Soltanto Logan ed Essex rimasero fino all'una del mattino. Maddox doveva andare a Greenwich e gli altri ospiti si congedarono in fretta, lanciando sguardi imbarazzati a Jack che, seduto sulle scale, respirava pesantemente e si osservava le mani.
Veronica, con una calma quasi surreale, cercò di trattenerli. «Non c'è nulla di cui preoccuparsi. Non andate via. Possiamo sempre sederci in sala da pranzo.»
Quando si rese conto che stava combattendo una battaglia persa, chiuse violentemente la porta d'ingresso e, di malumore, si ritirò in cucina per caricare la lavastoviglie. Logan si diresse a Shrivermoor per sbrigare varie faccende e Paul passò la successiva mezz'ora con Jack, dividendo con lui il resto del Glenmorangie.
«Come un bambino», mormorò Jack, fissando il bicchiere.
«Come un moccioso ciccione col pannolino», concordò Paul. «Allora, hai intenzione di dirmelo?»
Jack guardò la porta del salotto, chiusa in modo che non si vedesse quello spaventoso mucchio d'ossa sparpagliato sul pavimento. «Potrebbe essere mio fratello.»
Paul rimase a bocca aperta. «Come?»
«Era il 14 settembre 1974. Ewan si era diretto alla ferrovia sul retro della casa. Non è più tornato.»
E lì, sotto la debole luce elettrica, si liberò del peso di quella storia, raccontò a Paul del litigio nella casa sull'albero e del pollice nero, di Ewan che era scomparso dalla sua vista, oltre la trincea della ferrovia («La chiamavamo 'la pista della morte'. Che ironia…»), di come sua madre singhiozzasse e gridasse nel giardino sul retro, mordendosi le mani, mentre la polizia ispezionava la casa di Penderecki per riemergerne dieci ore dopo a mani vuote, senza uno straccio di prova che Ewan vi avesse messo piede. Poi l'ombra del sospetto era caduta sul padre, il quale fu portato via e trattenuto per due giorni. («Oddio, per poco il matrimonio dei miei genitori non finì.»)
Il Glenmorangie diminuiva nella bottiglia.
«Alla fine rinunciarono, lasciarono perdere: dovevano farlo, almeno credo. Ma io non ci sono riuscito. Vedi, io so che lui ha nascosto il corpo di Ewan e che l'ha fatto proprio mentre ispezionavano la casa. Forse lo ha portato in campagna… Ci sono conti, lettere…» spiegò Jack, sollevando di scatto la testa, «… tutti indizi che ho radunato nel corso degli anni, nel tentativo di sistemarli, di trovare una pista. Ma sono certo di una cosa…» Bevve d'un fiato il whisky e concluse: «Se l'è tenuto stretto. Penderecki ha ancora Ewan».
«Quindi tu aspetti. Aspetti che ti riporti tuo fratello?»
Jack si fissò l'unghia del pollice e socchiuse dolorosamente gli occhi. «È questo ciò che ha fatto stanotte? Pensi che là dentro ci sia Ewan?»
Paul si alzò lentamente, trasalendo mentre il sangue gli ritornava alle gambe. «Non lo so, Jack. Ma lo scopriremo.»
Il temporale estivo si spostò verso sud-ovest attraversando Greenwich e facendo tremare l'antenna argentea del Crystal Palace alla luce della luna. Persino le case che costellavano il limitare di Blackheath sembravano rannicchiate, come per impedire alla vecchia brughiera di librarsi nel vento.
Harteveld era seduto al tavolo di mogano in salotto: una copia del Times aperta di fronte a lui, una bottiglia di pastis accanto. La pressione atmosferica gli causava un forte dolore alle tempie: per quanti antidolorifici ingoiasse e per quanta cocaina prendesse, non riusciva a liberarsi di quel dolore. E poi c'erano le mani. Le mani fredde. Come ghiaccio. Stava leggendo dei corpi che avevano trovato vicino al Millennium Dome. Kayleigh Hatch, Petra Spacek, Shellene Craw, Michelle Wilcox, e una ragazza che non riuscivano a identificare perché il corpo era orrendamente decomposto. Lui sapeva bene chi era. Era Sharon Dawn McCabe, la grassa ragazza scozzese morta nel sonno.
Nessuno ne aveva denunciato la scomparsa.
Gettò via il giornale dal tavolo e si prese la faccia tra le mani. Per diversi secondi rimase seduto così, dondolando la testa da una parte all'altra e facendo scorrere le dita fra i capelli, come se potesse scacciare i pensieri con le unghie. Afferrò il pastis e si diresse con passo vacillante all'aranciera, spalancandone le porte. Il vento ululava in giardino, gli sferzava il viso e faceva vibrare i vetri delle finestre.
Toby Harteveld stava immobile, il viso rivolto verso il temporale, sentendo i lunghi fili d'erba nel parco piegarsi e sibilare come la pioggia. La tempesta stava arrivando. Stava piombando su di lui dal cielo notturno, più veloce di una cometa, mirando esattamente al centro del suo petto.