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Quando ormai il sole era sorto e aveva disperso la foschia levatasi dal fiume, tutti quelli che avevano visto il corpo alla luce del giorno avevano capito che non si trattava affatto dello scherzo di uno studente di medicina. Harsha Krishnamurthi, patologo di turno dell'Home Office Advisory Board for Forensic Pathology, era arrivato ed era scomparso per un'ora sotto il telo bianco. Nell'area era stata sguinzagliata e debitamente istruita una squadra specializzata nel rilevamento delle impronte, e a mezzogiorno il corpo era stato liberato dal calcestruzzo.

Jack Caffery trovò Maddox seduto sul sedile anteriore di una Sierra in forza alla squadra B. «Sta bene?» gli chiese.

«Non c'è più nulla che possiamo fare qui. Lasciamo che se ne occupi Krishnamurthi.»

«Vada a casa a dormire un po'.»

«Anche tu.»

«No, io resto.»

«No, Jack. Va' a casa anche tu. Se proprio vuoi diventare un campione d'insonnia, potrai esercitarti nei prossimi giorni, stanne certo.»

Jack sollevò le mani. «D'accordo, d'accordo. Come vuole, signore.»

«È un ordine.»

«Ma non dormirò.»

«Va bene, va bene. Va' a casa», ripeté Maddox, indicando la vecchia e ammaccata Jaguar di Jack. «Va' a casa e fa' finta di dormire.»

L'immagine del corpo giallastro sotto il telo si era impressa nella mente di Jack, ed era ancora vivida quando lui arrivò a casa. Nella nuova luce biancastra la donna sembrava più reale rispetto alla notte precedente. Le unghie, mangiucchiate, dipinte di color azzurro cielo, erano incurvate verso i palmi gonfi.

Jack si fece una doccia e si rasò. Nello specchio, il suo volto appariva abbronzato dopo la mattinata passata in riva al fiume, e gli occhi erano segnati da piccole rughe rese più evidenti dal sole. Sapeva che non avrebbe dormito.

La rapida promozione di una nuova leva nell'AMIP. Più giovane, più duro e più dotato degli altri, Jack percepiva il risentimento dei sottoposti, era consapevole del sottile e sinistro piacere che avevano provato quando, terminata la settimana di reperibilità, era stato riassegnato alla squadra B e gli era stato ironicamente, malignamente, affidato il primo caso.

Sette giorni di servizio, una reperibilità di ventiquattr'ore, varie notti insonni, e poi subito un caso, senza nemmeno il tempo di prendere fiato. Non avrebbe potuto dare il meglio di sé.

Inoltre quel caso sembrava parecchio complesso.

Non erano solo il luogo e l'assenza di testimoni a renderlo oscuro: alla luce del mattino avevano visto i segni neri, ulcerati, lasciati dagli aghi.

L'assassino aveva fatto qualcosa al seno della vittima… qualcosa cui Jack non volle nemmeno pensare, mentre si trovava nel bagno piastrellato di bianco. Si tamponò i capelli con un asciugamano e scosse la testa per far uscire l'acqua dalle orecchie. Smettila di pensarci, ora. Non ammattire. Maddox aveva ragione, doveva riposare.


Era in cucina, intento a versarsi un Glenmorangie, quando suonò il campanello.

«Sono io», esclamò Veronica, attraverso la buca delle lettere. «Ti avrei chiamato, ma ho lasciato il portatile a casa.»

Jack aprì la porta. Lei indossava un tailleur di lino color crema e, tra i capelli, portava un paio di occhiali da sole di Armani. Ammucchiati per terra, accanto ai piedi, i sacchetti di diverse boutique di Chelsea. La sua Tigra decappottabile color rosso fuoco era parcheggiata dietro il cancello del giardino, illuminata dal pallido sole serale. Lui notò che teneva in mano la chiave della porta d'ingresso, come se fosse stata sul punto di entrare.

«Ciao, uomo sexy», esclamò Veronica, avvicinandosi per baciarlo.

Lui la baciò, e sentì il sapore del rossetto e dello spray per l'alito al mentolo.

«Hmm!» Veronica gli bloccò il polso e arretrò, notando l'abbronzatura, i jeans, i piedi nudi. E la bottiglia di whisky che gli penzolava tra le dita. «Giornata di relax, o sbaglio?»

«Ero in giardino.»

«A osservare Penderecki?»

«Pensi che non possa andare in giardino senza osservare Penderecki?»

«Certo che lo penso.» Veronica stava per scoppiare a ridere quando vide la faccia di Jack. «Oh, dai. Sto scherzando… Tieni.» Prese un sacchetto e glielo porse. «Ho fatto la spesa: gamberetti, aneto fresco, coriandolo fresco e, oh, il miglior moscato. E questo…» Sollevò una scatola verde scuro. «… da papà e da me.» Alzò una lunga gamba, come un uccello esotico, e posò la scatola sul ginocchio per aprirla. In mezzo al tessuto stampato spiccava un giubbotto di pelle marrone. «Una delle linee di prodotti che importiamo.»

«Ho già un giubbotto di pelle.»

«Oh.» Il sorriso di lei svanì. «Oh, va bene. Non c'è problema.» Richiuse la scatola. Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante. Poi Veronica mormorò: «Posso restituirlo».

«No», disse Jack, provando subito un senso di vergogna. «Non farlo.»

«Davvero, posso cambiarlo.»

«No, sul serio, dammelo.»

Quello, pensò lui mentre chiudeva la porta con un ginocchio e la seguiva in casa, era il tipico modo di fare di Veronica. Gli faceva una proposta potenzialmente capace di sconvolgergli la vita, lui la rifiutava, allora lei spingeva in avanti il labbro inferiore e si stringeva nelle spalle: a quel punto, lui si sentiva immediatamente colpevole, si gettava ai suoi piedi e capitolava. Per via di quello che le era successo. Semplice ma efficace, Veronica. In sei mesi soltanto, la sua casa confortevole si era trasformata in un ambiente estraneo, pieno zeppo di piante aromatiche e di aggeggi vari; il suo armadio, poi, era ormai colmo di abiti che non avrebbe mai indossato: vestiti firmati, giubbotti cuciti a mano, cravatte di seta… Tutti omaggi della ditta d'importazioni del padre, in Goodge Street.

Mentre Veronica si appropriava della sua cucina – le finestre aperte, il Guzzini che ronzava, l'olio di arachidi che scoppiettava nelle padelle color verde brillante -, Jack prese il whisky e uscì sulla terrazza.

Il giardino… Ecco la prova evidente che la loro relazione stava andando a rotoli, pensò, mentre stappava il Glenmorangie. Quel giardino era stato creato ben prima che i suoi genitori comprassero la casa – pieno d'ibischi e di lupini di Russell, con la vecchia e nodosa clematide – e ogni estate gli piaceva lasciarlo crescere finché quasi non ostruiva le finestre con tutto il suo verde. Veronica invece voleva ordinarlo, potarlo, fertilizzarlo, voleva coltivare citronella e capperi in vasi dipinti, posti sui davanzali, progettare nuove soluzioni di arredo, con vialetti di ghiaia e siepi d'alloro. E, alla fine – dopo aver stravolto sia lui sia la casa -, avrebbe voluto che la vendesse, che lasciasse la piccola South London, il cottage vittoriano di mattoni sgretolati in cui era nato, con le sue finestre a colonnine, il suo giardino incolto e i treni che sferragliavano nella trincea della ferrovia lì accanto. Voleva lasciare il suo simbolico lavoro nella ditta di famiglia e la casa dei genitori. Voleva formare una famiglia e comprare una casa con lui.

Ma lui non poteva. La sua storia era troppo radicata in quel pezzo di argilla e creta perché potesse abbandonarlo per un mero capriccio. E, dopo sei mesi di relazione con Veronica, era certo di una cosa: non l'amava.

La osservò attraverso la finestra, mentre lei lavava le patate e preparava i riccioli di burro. L'anno prima era stato il suo quarto al CID, il suo quarto anno d'indolenza: Jack aveva cercato di sopravvivere, di non farsi travolgere dalla noia, in attesa di ciò che sarebbe accaduto dopo. E poi, durante uno sconclusionato party di Halloween del CID, aveva notato una ragazza in minigonna e sandali dorati che lo osservava con un sorrisetto.

Per due mesi, Veronica aveva scatenato in Jack una vera e propria tempesta ormonale. Soddisfaceva i suoi istinti sessuali. Lo svegliava alle sei del mattino per fare sesso e, durante i week-end, girava per casa con indosso solamente un paio di scarpe col tacco e un rossetto periato.

Gli aveva dato nuove energie. Per di più, anche altri campi della sua vita erano in evoluzione. Ad aprile, Jack aveva la testata del letto piena di graffi ed era stato trasferito all'AMIP, alla Omicidi.

Ma, a primavera inoltrata, proprio mentre la sua passione per lei si affievoliva, Veronica aveva cambiato atteggiamento. Era diventata seria: aveva dato inizio alla campagna per accalappiarlo. Una sera lo aveva fatto sedere e, con tono grave, gli aveva raccontato della grande ingiustizia della sua vita, subita molto prima che si conoscessero: nell'adolescenza aveva perso due anni a lottare contro il cancro.

La tattica aveva funzionato. Trovatosi con la bocca tappata, Jack non era più stato in grado di mollarla.

Quanto sei presuntuoso, Jack, ammise tra sé, come se il fatto di non lasciarla potesse essere una compensazione. Che grande presuntuoso sei.

In cucina, Veronica avvicinò il mento sottile al petto e, con la lingua fra i denti, prese a tritare un rametto di menta. Jack ingollò d'un fiato una sorsata di whisky.

Le avrebbe parlato quella sera. Forse, a cena…


Fu pronto in un'ora. Veronica accese tutte le luci di casa e le candele di citronella sulla veranda.

«Insalata di pancetta e di fave con rucola, gamberetti in salsa di miele e soia, seguiti da sorbetto di clementine. Sono o non sono la donna perfetta?» Scosse i capelli e sorrise, rivelando per un istante una fila di denti ben curati. «Ho pensato di farti provare il menù, per vedere se va bene per il party.»

«Il party.» Se n'era dimenticato. L'avevano deciso ritenendo che quello fosse un momento tranquillo, adatto a organizzare un simile «evento».

«Per fortuna, non me ne sono scordata, non ti pare?» osservò lei, superandolo con la padella Le Creuset colma di patatine novelle. Le porte finestre del soggiorno, che davano sul giardino, erano aperte. «Mangiamo qui, stasera, non ha senso aprire la sala da pranzo.» Poi si fermò, fissando la T-shirt stropicciata e i suoi capelli scuri spettinati. «Non pensi sia meglio vestirti per cena?»

«Stai scherzando?»

«Be', io…» rispose Veronica, stendendo un tovagliolo sulle ginocchia. «Penso che sarebbe carino.»

«No», replicò Jack, sedendosi. «Il vestito mi serve. Il caso è aperto.»

Forza, Veronica, chiedimi del caso, dimostra un interesse per qualcosa che non sia il mio guardaroba o le mie tovaglie.

Lei invece prese a riempirgli il piatto di patate. «Ma hai più di un vestito, no? Papà ti ha mandato quello grigio.»

«Gli altri sono in tintoria.»

«Oh, Jack, avresti dovuto dirmelo. Sarei passata a prenderli.»

«Veronica…»

«Va bene», tagliò corto lei, sollevando una mano. «Scusami, non ne parliamo più…» Poi s'interruppe. Nell'atrio squillò il telefono. «Mi chiedo chi sia», commentò, infilzando una patata. «Come se non lo immaginassi…»

Jack posò il bicchiere e scostò la sedia.

«Cristo», sospirò Veronica, esasperata, posando la forchetta. «Hanno proprio un sesto senso. Non puoi lasciarlo suonare?»

«No.»

Nell'atrio, Jack sollevò il ricevitore. «Sì?»

«Non dirmelo. Stavi dormendo.»

«No, non è così.»

«Mi spiace…»

«Che c'è?»

«Il capo ha autorizzato l'invio di alcune apparecchiature. Uno della squadra ha trovato qualcosa.»

«Apparecchiature?»

«Un GPR.»

«GPR? Questo…» Jack s'interruppe. Veronica lo superò e, con aria sdegnosa, salì le scale, chiudendosi la porta della camera alle spalle. Lui rimase nell'angusto atrio a fissarla, una mano appoggiata alla parete.

«Sei ancora lì, Jack?»

«Sì, mi scusi. Cosa stava dicendo? Il GPR serve per scandagliare il terreno…»

«Sì, è un radar per scandagliare il terreno.»

«Bene, ma quello che mi vuol suggerire è…» Jack spinse nella parete l'unghia nera del pollice lasciandovi un piccolo segno. «Sta dicendo che c'è dell'altro?»

«C'è, eccome», confermò Maddox con tono grave. «Anzi ci sono. Ci sono altri quattro cadaveri.»

«Merda», esclamò Jack, massaggiandosi il collo.

«Hanno appena iniziato le operazioni di recupero.»

«Dove la trovo?»

«Alla zona industriale. Li portiamo a Devonshire Drive.»

«All'obitorio? A Greenwich?»

«Già. Krishnamurthi sta già esaminando il primo. Lavorerà tutta la notte per noi.»

«Bene. Sarò lì tra mezz'ora.»


Al piano di sopra, Veronica era in camera da letto, la porta chiusa. Jack si vestì nella stanza di Ewan, controllò un'altra volta i movimenti di Penderecki, al di là della ferrovia – nulla -, e, mentre si annodava la cravatta, fece capolino in camera.

«Hai ragione. Dobbiamo parlare. Quando torno…» S'interruppe.

Lei era seduta nel letto, le coperte fino al collo, e stringeva in mano un flacone di pillole.

«Che cos'è quella roba?»

Veronica lo guardò. Aveva gli occhi segnati, cupi. «Ibuprofene. Perché?»

«Che stai combinando?»

«Niente.»

«Che stai combinando, Veronica?»

«Ho di nuovo la gola gonfia.»

Jack rimase immobile, la cravatta tesa nella mano sinistra. «Hai la gola gonfia

«Già.»

«Da quando?»

«Non lo so.»

«Be', lo è o non lo è.»

Lei borbottò qualcosa, aprì il flacone e, scuotendolo, fece cadere due pillole sulla mano, poi lo guardò. «Vai in qualche bel posto?»

«Perché non mi hai detto che avevi la gola gonfia? Non dovresti fare gli esami?»

«Non preoccuparti. Tu hai cose molto più importanti cui pensare.»

«Veronica…»

«Che c'è ancora

Lui rimase in silenzio per qualche istante. «Niente», rispose infine, annodandosi la cravatta e voltandosi in direzione delle scale.

«Non preoccuparti per me, d'accordo?» gridò lei. «Non ti aspetterò alzata.»

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