«Basta succo di mela» disse Cheryl a Conner, il figlioletto di due anni.
Me ne stavo in disparte con le braccia conserte. L’autunno inoltrato del New Jersey era come al solito freddo e umido e mi tirai quindi il cappuccio della felpa sul berrettino degli Yankees. Mi ero messo anche un paio di occhiali Ray-Ban. Occhiali e cappuccio: dovevo assomigliare terribilmente all’identikit di Unabomber.
Mi trovavo a una partita di calcio per bambini di otto anni e Lenny era l’allenatore. Gli serviva un vice e aveva preso me forse perché, ritengo, sono l’unico a saperne di calcio perfino meno di lui. Ciò nonostante la nostra squadra era in vantaggio, otto a tre oppure otto a due, non lo so con precisione.
«Perché basta succo di mela?» chiese Conner.
«Perché ti fa venire la diarrea» rispose Cheryl, con tutta la pazienza di una mamma.
«Sì?»
«Sì.»
Alla mia destra Lenny stava sommergendo i bambini con una serie infinita di incoraggiamenti. «Sei il migliore, Ricky.» «Bene così, Petey.» «Bel contrasto, Davey.» Aggiungeva sempre una “y” ai nomi propri e la cosa mi dà fastidio, l’ammetto. Una volta, in un picco di sovreccitazione, mi ha chiamato Marky. Una volta.
«Zio Marc?»
Mi sentii tirare una gamba dei pantaloni e abbassai lo sguardo su Conner. «Che c’è, amico mio?»
«Il succo di mela mi fa venire la diarrea.»
«Buono a sapersi.»
«Zio Marc?»
«Sì.»
Conner mi diede un’occhiata serissima. «La diarrea non è amica mia.»
Guardai Cheryl, che abbozzò un sorriso. Ma anche nei suoi occhi lessi la preoccupazione. Allora riportai lo sguardo su Conner. «Parole sagge, piccolino.»
Conner annuì, soddisfatto della mia risposta. Gli voglio bene. Mi spezza il cuore e mi riempie di gioia in egual misura, nello stesso momento. Ha ventisei mesi, due più di Tara. Seguo la sua crescita con uno sgomento e una smania che potrebbero accendere una fornace.
Si voltò a guardare la madre. Attorno a Cheryl erano disseminati gli articoli che si era portata dietro in versione mamma-mula-da-carico. C’erano confezioni di succo Minute Maid e barrette di Nutri-Grain, pannolini Pampers Baby-Dry (Baby-Asciutto forse il contrario di quelli Baby-Bagnato?) e salviettine Huggies con autentico succo di aloe per sederini esigenti. C’erano bottiglini angolati della Evenflo. C’erano Teddy Graham alla cannella, carotine ben grattugiate, arance a spicchi, acini d’uva tagliati per il lungo per evitare rischi di soffocamento, cubetti di qualcosa che sperai fosse formaggio, tutti ermeticamente chiusi nei loro sacchetti di plastica Ziploc.
Lenny, allenatore in prima, stava gridando ai piccoli giocatori le mosse chiave della nostra strategia vincente. Quando eravamo all’attacco, gridava: «Segna!», se invece ci difendevamo il consiglio era: «Fermalo!». Altre volte, come in quel momento, dava sfoggio di grandi doti intuitive che penetravano nei meandri più reconditi di quel gioco.
«Dai un calcio alla palla!»
Dopo averlo urlato per la quarta volta consecutiva mi guardò. Io sollevai il pollice e mi congratulai con una semplice occhiata. Lui, per tutta risposta, avrebbe voluto sollevare il medio, ma c’erano troppi testimoni innocenti. Tornai a incrociare le braccia e mi misi a osservare il campo da gioco. I ragazzini erano tutti in tenuta da calcio come i giocatori professionisti, con gli scarpini bullonati e i calzettoni tirati sopra i parastinchi. Alcuni si erano passati del grasso nero sotto gli occhi, anche se non c’era la minima traccia di sole. Due si erano addirittura messi sul naso quei cerotti che servono a respirare meglio. Stavo osservando Kevin, il mio figlioccio, che, seguendo le istruzioni paterne, tentava di dare un calcio al pallone. E all’improvviso mi sentii come se qualcuno mi avesse dato un pugno.
Feci un passo indietro.
Succedeva sempre così. Stavo assistendo a una partita, o magari cenavo con amici o lavoravo su un paziente o ascoltavo una canzone alla radio. Facevo insomma qualcosa di normale, routinario, sentendomi una persona rispettabile, e a un tratto, bang, venivo colto alla sprovvista.
Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Non mi era mai successo prima che uccidessero mia moglie e si portassero via la bambina. Sono un medico, so come controllarmi sia in ambito professionale sia nella vita di ogni giorno. Ma ora porto in continuazione gli occhiali da sole come un attore di second’ordine che si sente una superstar. Cheryl mi fissò e ancora una volta lessi nei suoi occhi la preoccupazione. Mi raddrizzai, sforzandomi di sorridere. Cheryl si stava facendo bella. Succede, a volte. A certe donne la maternità si addice, dà al loro aspetto fisico una meraviglia e una ricchezza quasi celestiali.
Non vorrei però dare un’impressione sbagliata, non passo le giornate a piangere. Sono triste, certo, ma non in ogni momento. Non sono paralizzato, lavoro, anche se non ho ancora trovato il coraggio di tornare a operare all’estero. Continuo a ripetermi che devo rimanere in zona, nell’eventualità che insorga qualche fatto nuovo. Lo so, ragionare così non è razionale e forse, al contrario, è proprio maniacale. Ma non sono ancora pronto.
Ciò che mi colpisce, che mi dà quella botta a sorpresa, è il modo in cui il dolore sembra che si diverta a prenderti alla sprovvista. Il dolore, se localizzato, può essere, se non proprio gestito, quanto meno manipolato, aggirato, controllato. Ma un dolore del genere si acquatta dietro i cespugli e ama sbucare all’improvviso facendoti trasalire, rifacendoti il verso, spogliandoti di ogni pretesa di normalità. Il dolore ti culla fin quando non ti addormenti, per poterti cogliere ancora più alla sprovvista.
«Zio Marc?»
Era ancora Conner. Parlava già bene per la sua età. Mi chiesi come sarebbe stata la voce di Tara e chiusi gli occhi dietro gli occhiali scuri. Cheryl si rese conto del mio stato d’animo e allungò un braccio per allontanare il bambino, ma io glielo impedii. «Che c’è, amico mio?»
«E la cacca?»
«La cacca?»
Sollevò gli occhi e ne chiuse uno per concentrarsi. «La cacca è amica mia?»
Bella domanda. «Non lo so, amico. Tu che dici?»
Conner si mise a considerare il suo quesito con una tale intensità che sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro. «È più amica mia della diarrea» decise alla fine.
Annuii solennemente. La nostra squadra segnò un’altra rete. «Sì!» esclamò Lenny, sollevando in aria i pugni, poi fece quasi la ruota per andarsi a congratulare con l’autore del gol, Craig (ma forse dovrei dire Craigy). Gli altri giocatori lo seguirono e ci fu un nutrito scambio di “cinque”. Io non li imitai. Il mio ruolo, decisi, era quello del socio tranquillo di Lenny e dei suoi istrionismi, come Tonto con il Cavaliere Solitario, Pinotto con Gianni, Rowan con Martin e il Capitano con Tenille. Equilibrio, insomma.
Mi misi a guardare i genitori dietro le due linee del fallo laterale. Le mamme formavano capannelli, parlando dei loro bambini, dei loro successi, delle attività extrascolastiche e nessuno in pratica stava a sentire, perché i bambini degli altri annoiano. I papà offrivano una gamma più ampia. Alcuni stavano riprendendo con la videocamera i loro rampolli. Altri lanciavano grida d’incoraggiamento. Altri ancora se li mettevano pericolosamente a cavalcioni sulle spalle. Alcuni chiacchieravano al cellulare e armeggiavano con qualche aggeggio elettronico portatile, una specie di camera di decompressione dopo cinque giorni di full immersion lavorativa.
Perché avevo avvertito la polizia?
Da quel giorno mi sono sentito ripetere infinite volte che non è colpa mia se è successo quello che è successo. A un certo livello mi rendo conto che le mie azioni possono non avere minimamente interferito, tutto lascerebbe infatti pensare che quelli non avevano alcuna intenzione di ridarmi Tara: che magari era già morta prima della richiesta di riscatto. Potrebbe anche essere morta accidentalmente, forse quelli erano in preda al panico o si erano strafatti di roba. Chi lo sa? Io no di certo.
E qui sta il punto.
Non posso ovviamente avere la certezza di non essere responsabile. È l’ABC della scienza: a ogni azione corrisponde una reazione.
Non sogno Tara. Oppure, se la sogno, gli dèi sono così generosi da non farmela ricordare. Ma forse sto esagerando i loro meriti. Proviamo con una nuova formulazione: magari non sogno proprio Tara, ma rivedo il furgone bianco con le due mezze targhe saldate e l’insegna magnetica rubata. Nei miei sogni odo un suono attutito, ma sono pressoché certo che è il pianto di un bambino. Tara era dentro il furgone, ora lo so, ma nel sogno non mi muovo verso il punto da dove proviene il pianto. Ho le gambe sepolte nel letame dell’incubo, non ce la faccio a muovermi. E quando alla fine mi risveglio non riesco a sottrarmi a un dubbio scontato: Tara era così vicina a me? E, cosa ancora più importante: se avessi avuto un po’ più di coraggio, avrei potuto salvarla quel giorno?
L’arbitro, un liceale allampanato dal sorriso accattivante, fischiò agitando le mani sopra il capo. Fine dell’incontro. «E vai!!» gridò Lenny. I bambini si guardavano l’un l’altro, confusi. «Chi ha vinto?» chiese uno di loro a un compagno di squadra, che si strinse nelle spalle. Poi, come i partecipanti alla Stanley Cup di hockey, si misero in fila per le strette di mano finali. Cheryl si alzò, appoggiandomi una mano sulla schiena. «Bella vittoria, mister.»
«Già, è tutta sulle mie spalle questa squadra.»
Sorrise. I bambini cominciarono a uscire dal campo per raggiungerci e io mi congratulai con il mio caratteristico e distaccato cenno del capo. La mamma di Craig aveva portato cinquanta pacchetti di biscotti Dunkin’ Donuts Munchkins in uno scatolone con disegni di Halloween. Quella di Dave si era invece presentata con dei barattoli di qualcosa chiamato Yoo-Hoo, ma perverso per un latte al cioccolato che sapeva di gesso. Mi sparai in bocca un biscotto, evitando però di farlo seguire dallo Yoo-Hoo. «A che gusto era?» mi chiese Cheryl.
«Perché, ce ne sono di diversi gusti?» Guardai genitori e figli insieme e mi sentii terribilmente fuori posto. Lenny mi venne vicino.
«Grande vittoria, vero?»
«Sì, siamo i migliori.»
Mi fece segno di allontanarmi con lui e lo accontentai. «Abbiamo quasi finito con le proprietà di Monica» mi disse appena fummo fuori portata d’orecchio. «Ormai dovrebbe mancare poco.»
«Ah» fu il mio commento. Non me ne importava proprio niente.
«Ho anche fatto preparare il tuo testamento. Devi solo firmarlo.»
Né io né Monica avevamo fatto testamento, anche se per anni Lenny aveva insistito perché lo facessi. Bisogna mettere per iscritto a chi vanno i soldi, mi aveva ricordato, chi dovrà allevare tua figlia, chi si dovrà prendere cura dei tuoi genitori e bla bla bla. Ma non lo stavamo ad ascoltare. Noi avremmo continuato a vivere per l’eternità mentre i testamenti sono… be’, sono per i morti.
Lenny cambiò improvvisamente argomento. «Vuoi venire da noi a giocare a calcio balilla?»
Il calcio balilla, per quelli di voi privi di certe basi, è quel gioco in cui i calciatori sono degli ometti infilati in stecche simili a spiedi. «Sono già il campione del mondo» gli ricordai.
«Lo sei stato ieri.»
«Un poveraccio non può godersi per un po’ il suo titolo? Non sono ancora pronto ad abbandonare questa piacevole sensazione.»
«Capisco.» Lenny tornò dai suoi e vidi Marianne, la bambina, chiamarlo da parte gesticolando senza posa. Lenny curvò le spalle, tirò fuori di tasca il portafogli e ne estrasse una banconota. Marianne la prese, gli schioccò un bacio sulla guancia e scappò via. Lenny rimase a guardarla, scuotendo il capo mentre sul volto gli si disegnava un sorriso. Voltai la testa dall’altra parte.
L’aspetto peggiore, ma forse dovrei dire il migliore, era rappresentato dalla speranza. Avevo la speranza.
Ecco che cosa avevamo trovato quella sera nel casotto di caccia del nonno: il cadavere di mia sorella, dei capelli di Tara all’interno del Pack ’N Play (confermati dai test del DNA) e una tutina rosa con disegni di pinguini neri uguale a quella di Tara.
Ecco ciò che non abbiamo trovato e che dobbiamo ancora trovare: i soldi del riscatto, l’identità dei complici di Stacy (se li aveva) e Tara.
Proprio così. Mia figlia non l’abbiamo più trovata.
La foresta è grande e difficile da perlustrare, lo so. La tomba sarebbe piccola e quindi facile da nascondere. Potrebbero averla coperta con delle pietre. Un animale potrebbe averla trovata e potrebbe essersi portato il contenuto nell’intrico della foresta. Potrebbe trovarsi a chilometri e chilometri di distanza dal casotto del nonno. Potrebbe essere addirittura da tutt’altra parte.
Oppure potrebbe non esserci alcuna tomba: ma questo pensiero lo tenevo per me.
Esisteva quindi la speranza, capite. Come il dolore, la speranza si nasconde, ti salta addosso, ti rinfaccia tutto il rinfacciabile e non se ne va mai. Non so, tra la speranza e la sofferenza, quale sia l’amante peggiore.
Secondo polizia e FBI, mia sorella aveva dei complici particolarmente crudeli. E, mentre nessuno in pratica ha ancora capito se all’inizio avessero in mente la rapina o il sequestro, quasi tutti sono convinti che a un certo punto qualcuno si è fatto prendere dal panico. Forse pensavano che io e Monica non fossimo in casa, e quindi di doversela vedere soltanto con una baby-sitter. Sta di fatto che quando ci hanno visto qualcuno, forse perché spaventato o perché sotto l’effetto della droga, ha sparato un colpo. Poi ha sparato anche qualcun altro, e dall’esame balistico è emerso che io e Monica siamo stati colpiti da due diverse calibro 38, e si sono portati via la bambina. Successivamente hanno eliminato Stacy con un’overdose di eroina.
Continuo a usare la terza persona plurale perché la polizia è convinta che mia sorella abbia avuto almeno due complici. Uno di loro sarebbe il professionista, quello freddo, quello che ha organizzato alla perfezione la consegna del riscatto, quello delle due mezze targhe saldate. L’altro invece sarebbe l’agitato, quello che ci ha sparato e che molto probabilmente ha fatto morire Tara.
Secondo altri, naturalmente, questa teoria fa acqua. Sono convinti che il complice era uno solo, il professionista, e ritengono che a farsi prendere dal panico e a premere il grilletto sia stata Stacy. In base a questa teoria sarebbe stata lei a sparare la prima volta, probabilmente a me visto che non ricordo spari precedenti, e quindi il professionista avrebbe ucciso Monica per camuffare questo errore. Ad avvalorare tale teoria c’è uno dei pochi elementi a nostra disposizione dopo la scoperta del cadavere di Stacy: uno spacciatore, nell’ambito di uno strano patteggiamento durante un’altra indagine, disse alla polizia che Stacy aveva comprato da lui una pistola calibro 38 una settimana prima del delitto-sequestro. Oltre a ciò, c’è un altro particolare: gli unici capelli e le uniche impronte digitali di estranei trovate in casa mia erano di mia sorella. Un professionista serio si sarebbe messo i guanti e avrebbe fatto la massima attenzione, la complice drogata probabilmente no.
Ma c’è altra gente che non è convinta nemmeno di questa teoria, e per questo poliziotti e FBI prevedono un terzo scenario, con un’unica mente e un unico esecutore.
Io.
Ed ecco gli elementi costitutivi della terza teoria. Primo, il marito è sempre il principale sospettato. Secondo, la mia Smith and Wesson manca ancora all’appello: continuano a chiedermi insistentemente come mai, e a me piacerebbe tanto potergli rispondere. Terzo, non volevo bambini e la nascita di Tara mi ha costretto a un matrimonio senza amore. Ritengono di avere le prove che stavo pensando di divorziare (ipotesi questa che avevo effettivamente preso in considerazione) e quindi avevo organizzato il tutto, dall’inizio alla fine. Avevo invitato mia sorella a casa e forse l’avevo anche ingaggiata per poi fare ricadere la colpa su di lei. Ho nascosto i soldi del riscatto. Ho ucciso e sepolto mia sorella.
Orribile certo, ma ormai ho esaurito le scorte di rabbia. E anche quelle di spossatezza. Non so bene nemmeno io quali scorte mi rimangono.
La loro ipotesi fa acqua soprattutto in un punto: sarebbe stato difficile per me ridurmi in fin di vita per mettere in atto questo piano diabolico. L’ho uccisa io Stacy? È stata lei a spararmi? Oppure, rullo di tamburi, esiste una quarta possibilità, una specie di mix delle altre? Secondo alcuni dietro a tutto c’ero io, certo, ma avevo un altro complice oltre a mia sorella. Questo complice avrebbe ucciso Stacy, magari contro la mia volontà, forse ubbidendo a un mio piano più ampio per distogliere da me i riflettori e vendicare il mio ferimento. O qualcosa del genere.
E la giostra delle ipotesi va avanti così.
Ma poi, alla resa dei conti, sia io sia loro non abbiamo in mano un accidente di niente. Né i soldi del riscatto, né un’idea di chi sia stato e perché. E, soprattutto, nemmeno un cadaverino.
Ci troviamo a questo punto, a un anno e mezzo dai fatti. Il caso tecnicamente è ancora aperto, ma Regan e Tickner si sono dedicati a nuove indagini e non li sento da quasi sei mesi. I media ci hanno affondato le zanne per qualche settimana ma poi, non avendo più niente di cui cibarsi, si sono spostati strisciando verso mangiatoie più appetitose.
I Dunkin’ Donuts Munchkins erano finiti. Tutti cominciarono a muoversi verso un parcheggio pieno zeppo di minivan. Dopo la partita noi allenatori portiamo i nostri atleti in erba dal gelataio Schrafft’s, una tradizione del paese. Ogni allenatore nei campionati di qualsiasi fascia di età si attiene a questa tradizione. Il posto era affollatissimo. Non c’è niente come un bel cono per far gelare le ossa quando l’autunno è più freddo.
Osservai la scena leccando distrattamente il mio cono alla crema e biscotti. Padri e figli. Cominciava a essere troppo per me. Guardai l’orologio, si era fatta in ogni caso l’ora di tornarmene al lavoro. Incrociai lo sguardo di Lenny e feci capire al mio amico che me ne stavo andando. Articolò con le labbra la parola “testamento” e, in caso non avessi saputo interpretarla, fece con la mano il gesto di firmare qualcosa. Gli indicai che avevo capito, mi infilai in auto e accesi la radio.
Rimasi a lungo a guardare il flusso delle famigliole. Tenevo lo sguardo soprattutto sui padri, controllavo le loro reazioni a questa incombenza domestica per eccellenza sperando di cogliere un lampo di dubbio, qualcosa nei loro occhi che potesse in qualche modo consolarmi. Ma fu tutto inutile.
Non ricordo quanto tempo rimasi lì. Non più di dieci minuti, direi. Alla radio trasmisero un vecchio successo di James Taylor, che mi riportò su questa terra. Sorrisi, misi in moto l’auto e mi mossi in direzione dell’ospedale.
Un’ora dopo mi stavo lavando le mani per un intervento su un bambino di otto anni con il volto schiacciato, per usare una terminologia comune al profano e al professionista. C’era anche la mia collega e socia Zia Leroux.
Non ricordo bene quando decisi di fare il chirurgo plastico. A convincermi non furono né il canto delle sirene del guadagno, né l’ideale di dare una mano ai miei simili. Volevo fare il chirurgo praticamente da sempre, ma mi vedevo meglio nel settore vascolare o in quello cardiaco. È strano a volte come cambia la vita. Durante il secondo anno di internato il cardiochirurgo incaricato di spostarci da un reparto all’altro era, come posso dire?, una completa testa di cazzo. Mentre invece il responsabile della chirurgia estetica, Liam Reese, era un personaggio incredibile. Il dottor Reese aveva quella invidiabile superiorità naturale, quella combinazione di bella presenza, calma, fiducia e calore umano che attirava naturalmente gli altri. Ti faceva venire voglia di piacergli, di essere come lui.
Il dottor Reese divenne il mio mentore. Mi fece capire quanto fosse creativa la chirurgia ricostruttiva, un’attività che ti costringe a trovare nuovi sistemi per rimettere insieme i pezzi di ciò che è andato distrutto come Humpty-Dumpty, il personaggio della canzoncina per bambini caduto da un muro e finito in mille pezzi. Le ossa del viso e del cranio rappresentano la trama scheletrica più complessa del corpo umano. E noi che le ripariamo siamo degli artisti. Siamo jazzisti. I chirurghi ortopedici o quelli del torace possono essere molto precisi sulle tecniche che applicano mentre il nostro lavoro, quello della ricostruzione, non è mai lo stesso. Improvvisiamo, noi. Me l’ha insegnato il dottor Reese. Sapeva risvegliare il mio profondo interesse per la microtecnologia parlandomi di microchirurgia, di trapianti ossei, di pelle sintetica. Ricordo le volte in cui andavo a trovarlo a Scarsdale, aveva una bella moglie con le gambe lunghe, la figlia era la prima del suo corso, il figlio era il ragazzo più in gamba che avessi mai conosciuto oltre a essere il capitano della squadra di basket del suo college. Il dottor Reese morì a quarantanove anni in un incidente stradale sulla Route 684, direzione Connecticut. Qualcuno, ma non io, potrebbe vedere qualcosa di toccante in tutto questo.
Stavo terminando il periodo di internato quando vinsi una borsa di studio di un anno per fare pratica di chirurgia maxillofacciale all’estero. Non avevo presentato la domanda per andare a fare del bene al prossimo, ma solo perché mi sembrava fichissima un’esperienza del genere, l’equivalente del viaggio in Europa con zaino e sacco a pelo. Era quello che speravo, ma le cose andarono subito storte. Ci trovammo infognati in una guerra civile in Sierra Leone. Dovetti curare ferite così orribili e inimmaginabili da non poter quasi credere che la mente umana possa essere tanto crudele da infliggerle. Ma, anche in mezzo a quelle tragedie, provavo una strana euforia. Non cerco neanche di scoprirne il motivo, come dicevo prima questa attività mi dà una carica di energia. Forse, in parte, per la soddisfazione di aiutare chi ne ha veramente bisogno. O forse questo lavoro mi attrae come altri sono attratti dagli sport estremi, gente che ha bisogno di rischiare la vita per sentirsi viva.
Tornato negli Stati Uniti, creai insieme con Zia One World, e la mandavamo avanti bene. Mi piace ciò che faccio. Il nostro lavoro è forse una specie di sport estremo, ma ha anche un volto umano, se mi si passa il gioco di parole. Mi piace. Voglio bene ai miei pazienti ma allo stesso tempo adoro l’aspetto tecnico e la necessaria freddezza insiti nella mia attività. Mi stanno molto a cuore, i pazienti, ma poi li dimetto e non li vedo più: questo intenso amore che provo per loro comporta quindi un coinvolgimento passeggero.
Il paziente di oggi era un caso piuttosto complicato. Il mio santo patrono, il santo patrono di molti di noi che pratichiamo la chirurgia plastica, è il ricercatore francese René Le Fort. Uno che lanciava i cadaveri di testa dai tetti delle taverne per vedere la rete naturale di fratture del viso. Immagino che colpo facesse sulle signore. Oggi diamo il suo nome a certe fratture, abbiamo così la Le Fort di tipo I, II e III. Con Zia osservammo nuovamente le radiografie. La posizione Water ci offriva il quadro più preciso, e altri particolari ci venivano dalla Caldwell e dalla laterale.
La frattura sul volto di questo bambino di otto anni era una Le Fort di tipo III, che aveva prodotto la separazione completa delle ossa facciali dal cranio. Avrei potuto strappargli il volto come se fosse stata una maschera, se avessi voluto.
«Incidente stradale?» chiesi.
«Sì» mi rispose Zia. «Il padre era ubriaco.»
«Non mi dire. E naturalmente lui non si sarà fatto niente, vero?»
«Si era perfino ricordato di allacciarsi la cintura di sicurezza.»
«Ma non quella del figlio.»
«Troppa fatica. Pensa a quanto doveva essersi stancato a sollevare tante volte il bicchiere.»
Zia e io avevamo iniziato il nostro cammino terreno in due posti diversissimi. Come dice la canzone Brother Louie, quel classico anni Settanta degli Story, Zia è nera come la notte mentre io sono più bianco del bianco (Zia definisce la tonalità cromatica della mia pelle “bianca come la pancia di un pesce sott’acqua”). Sono nato al Beth Israel Hospital di Newark e cresciuto sulle strade del centro residenziale extraurbano di Kasselton, New Jersey. Zia è nata in una capanna di fango a pochi chilometri da Port-au-Prince, la capitale di Haiti. Durante il regime di Papa Doc i suoi genitori furono incarcerati come prigionieri politici, ma nessuno conosce nel dettaglio i particolari. Il padre venne giustiziato e la madre, quando la rimisero in libertà, era “merce deteriorata”. La donna prese la figlia e fuggì su quella che con molta fantasia potrebbe definirsi una zattera. Tre dei passeggeri morirono durante il viaggio, ma Zia e la madre sopravvissero. Arrivarono nel Bronx, e si sistemarono nella cantina di una parrucchiera passando le giornate a scopare in silenzio i capelli dal pavimento. Non c’era modo per Zia di sfuggire ai capelli, se li ritrovava sugli abiti, appiccicati alla pelle, in gola, nei polmoni. Da allora vive con la sensazione che gliene sia finito in bocca qualcuno del quale non riesce a liberarsi. E ancora oggi, quando è nervosa, gioca con le dita sulla lingua come per sbarazzarsi di un ricordo del passato.
A intervento concluso crollammo insieme su una panca. Zia si slegò la mascherina chirurgica, lasciandola cadere sul petto.
«Un’operazione facile» disse.
«Amen» confermai. «Com’è andato il tuo appuntamento galante, ieri sera?»
«Uno schifo, letteralmente.»
«Mi dispiace.»
«Gli uomini sono proprio dei pezzi di merda.»
«Come se io non lo sapessi.»
«Sono disperata. Sto pensando di venire ancora a letto con te.»
«Accidenti! Ma sei un’amorale, donna».
Aveva un sorriso abbagliante, con quei denti bianchissimi che spiccavano contro la pelle molto nera. Era alta circa un metro e ottanta, Zia, e aveva muscoli come seta e zigomi così alti e sporgenti che davano l’impressione che le potessero perforare la pelle. «Quand’è che comincerai a frequentare qualche donna?» mi chiese.
«Lo faccio già.»
«Abbastanza a lungo da avere un rapporto sessuale, voglio dire.»
«Non tutte le donne sono facili come te, Zia.»
«È triste.» E mi diede un affettuoso pizzicotto su un braccio.
Eravamo stati insieme una volta, io e Zia, e sapevamo entrambi che non sarebbe successo mai più. Era in questo modo che ci eravamo conosciuti, durante il primo anno di Medicina. Proprio così, era stato questione di una notte. Ne ho avuti a sufficienza, di affari di una notte, ma soltanto due mi sono rimasti nella memoria. La prima ha portato al disastro, la seconda, quella con Zia, è all’origine di un rapporto che ricorderò sempre con immenso piacere.
Erano le otto di sera quando ci togliemmo la divisa da sala operatoria. Prendemmo l’auto di Zia, una macchinetta chiamata BMW Mini, e ci fermammo davanti allo Stop Shop di Northwood Avenue a comprare qualcosa da mangiare. Mentre spingevamo i carrelli tra un banco e l’altro Zia parlava senza un attimo di pausa. Mi piaceva quando parlava, mi infondeva energia. Al banco della rosticceria prese il numerino, poi guardò il cartello delle offerte speciali e si rabbuiò.
«Che c’è?» le chiesi.
«C’è in offerta il prosciutto Testa di Cinghiale.»
«E allora?»
«Testa di Cinghiale» ripeté. «Mi piacerebbe conoscere il genio del marketing che si è inventato quel nome. Mi immagino la scena: “Ehi, ho un’idea. Diamo al nostro miglior prosciutto il nome dell’animale più disgustoso che si possa immaginare. No, meglio ancora: la testa di questo animale”.»
«Tu lo mangi sempre» le feci notare.
Ci pensò su. «Forse hai ragione.»
Andammo alla cassa. Zia posò i suoi acquisti sul tapis roulant, poi io feci altrettanto mettendo la barretta di legno tra i nostri acquisti. Una robusta cassiera cominciò a far passare i suoi articoli sul lettore di codice a barre.
«Hai fame?» mi chiese Zia.
«Mangerei volentieri un paio di fette di carne da Garbo’s.»
«Andiamoci.» Zia guardò oltre le mie spalle e poi si bloccò, socchiudendo le palpebre, mentre una strana espressione le si dipingeva sul viso. «Marc?»
«Sì?»
Fece un gesto con la mano davanti al viso, come per scacciare qualcosa. «No, non è possibile.»
«Che cosa?»
Rimase immobile, spostando solo il mento per indicarmi qualcosa. Mi voltai lentamente e, quando vidi ciò che stava guardando, provai un tuffo al cuore.
«L’ho vista soltanto in fotografia» stava dicendo Zia «ma quella non è?…»
Riuscii ad annuire.
Era Rachel.
Fu come se il mondo mi si chiudesse attorno. Ma non dovevo reagire così, lo sapevo. Avevamo rotto da anni e ora, dopo tanto tempo, avrei dovuto sorridere. Avrei dovuto provare una leggera malinconia, una fugace nostalgia al ricordo di un tempo che mi aveva visto giovane e ingenuo. E invece no, non erano queste le sensazioni che provavo. Rachel era a dieci metri di distanza e io venivo sommerso da altre sensazioni, da un desiderio ancora intensissimo, da una brama che mi dilaniava, che era riuscita a resuscitare sia l’amore sia le pene di un cuore in pezzi.
«Stai bene?» mi chiese Zia.
Feci nuovamente segno di sì con il capo.
Siete per caso di quelli convinti che ciascuno di noi abbia una sola anima gemella, un solo e unico amore deciso dal destino? Il mio, di solo e unico amore, se ne stava a tre casse di distanza sotto un cartello in cui si leggeva: CASSA VELOCE — NON PIÙ DI 15 ARTICOLI.
«Pensavo che si fosse sposata» disse ancora Zia.
«È vero, si è sposata.»
«Niente fede al dito.» E Zia mi diede un pizzico su un braccio. «Terribilmente eccitante, non trovi?»
«Certo. Siamo a Euforia City.»
Fece schioccare le dita. «Lo sai che cosa mi è venuto in mente? Quel vecchio ignobile trentatré giri che ogni tanto ascoltavi, quello con la canzone del tipo che incontra il vecchio amore in drogheria. Come si chiama?»
La prima volta che avevo visto Rachel, quando cioè ero un ragazzetto di diciannove anni, l’impatto era stato abbastanza morbido. Non ero rimasto stregato, non so nemmeno se l’avevo trovata particolarmente attraente. Ma, come non avrei tardato a scoprire, la donna che mi piace è quella la cui immagine mi cresce addosso. All’inizio pensi: “D’accordo, è abbastanza carina” e qualche giorno dopo qualcosa che lei dice o il suo modo di piegare il capo mentre parla cambia tutto: e all’improvviso hai l’impressione di essere stato travolto da un autobus.
In quel momento mi sentivo esattamente così. Rachel era cambiata, ma non molto. Gli anni avevano forse indurito quella sua sfuggente bellezza, rendendola allo stesso tempo più fragile e squadrata. Era dimagrita, Rachel. Portava i capelli neri con i riflessi blu legati a coda di cavallo. A molti uomini piacciono i capelli sciolti sulle spalle, io li ho sempre preferiti tirati all’indietro perché mettono in risalto il viso e, nel caso di Rachel, gli zigomi e il collo. Indossava dei jeans e una camicetta grigia. Teneva gli occhi color nocciola bassi, con la testa china e l’espressione assorta che conoscevo così bene.
«Same Old Lang Syne» disse Zia.
«Che cosa?»
«La canzone di cui ti parlavo, quella degli innamorati che si rivedono in drogheria dopo tanto tempo. La cantava un certo Dan Vattelappesca. È proprio questo il titolo, Same Old Lang Syne. Mi sembra, almeno.»
Rachel prese dal portafogli un biglietto da venti e lo porse alla cassiera: così facendo sollevò lo sguardo, e mi vide.
Non so spiegare esattamente che cosa le attraversò il viso. Non sembrò sorpresa. I nostri occhi s’incontrarono, ma nei suoi non lessi gioia. Paura, forse. O forse ancora rassegnazione. Non lo so. E non so nemmeno quanto tempo rimanemmo a fissarci.
«Forse io dovrei allontanarmi» sussurrò Zia.
«Eh?»
«Se penserà che ti sei messo con uno schianto di ragazza come me concluderà che non ha speranze con te.»
Credo di avere sorriso.
«Marc?»
«Sì?»
«Fai un po’ paura, immobile con la bocca spalancata come se ti fossi preso una bastonata sulla testa.»
«Grazie.»
Sentii la sua mano premermi sulla schiena per spingermi. «Valla a salutare.»
I miei piedi si mossero, anche se non ricordo che il cervello avesse trasmesso loro quel comando. Rachel, mentre la cassiera le infilava la spesa in un sacchetto, mosse un passo verso di me e cercò di sorridere. Era sempre stato un sorriso spettacolare, il suo, quel tipo di sorriso che ti fa venire in mente le poesie e le piogge primaverili, qualcosa di abbagliante capace di cambiarti una giornata. Ma non era più quello di una volta, il sorriso di Rachel, mi sembrò più tirato, sofferente. E mi chiesi se lei stesse cercando di trattenersi oppure se non fosse più capace di sorridere come allora, se cioè qualcosa avesse ridotto per sempre la sua carica di energia.
Ci fermammo a un metro di distanza l’uno dall’altra, non sapendo se in circostanze del genere il protocollo preveda un abbraccio, un bacio o una stretta di mano. Nell’incertezza rimanemmo entrambi immobili, ma io provavo un gran dolore dappertutto.
«Ciao» le dissi.
«Vedo con piacere che con le battute per rimorchiare vai ancora forte» fece lei.
Finsi un sorrisetto sbarazzino. «Di che segno sei, baby?»
«Così va meglio.»
«Vieni spesso qui?»
«Bene. Ora devi dire: “Non ci siamo già visti da qualche parte?”.»
«No.» Inarcai un sopracciglio. «Non avrei potuto dimenticare una ragazza guapa come te.»
Ridemmo. Eravamo tesi. E lo sapevamo tutt’e due.
«Ti trovo bene» le dissi.
«Anche tu te la cavi.»
Breve silenzio.
«Okay» ripresi. «Ho finito la scorta di frasi fatte e di battute forzate.»
«Accidenti!»
«Come mai sei qui?»
«Sto comprando da mangiare.»
«No, voglio dire…»
«Lo so che cosa vuoi dire» m’interruppe. «Mia madre si è trasferita in un nuovo condominio a West Orange.»
Un ciuffo di capelli le era sfuggito dalla coda e le era sceso sul viso. Dovetti fare uno sforzo per impedirmi di allungare una mano e scostarglieli.
Rachel allontanò lo sguardo, poi lo riportò su di me. «Ho saputo di tua moglie e tua figlia. Mi dispiace.»
«Grazie.»
«Avrei voluto telefonarti o scriverti, ma…»
«Ho sentito che ti sei sposata.»
Mosse le dita della mano sinistra. «Non lo sono più.»
«E che eri diventata un’agente dell’FBI.»
Abbassò la mano. «Come sopra, non lo sono più.»
Altro silenzio. Non so dire quanto rimanemmo uno di fronte all’altra. La cassiera era passata alla cliente successiva. Alle nostre spalle comparve Zia, che si schiarì la voce e porse di scatto la mano a Rachel. «Salve, io sono Zia Leroux.»
«Rachel Mills.»
«Piacere di conoscerti, Rachel. Io sono una dottoressa socia di Marc.» Ci pensò un po’ su. «Siamo solo amici» aggiunse.
«Zia» le dissi.
«Già, scusa. Ascolta, Rachel, mi piacerebbe fermarmi a chiacchierare, ma devo scappare.» E per dare maggior peso a quell’annuncio indicò con il pollice l’uscita. «Voi continuate pure a parlare. Marc, noi ci rivediamo qui tra poco. Mi ha fatto piacere conoscerti, Rachel.»
«Altrettanto, Zia.»
Lei scomparve di corsa. «È un bravissimo medico» dissi a Rachel.
«Non ne dubito.» Appoggiò le mani sulla sbarra del carrello. «Mi stanno aspettando in macchina. Mi ha fatto piacere rivederti, Marc.»
«Anche a me.» Indubbiamente, visto tutto ciò che ho perso, qualcosa devo pure averlo imparato, non vi sembra? Non potevo lasciarla andare. Mi schiarii la voce. «Forse dovremmo rivederci.»
«Abito ancora a Washington, domani ci ritorno.»
Silenzio. Le interiora mi erano diventate di gelatina e mi mancava un po’ il fiato.
«Addio, Marc.» Ma i suoi occhi nocciola erano umidi.
«Aspetta ancora un momento.»
Avevo cercato di non farla sembrare un’implorazione, ma non credo di esserci riuscito. Rachel mi guardò e capì tutto. «Che cosa vuoi che ti dica, Marc?»
«Che anche tu vuoi che ci rivediamo.»
«Solo questo?»
Scossi il capo. «No, non solo questo, e lo sai.»
«Non ho più vent’anni.»
«Nemmeno io.»
«La ragazza che amavi è scomparsa per sempre.»
«No, è qui davanti a me.»
«Non sai più chi sono.»
«Bene, facciamo nuovamente conoscenza. Non ho fretta.»
«Ti sembra così semplice?»
Provai a sorridere. «Sì.»
«Vivo a Washington, e tu nel New Jersey.»
«Mi trasferirò.»
Ma ancora prima di pronunciare quelle parole impetuose, prima ancora che Rachel facesse quella faccia, mi ero accorto che mi stavo comportando come uno stupido spaccone. Non potevo dire addio ai miei genitori, lasciare il mio lavoro con Zia o… o abbandonare i miei fantasmi. A metà strada tra la mia bocca e le orecchie di lei quel sentimento s’infranse e bruciò.
Rachel si voltò per andarsene, senza salutarmi una seconda volta. La guardai spingere il carrello verso l’uscita, vidi le porte scorrevoli spalancarsi automaticamente con una specie di grugnito elettrico. Vidi scomparire di nuovo Rachel, l’amore della mia vita, senza nemmeno voltarsi per un fugace sguardo. Rimasi immobile, non la seguii. Sentii il mio cuore crollare in pezzi, ma non feci niente per fermarla.
Forse non avevo imparato nulla, a pensarci bene.