure, mentre spegneva la lampada e prendeva le chiavi, lasciando il fax e le carte sparse sulla scrivania, l'eccitazione parve sferrargli un pugno al plesso solare.


Alle due, «Clitoride» se n'era andata, portando con sé i colori, i fogli da disegno e il suo atteggiamento altezzoso, e lasciando Joni da sola per il secondo spettacolo. Bliss conosceva ormai bene la mente della ragazza. Sapeva che, attirata da un paio di drink, non si sarebbe scollata tanto facilmente. Gli altri clienti se ne andarono con la testa pesante, ad affrontare il pomeriggio, e lui rimase solo con lei.

Alle tre e mezzo Joni si trovava già nel bagno delle donne in cima alle scale. Una volta nel suo appartamento, stette male altre due volte e vomitò nel bagno.

Lui fece finta di non arrabbiarsi. Pulì, risciacquò e la lasciò smaltire i bagordi. Lasciò Joni, raggomitolata come una bambina ormai cresciuta – bionda e rosea, con indosso solo le mutandine e una T-shirt -, nella camera degli ospiti, in modo che, svegliandosi, non avrebbe visto la sua collezione di foto e non gli avrebbe piantato un casino. Nemmeno i lavori di ristrutturazione della vecchia scuola la disturbarono.

Quante volte aveva permesso a Joni di farlo, si domandò, sedendosi in soggiorno e tormentandosi il mento. Quante volte aveva lasciato che usasse la sua casa quale centro improvvisato di disintossicazione. E non aveva mai avuto il coraggio di fare nulla. Quante volte aveva fregato e rassettato, ripulito il corridoio e il bagno e il soggiorno delle sue foto mentre lei dormiva, mettendole al sicuro in una scatola di cartone, spruzzando deodorante nelle stanze. Solo per vederla alzarsi, accendere il walkman e uscire. Ignorandolo, trattandolo come una merda.

Ma ora tutto era cambiato, eccome. La sua vita era stata riscritta. Come se un giorno si fosse svegliato e avesse scoperto che il sole era di un altro colore.

Si alzò dal divano, si recò in cucina, preparò il tè e riempì un piatto di biscotti. Poi depose tutto sul cuscino accanto alla testa di Joni. La ragazza si stiracchiò, portandosi una mano al viso.

«Svegliati. Ti ho preparato il tè.»

Lei alzò il capo e sbirciò con gli occhi arrossati. Quando vide Bliss mugugnò e si lasciò cadere di nuovo sul cuscino. «Oh, no.»

«Bevi il tè.»

«No. Devo andare a casa.» Si sollevò sui gomiti e si guardò intorno, con la vista annebbiata. «Oddio, Malcolm, mi dispiace, ma non avevo intenzione di finire qui.»

«Mangia un biscotto, prima.» Aveva la lingua impastata: non riuscì a pronunciare bene la esse.

«No, ti ringrazio.»

«Insisto.»

«No, davvero.»

«Insisto!»

Joni spalancò gli occhi.

«Mi dispiace», mormorò lui, asciugandosi un filo di saliva dalle labbra. «Vorrei che mangiassi qualcosa. Devi rimetterti. Guardati…» – con la lingua tra i denti allungò una mano e le palpò lo stomaco -, «sei tutta pelle e ossa.»

Voleva essere un gesto tenero, ma Joni reagì malamente, e si ritrasse contro il muro. «Giù le mani!»

«Ma, Joni…»

«Lasciami sola, Malcolm.»

«Fammi solo toccare…»

«Quante volte te lo devo dire? No!» Lei arretrò ancora e cadde dal letto, ma Bliss si lanciò in avanti e l'afferrò per la T-shirt. Allora Joni si girò e gli prese le mani, cercando di fargli mollare la presa con le sue unghie affilate. «Lasciami.»

«Joni…»

«Togli quelle fottute…» Avvicinò le sue mani alla bocca e lo morse, facendogli sanguinare la nocca del pollice. «… levami quelle manacce di dosso.»

«Non fare così, Joni.» Le sue dita erano coperte da un miscuglio di saliva e di sangue. Lui si chinò, socchiuse gli occhi e la tenne stretta: Joni perse l'equilibrio e cadde di nuovo, colpendo il battiscopa con la spalla.

Lui la lasciò e si tirò indietro, ansimando.

Si guardarono in silenzio. Joni era stesa sulla schiena, la T-shirt arrotolata sul ventre, la sagoma del pube nettamente delineata sotto le mutandine rosa. Sembrava una bambola, stupita del fatto di essersi rotta tanto facilmente. Per un momento parve respirare con difficoltà.

Malcolm si avvicinò, allungò una mano. «Joni.»

«Va' via. Vattene.»

«Ma io ti amo.»

«Stronzate», ribatté lei, portandosi una mano alla spalla e trasalendo.

«Passa il mio compleanno con me. Domani. È tutto ciò che ti chiedo. Me lo devi, per avermi lasciato come hai fatto.»

«Non ti ho lasciato. Non c'è stato niente fra noi, pazzo fottuto. Non eri il mio ragazzo.»

Bliss la guardò, sbalordito. «Io ero innamorato di te.»

«Innamorato? Abbiamo quasi fatto sesso una notte, quasi, anni e anni fa, e solo perché ero troppo ubriaca per reggermi in piedi. Se fossi stata sobria non mi sarei mai avvicinata a te.»

«Non dire così.»

«Sei davvero patetico.»

«Ho rinunciato a tutto per te», confessò lui a testa bassa, le braccia abbandonate lungo i fianchi. «Ho rinunciato al mio sogno di diventare medico.»

«Oh, poverino. Non saresti mai diventato un medico.» Lei si alzò lentamente, con una smorfia di dolore. «Affronta la realtà, Malcolm: sei un impiegato del cazzo, e sempre lo sarai.»

«No», piagnucolò lui. «Non lasciarmi. Per favore, non farlo.»

Ma lei lo ignorò e, zoppicando per la stanza, si mise in cerca degli stivali e della gonna scamosciata. «E poi questo posto è disgustoso.» Trovò un deodorante nella borsa e lo spruzzò nell'aria. «C'è una puzza nauseante qui dentro.»

Con un singhiozzo, lui si accasciò contro il muro e si raggomitolò in un angolo, la testa fra le mani e il corpo tremante. «Per favore, non lasciarmi.»

«Suvvia.» La voce di Joni si era fatta più dolce. La udì avvicinarsi e vide il piede della ragazza accanto al suo. «Non fare il bambino.»

«Non andartene!» Bliss accarezzò lo stivale scamosciato. «Non andare.»

«Devo andare. Calmati, dai. Possiamo essere amici.»

«No.»

«Malcolm. Su. Ora vado, va bene, Malcolm?»

Stavolta fu più rapido.

Con una mossa, le afferrò il piede e lo sollevò, al di sopra della sua testa. Joni cercò un appiglio, ma le sue mani scivolarono sulle pareti, e lei cadde sul pavimento, agitando le braccia. Rapidamente, Bliss s'inginocchiò, puntandole un gomito allo stomaco. Poi le assestò un secondo colpo, al viso questa volta, facendole uscire il sangue dal naso.

E Joni perse conoscenza.


Jack si fermò davanti alla casa di Susan Lister. Le tende erano tirate e, attaccato al cancello, vi era un messaggio dattilografato inserito in una busta di plastica, l'inchiostro sbavato là dov'era penetrata la rugiada.


AI RAPPRESENTANTI DELLA STAMPA:

MIO FRATELLO E SUA MOGLIE STANNO ATTRAVERSANDO UN PERIODO MOLTO DIFFICILE. VI PREGHIAMO DI RISPETTARE LA PRIVACY DELLA NOSTRA FAMIGLIA E DI NON RENDERE LA SI TUAZIONE ANCORA PIÙ DIFFICILE TEMPESTANDOCI DI DOMANDE. ABBIAMO GIÀ DETTO TUTTO CIÒ CHE INTENDEVAMO DIRE.

GRAZIE.

T. LISTER


Jack infilò le chiavi dell'auto in tasca, girò l'angolo e si fermò sulla soglia del negozio di rigattiere, una mano sullo stipite, l'altra sul campanello.

«Sì?» chiese una voce al citofono. «Chi è?»

«Detective Caffery. Mi chiedevo se potessi concedermi due minuti.» Un attimo di silenzio. La donna non rispose, e lui ripeté: «Sono Jack Caffery…»

«Sì, ho sentito. Aspetta lì. Scendo giù tra un minuto.»

Passò molto tempo prima che lei scendesse, e l'agitazione di Jack aumentava. Ma, proprio quando stava per suonare nuovamente il citofono, udì alcuni passi sulle scale e il catenaccio che si apriva. Lei era scalza e indossava un vestito ampio, color tulipano.

«Posso entrare?»

La ragazza non rispose.

«Rebecca?»

«Sì», sospirò lei. «Entra pure.» Arretrò di un passo nel corridoio per farlo passare. Poi chiuse la porta col chiavistello e indicò le scale. «Ho appena aperto del Fitou. Credo ti piaccia.»

L'appartamento era freddo. Le persiane erano semichiuse e una mosca ronzava pigramente intorno a un ventaglio di pennelli infilati in un recipiente di vetro. «Siediti, vado a prenderlo. Scusami per il disordine», disse lei, prima di scomparire in cucina. Jack gironzolò per lo studio, osservando le pile di disegni e di schizzi sparsi ovunque. Il ritratto incompleto di Joni giaceva ancora sul cavalietto. I capelli erano così biondi da farla sembrare albina.

«Lei non c'è?» chiese Jack.

«È ancora al pub.»

«A che ora pensi che tornerà?» Sentiva l'odore stantio del deodorante di Joni.

«Per chi sei venuto, detective? Per me o per Joni?»

«Per te, naturalmente.»

In cucina lei scoppiò in una risata ironica. «Sì, certo.»

«Sì, certo», ripeté fra sé Jack, tornando in corridoio. Il bagno era proprio di fronte e, accanto a esso, c'era la scala che portava alla camera di Joni. Alla sua destra, la porta della cucina era chiusa, ma udiva Rebecca dall'altra parte che lavava i bicchieri. Andò in bagno e chiuse la porta a chiave dietro di sé.

Faceva caldo, là dentro, e i colori avevano le tipiche tonalità tropicali dei dépliant delle vacanze: asciugamani fucsia e pareti color acquamarina. Alcuni collant neri erano immersi in un catino nella vasca da bagno e sul tappetino vi erano varie impronte di talco. Jack aprì il rubinetto, poi guardò nell'armadietto dei medicinali. Trovò subito ciò che cercava. Estrasse una cartina per sigarette dalla tasca e l'avvolse intorno alle setole di una spazzola per capelli dal manico rosso. Quando la tolse, vi rimasero attaccati quattro o cinque capelli argentei. Ripose quindi la cartina nel piccolo contenitore di cartone, chiuse il rubinetto e tornò nello studio.

Senza parlare, Rebecca gli porse un bicchiere. Poi si voltò, raccolse una pila di disegni dal pavimento e li mise sul tavolo.

«Rebecca?»

«Sì?» rispose lei, senza voltarsi.

«Hai ricevuto il mio messaggio? Hai sentito quello che ho detto in segreteria?»

Sulle prime, lei non rispose. Fece finta di essere assorta a dividere il mucchio in due pile più piccole. Poi ripose i disegni, abbassò le spalle e si protese sul tavolo. «Sì», mormorò, scuotendo il capo. «Sì, scusami. È anche su tutti i giornali. Dicono che… Be', credono che quella donna di Malpens Street…» Fece un vago gesto con la mano, come per sdrammatizzare. «Quanto amano gonfiare i fatti…»

«Non scherzavo: devi stare davvero attenta.»

Lei si voltò lentamente verso di lui. Incrociò le braccia, si ritrasse e lo guardò con la testa inclinata di lato. «Lui è morto, vero? Toby è morto, no? Non ci sono stati errori.»

«Nessun errore.»

«E allora perché?» domandò in tono sommesso. «E da chi? Da chi dovrei stare in guardia?»

«Se lo sapessi, te lo direi.» Quando vide la sua espressione, Jack sospirò e aggiunse: «Sinceramente, Rebecca, te lo direi. Nessuno di noi sa con precisione che cosa sta succedendo».

«Ah», esclamò lei, con un brivido. «Sono tanto stanca. Sono stanca di vivere continuamente nella paura. Stanca di vivere in una serra perché non posso aprire la finestra.» Tornò al tavolo e riprese a dividere i disegni. «Le gallerie continuano a chiamare. I miei lavori vanno a ruba, c'è sempre più richiesta e ora anche Time Out vuole un'intervista. Time Out, nientemeno! E tu sai perché, vero?» Non lo guardò, e lui capì che non si aspettava una risposta. «Per la qualità del mio lavoro? Perché sono una promessa dell'arte? Perché ho aggiunto qualcosa al lessico dell'interpretazione artistica?» Scosse il capo. «Ovviamente no. Nulla di tutto questo. S'interessano a me solo per via di lui. Sciacalli, sono un branco di fottuti sciacalli. Ma credi che mi faccia scrupoli? Assolutamente no. Per niente. Sono un'opportunista, come tutti. Ho intenzione di specularci sopra. Anzi probabilmente dovrei sentirmi eccitata dato che la faccenda non è ancora chiusa.»

Mentre sfogava la sua ansia, la tensione di Jack, a poco a poco, svanì. Per quella sera non avrebbe fatto in tempo ad andare in nessun luogo: il mattino seguente, all'apertura, si sarebbe recato ai laboratori della Scientifica, ma fino ad allora non aveva nulla da fare. Era ora di mettere la parola fine alla giornata. Sorseggiò il vino e lasciò che Becky parlasse.


Bliss si era ripreso dalla lotta. Trascorse la serata attendendo che Joni riacquistasse conoscenza e, nel frattempo, andò due volte in bagno per scaricarsi, eiaculando in un preservativo. Si congratulò con se stesso per la sua prudenza: voleva aspettare finché Joni non fosse adeguatamente pronta. Erano le dieci di sera quando entrò nella stanza. Le infilò le mani sotto le natiche, e, piegando le ginocchia per evitare problemi alla schiena, la sollevò e la mise sul letto. La ragazza vi cadde a peso morto. Soltanto allora Bliss notò che le aveva fatto male all'occhio sinistro. Anche con quel gonfiore capì che qualcosa non andava. Le prese la testa fra le mani e si chinò per vedere meglio. Vi era una protuberanza innaturale, e l'iride era rivolta verso il basso. Le tastò l'occhio. Più tardi avrebbe cercato la spiegazione di quel fatto in uno dei suoi libri. In quel momento, si limitò a inumidire il dito con la saliva e a pulire il sangue coagulato dalla narice.

Le tolse gli stivali e li ripose in un angolo. Le tolse la gonna scamosciata. Le tagliò la T-shirt, lasciando fuoriuscire i seni grandi e gonfi.

Provò a schiacciarle un capezzolo turgido. Si era chiesto come sarebbero state quelle cose nuove e innaturali: con una certa sorpresa, le sentì piuttosto calde ed elastiche. Prese il capezzolo destro fra il pollice e l'indice e sollevò l'intero seno, allungandolo fin dov'era possibile, una decina di centimetri sopra le costole. Rimase affascinato dalla calda duttilità della carne e del silicone. «Hmm…» Si avvicinò per osservare la cicatrice lucida, lievemente in rilievo, nel punto in cui avevano inserito il silicone. Bene. Non sarebbe stato necessario tagliarla troppo.


«Quindi…» Rebecca aveva finito di dividere i disegni. Sembrava più calma. Frugò sotto i fogli e i colori e trovò una cornice; poi l'appoggiò su uno degli schizzi e ne studiò l'effetto. «Veronica, vero?»

Jack sollevò lo sguardo. «Prego?»

«Veronica. Vive con te?»

«Oh…» Lui scosse il capo e si appoggiò allo stipite della porta. «Sì, sì. Suppongo che pensasse di sì.»

«Che cosa è andato storto?»

«Sinceramente?»

«Sinceramente.»

«Io», mormorò lui con un sorriso. «Sai, sono un vero fallimento umano.»

«Hmm…» Lei tacque per qualche istante, studiandolo. «Non si vede.»

«Non si vede dall'esterno; non è visibile all'occhio nudo. Ma è così.»

«Perché?»

«Per via di un'ossessione.»

«Ah. Cioè di una donna», commentò lei, voltandosi verso il dipinto. «Allora non posso biasimare Veronica.»

«No. Non si tratta di una donna.»

«Allora presumo si tratti di Ewan.»

«Sì… io…» Sentire il nome di Ewan pronunciato da un'altra persona lo sorprese non poco. «Ti ricordi il suo nome, allora.»

«Credevi l'avessi dimenticato?»

«Sì.»

«Ebbene, non è così.» Becky ripose la cornice e ricominciò ad accatastare i disegni, all'estremità del tavolo. «E mi dispiace deluderti, ma personalmente credo che siano tutte stronzate.»

«Come?»

«È una scusa idiota per non vivere la tua vita, non ti pare? Il passato, voglio dire. Ignoro che cosa sia accaduto con precisione, tuttavia so che ormai sei adulto e vaccinato, quindi dovresti smetterla, e andare avanti.» Appoggiò l'ultimo disegno e si voltò verso di lui. «Non hai mai sentito frasi come: 'Lascia che il passato seppellisca i suoi morti' e via dicendo?»

Jack la fissò, col bicchiere a mezz'aria, senza rispondere.

«Oh», esclamò Rebecca con un sospiro, vedendo la sua espressione. «Sono stata troppo dura con te, vero?» Allargando le mani, si guardò intorno, come se non capisse il suo stesso comportamento, come se la spiegazione fosse appesa ai muri. «È più forte di me… Per esempio, pensi che sia stata scortese a non rispondere a quella tua chiamata? E ad aver riagganciato? Non pensi che sia stata una scortesia inutile da parte mia?»

«Sì», rispose lui. «Sei stata dura.» Abbassò il bicchiere e rifletté. Poi chiese: «Me lo meritavo?»

Il viso di lei si addolcì. «Sì», sorrise. «Sì, te lo meritavi.»

Jack annuì e sospirò. «Era quello che pensavo.»


Bliss s'irritò quando non riuscì ad alzare il bacino di Joni per sfilarle le mutandine. In preda alla rabbia, la girò bruscamente su un fianco, tenendola in posizione con tutte le sue forze. Poi le infilò tra i denti un paio delle sue mutande, le fissò con il nastro adesivo e si risedette sul letto a guardarla.

La donna di Greenwich era rimasta legata lì per quasi ventiquattro ore. Quand'era arrivato per cambiarle il bavaglio di nastro adesivo, ammorbiditosi per via della saliva, lei lo aveva pregato di lasciarla andare in bagno. L'uomo si era rifiutato e lei aveva iniziato a piangere.

«Per favore, lasciami andare. Ti prego.»

Ma lui aveva scosso il capo, sostituito il bavaglio e l'aveva guardata freddamente, finché lei, in lacrime, non se l'era fatta addosso. Allora lui l'aveva picchiata, ma poi, rispettosamente, si era messo a pulire il casino. Nell'urina, Bliss aveva scorto alcune tracce di sangue: forse i reni della donna stavano lottando contro l'infezione…

«Bene», disse e lanciò un'occhiata al suo orologio. «Sono le dieci e mezzo, Joni. Tornerò a prepararti alle undici. Fino ad allora, rilassati.»


22.45. Le finestre dello studio erano aperte, i lampioni in strada proiettavano una luce rossastra che pareva rubata a un tramonto. Le macchine in transito riversavano musica nelle strade. La notte e il vino avevano addolcito Rebecca, che si era sciolta i capelli. La sua pelle luccicava nella semioscurità. Sedeva di fronte a Jack, senza parlare. Già da tempo la loro conversazione era giunta a un punto morto: non avevano più nulla da dirsi, eccetto ciò che volevano davvero.

Fu Jack a rompere il silenzio. «Devo andare», mormorò. E non si mosse.

Rebecca bevve un sorso di vino, ma non disse nulla.

«Si sta facendo tardi… Devo alzarmi presto domani.» Lasciò la frase in sospeso, in attesa di una risposta. «Allora… vado.»

«Sì», esclamò infine lei, posando il bicchiere. «Sì, certo.»

Scesero le scale, Rebecca per prima. Due gradini più in alto di lei, Jack poteva vedere i segni lasciati nella sua pelle dalle spalline del vestito. Alla porta d'entrata lei si fermò e, mantenendo una certa distanza da lui, posò la mano sul chiavistello, ma non lo aprì.

«Bene…» sussurrò, fissando un bottone della camicia di Jack ed evitando d'incontrare i suoi occhi. «Grazie per il consiglio.»

«Non c'è di che.»

Di nuovo silenzio. Gli occhi di lei rimanevano fissi sui bottoni. D'istinto, Jack sollevò la mano, appoggiandola sul petto. A quel movimento, Becky schiuse la bocca, poi si coprì il viso e si girò.

«Rebecca?»

«Mi dispiace.» La sua voce era smorzata.

«Rebecca?» Delicatamente Jack la prese per le spalle, sopra le spalline, sfiorando i segni che queste avevano impresso sulla pelle calda. «Torniamo di sopra?»

«Sì.» Lei annuì senza guardarlo. «Penso di sì.»

«Allora andiamo.»

Jack fece per voltarla, ma lei emise un gemito e gli afferrò la mano destra, la avvicinò alla bocca e prese a baciarla, affondando lievemente i denti nel palmo, succhiando un dito per volta. Lui rimase immobile a guardarle la nuca, col cuore in tumulto. La ragazza passò le dita sulle sue labbra, sollevò il mento e gli guidò la mano lungo il collo, sul vestito. E, improvvisamente, inaspettatamente, Jack fu colto da un desiderio così forte che non riuscì a trattenersi.

«Oh, Cristo…»

La girò verso di lui e, afferrandola per la parte posteriore delle cosce, la sollevò, facendola poi sedere sul calorifero spento nel corridoio. Quando le alzò il vestito, lei si lasciò sfuggire un gemito, poi, tenendo gli occhi chiusi, si protese verso di lui, tentando di baciarlo. I suoi denti urtarono contro quelli di Jack, e le sue mani armeggiarono per aiutarlo a toglierle gli slip. Non sorrideva, era assolutamente concentrata.

Rispondeva.

I piedi nudi di lei cercarono un appoggio: uno trovò la mountain bike precariamente appoggiata accanto al calorifero e fece pressione sulla ruota. Jack, ben saldo sul pavimento, si aprì i pantaloni. Attraverso la lunetta, i fari delle auto illuminavano a tratti il soffitto e il volto di Rebecca mentre Jack si muoveva dentro di lei. Aveva gli occhi chiusi e, mordendosi le labbra, non lo respingeva, anzi avvicinava i fianchi a quelli di lui, seguendo il suo ritmo. La bicicletta dondolò in avanti e i pedali batterono contro i polpacci di Jack, ma lui non vi prestò attenzione. La sua concentrazione crebbe, la velocità e la tensione aumentarono, finché ogni atomo di energia, di rabbia e di desiderio venne sublimato in quell'atto, sino a fargli dimenticare com'era iniziato.

«No…» disse improvvisamente Rebecca, guardandolo. «No… Non venirmi dentro.»

«Oddio…» esclamò lui e si ritrasse, indietreggiando nell'atrio. Perso ogni controllo, venne sulle sue scarpe e sul pavimento. Per un attimo la guardò, incredulo, poi si portò una mano al viso e si lasciò cadere sull'ultimo gradino, scuotendo la testa, ansimando profondamente. «Mi dispiace… mi dispiace.»

Rebecca scese dal calorifero e si sedette accanto a lui, i capelli sudati appiccicati alla fronte e il petto sussultante. Il vestito, ancora arrotolato sopra la vita, incollato alla pelle, lasciava intravedere l'incavo scuro dell'ombelico.

«Scusami. Non avrei dovuto…» ansimò Jack.

«No… è…» Lei si asciugò la bocca e si voltò a guardarlo, la faccia e il collo arrossati e dolenti. «Davvero… Io… Va tutto bene. Avrei potuto fermarti.»

«Avrei dovuto usare qualcosa. Non mi era mai successo prima. Di solito non…»

Improvvisamente, la ragazza si coprì gli occhi, scosse il capo e cominciò a ridere.

«Che c'è?» domandò Jack, notando solo in quel momento che la gamba gli sanguinava, un lungo rigagnolo scuro e denso sui pantaloni accartocciati alle caviglie. «Cosa c'è di tanto divertente?»

«È questo ciò che intendevi per 'fallimento umano'?» disse lei, continuando a ridere. «È questo che faceva impazzire Veronica?»

«Oh», mormorò lui. «Te l'ho detto… Non era mai accaduto prima d'ora. Davvero.»

«Puoi provarmelo?»

«Sì. Posso provartelo.»

«Cosa… Adesso?»

«Adesso.»

«No, seriamente… proprio ora? Intendo dire, sei sicuro di poterlo fare?»

«Sì…» Lui guardò intorno in cerca di qualcosa con cui pulire il pavimento, le scarpe e la gamba. «Certo che posso. È uno dei miei pezzi forti.»

«Oh.» Rebecca sospirò. Poi sorrise. «Allora potrebbe essere amore.»


Alle undici era pronto.

Joni giaceva immobile nella stanza. Lui entrò – indossando il camice da chirurgo, la mascherina e la cuffia – e pensò che fosse ancora incosciente, ma poi si avvicinò e vide che, con l'occhio sano, lei lo stava fissando. Solo quando le mostrò il bisturi Joni reagì, e prese a dimenarsi sul letto, inarcando la schiena, agitando la testa ed emettendo versi soffocati.

«Calmati», disse lui, posandole una mano sulla spalla e schiacciandola contro il materasso. «Rilassati.»

Joni allontanò di scatto la testa e ringhiò da dietro il bavaglio.

«Puttana», sussurrò Bliss, mettendosi a cavalcioni sopra di lei. «Sta' zitta, ora. Puttana. Sono stato buono con te, ma tu mi provochi.» La spinse nuovamente contro il letto e Joni rimase immobile sotto le sue mani, continuando a osservarlo con l'occhio buono.

«Bene.» Si riappoggiò sui talloni e si asciugò il sudore sul volto. «Ascoltami. Non ho intenzione di ucciderti.» Si chinò su di lei e, ignorando il brivido che attraversò il corpo della ragazza, appoggiò delicatamente il viso contro il suo collo. «Voglio solo che sia come quella notte. Mi capisci?»

Dalla lacrima che dalla guancia di lei scorse alla sua fronte, Bliss comprese che Joni aveva accettato. E infatti smise di dimenarsi. Tuttavia, per maggior sicurezza, le legò il torace al letto, incrociando il nastro adesivo sui fianchi: dalla donna di Greenwich aveva imparato che il corpo umano, anche se incosciente, risponde in modo violento al dolore.

Prese una matita emostatica. «Non ci vorrà molto.»

Con la lingua fra i denti, tracciò con cura un segno poco sopra la vecchia cicatrice, nel punto in cui avrebbe praticato l'incisione. Non appena lo vide sputare sul bisturi e pulirlo sul camice, la ragazza prese ad ansimare, disperata.

«Non c'è molto da tagliare qui sotto, Joni», borbottò lui con una smorfia. La carne morbida cedette sotto la lama; si tese, poi si rilasciò e si spaccò, come un frutto. Dal bavaglio di nastro isolante provenne un lamento smorzato. Il bacino della ragazza si ritrasse disperatamente contro il materasso. Tra le lentiggini sparse sul ventre vi era solo qualche schizzo di sangue, niente di più. Bliss si chinò per guardare dentro la nuova ferita. E lì, oltre il grasso giallo sanguinante, scorse le protesi che sembravano guardarlo dal loro rivestimento di carne.

«Sei fortunata», mormorò allora, dando una pacca sul ginocchio di Joni. «Sono state applicate sopra il muscolo. Porta pazienza solo un momento…» Si morse il labbro e lentamente inserì le dita nella ferita, tastando all'interno del seno.

L'occhio sano di Joni si spalancò mentre l'indice dell'uomo raggiungeva la parte posteriore del sacchetto di silicone. La sua testa si agitava convulsamente.

«Tranquilla, ora. Non divincolarti.» Il pollice e l'indice si chiusero con presa sicura sulla protesi e cominciarono a tirare. «Buona… Buona…» I piedi di Joni s'accavallarono, i muscoli delle cosce si tesero come piccoli tamburi, mentre la protesi scivolava fuori insieme con un fiotto di liquido.

Bliss la depose delicatamente sullo stomaco di lei.

«Ecco fatto. Facile, vero?» Si pulì le mani nel camice. «Dunque… vediamo. Ne abbiamo ancora una…»

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