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Non c’era via di fuga.

Quanto avrei voluto perdere conoscenza, quanto avrei voluto tornare nello stato comatoso dei miei giorni all’ospedale, quanto avrei voluto quella flebo dalla quale gocciolava l’anestetico. E invece la pelle mi era stata strappata, i terminali nervosi erano scoperti. E sentivo tutto. Tutto.

Mi sentii sopraffatto dalla paura e dal senso d’impotenza. La paura mi aveva chiuso in una stanza mentre il senso d’impotenza, quell’orribile consapevolezza di avere rovinato tutto e non potere quindi fare più nulla per alleviare il dolore della mia bambina, mi aveva avvolto in una camicia di forza spegnendo poi la luce. Avrei potuto perdere la ragione, poco ma sicuro.

I giorni passarono in una caligine mielosa. Trascorrevo in pratica l’intera giornata seduto accanto al telefono, anzi ai telefoni: quello di casa, il mio cellulare e quello dei rapitori. Per quest’ultimo avevo comprato un caricatore, per tenerlo sempre in funzione. Me ne stavo sul divano, con i telefoni alla mia destra. Cercavo di guardare da un’altra parte, di accendere magari il televisore, ricordando il vecchio adagio: “Pentola guardata non bolle mai”. Lanciavo però ogni tanto un’occhiata a quei maledetti telefoni per farli suonare, quasi temessi che da un momento all’altro potessero volare via.

Tentai nuovamente di scavare nel soprannaturale rapporto padre-figlia, quello che aveva cercato di convincermi che Tara era ancora viva. Mi sembrò ancora di sentirne le pulsazioni (o quanto meno mi sforzai di crederlo) anche se molto deboli; il rapporto si era affievolito.

“Non avrai una seconda possibilità…”

Ad aumentare il mio senso di colpa aveva contribuito un sogno fatto la notte prima, del quale era stata protagonista una donna ma non Monica: Rachel, il mio vecchio amore. Uno di quei sogni dalla distorsione spazio-temporale, quelli in cui il mondo è totalmente sconosciuto oltre che contraddittorio, ma che tu accetti come normale. Rachel e io eravamo insieme, non avevamo mai rotto eppure eravamo rimasti separati tutto questo tempo. Io avevo ancora trentaquattro anni, ma per lei non era passato nemmeno un giorno da quando mi aveva lasciato. Nel sogno Tara era ancora mia figlia e non era mai stata rapita, ma in qualche modo era figlia anche di Rachel, nonostante lei non fosse sua madre. Sogni del genere li avrete probabilmente fatti anche voi. Nulla ha davvero senso ma l’autore del sogno non mette in discussione il mondo che lo circonda. Quando mi svegliai, il sogno era svanito, come accade sempre. E a me era rimasto un retrogusto e un folle desiderio che mi attanagliava con imprevedibile forza.

Mia madre bazzicava troppo per casa. Mi aveva appena messo davanti un altro vassoio pieno di roba da mangiare e per la milionesima volta l’avevo ignorato. «Devi recuperare le forze per Tara» era il mantra che ripeteva in continuazione.

«Proprio così, mamma, dipende tutto dalla forza. Probabilmente se facessi sollevamento pesi riporterei a casa la bambina.»

Mamma scosse il capo, rifiutandosi di abboccare. Ero stato crudele a dire queEe parole, anche lei soffriva. La sua nipotina era scomparsa e suo figlio era in condizioni orribili. La udii sospirare, poi tornò in cucina, ma non le chiesi scusa.

Tickner e Regan mi venivano a trovare abbastanza spesso. Mi ricordai quel passo di Shakespeare: “L’urlo e il furore non hanno alcun significato”. Mi parlarono delle meraviglie tecnologiche utilizzate nelle ricerche di Tara, roba relativa al DNA, alle impronte latenti, alle telecamere di sicurezza, agli aeroporti, ai caselli autostradali, alle stazioni ferroviarie, ai traccianti radioattivi, alla sorveglianza e ai laboratori. Mi snocciolarono tutto il repertorio di luoghi comuni del poliziotto dei giornali, del tipo “non trascuriamo alcun indizio” oppure “le indagini a trecentosessanta gradi” e io annuii. Mi fecero vedere anche diverse foto segnaletiche, ma l’esattore con la camicia di flanella a scacchi non compariva sui loro album.

«Abbiamo fatto un controllo sulla B T Electricians» mi disse Regan quella prima sera. «La ditta esiste, usano insegne magnetiche che attaccano sulle fiancate dei loro automezzi. Gliene hanno portata via una due mesi fa, ma avevano deciso che non fosse il caso di fare denuncia.»

«E la targa?» gli chiesi.

«Il numero che ci ha dato non esiste.»

«Com’è possibile?»

«Hanno usato due vecchie targhe» mi spiegò. «Le tagliano a metà, poi saldano la parte sinistra di una con la parte destra dell’altra.»

Rimasi a guardarlo.

«Questa potrebbe essere una cosa positiva» aggiunse lui.

«Come?»

«Significa che abbiamo a che fare con dei professionisti. Sapevano che se lei ci avesse raccontato tutto noi avremmo circondato il centro commerciale, e allora hanno trovato per la consegna del riscatto un posto dove non ci saremmo potuti appostare senza essere visti. Poi ci hanno fatto seguire piste false come l’insegna del furgone o le targhe saldate. Professionisti, come dicevo.»

«E questa sarebbe una cosa positiva…»

«Di solito i professionisti non sono assetati di sangue.»

«E allora che cosa stanno facendo?»

«Secondo noi, dottor Seidman, stanno cercando di ammorbidirla per chiederle altri soldi.»

Ammorbidirmi. Ci stavano riuscendo.

Mio suocero aveva telefonato dopo il fiasco del riscatto e nella sua voce avevo colto la delusione. Non vorrei sembrare ingeneroso, perché era stato Edgar a tirare fuori i soldi e a chiarire che era pronto a tirarne fuori degli altri: ma ebbi l’impressione che all’origine della sua delusione non ci fosse tanto il fallimento dell’operazione, quanto il fatto che non avessi seguito il suo consiglio e avessi avvertito la polizia.

E naturalmente aveva ragione. Avevo mandato tutto a puttane.

Cercai di partecipare alle indagini, ma la polizia era tutt’altro che disposta a incoraggiarmi. Nei film le autorità collaborano con la vittima e la mettono al corrente dei nuovi elementi d’indagine. Io naturalmente feci un sacco di domande a Tickner e Regan e loro nemmeno mi risposero, non entrarono mai con me nei particolari, consideravano le mie domande con una punta di disprezzo. Volevo per esempio sapere di più su come era stato trovato il cadavere di mia moglie, sul perché era nuda. Ma loro facevano ostruzionismo.

Anche Lenny veniva spesso a trovarmi e cercava di non guardarmi negli occhi, anche lui si sentiva in colpa per avermi consigliato di andare alla polizia. Riguardo a Regan e Tickner, il senso di colpa che si leggeva sui loro volti era ambivalente: lo provavano sia perché la faccenda era finita male sia perché pensavano, probabilmente, che dietro quel sequestro anomalo ci fosse fin dall’inizio il marito e il padre in lacrime. I due agenti vollero sapere i particolari sul mio precario ménage matrimoniale, sulla mia pistola scomparsa. Era esattamente come aveva previsto Lenny. Più il tempo passava, più inquadravano nel loro mirino l’unico sospetto a disposizione.

Il sottoscritto.

Dopo una settimana la presenza di polizia e FBI prese a diradarsi. Regan e Tickner vennero a trovarmi con minore frequenza e quando venivano abbassavano spesso lo sguardo sull’orologio, oppure se ne andavano con la scusa di dovere fare qualche telefonata per altre indagini. Li capivo, naturalmente. Non c’erano stati fatti nuovi, le acque si stavano calmando. E una parte di me accettava volentieri quella tregua.

Poi, al nono giorno, tutto cambiò.

Alle dieci di sera cominciai a spogliarmi per andare a letto. Ero solo. Voglio bene agli amici e ai miei familiari, ma loro stessi cominciavano a rendersi conto che avevo bisogno di starmene un po’ per conto mio. Se n’erano andati vìa prima di cena. Avevo ordinato qualcosa per telefono da Hunan Garden e, come da istruzioni materne, avevo mangiato per rimettermi in forze.

Guardai la sveglietta sul comodino e per questo poi seppi con precisione che erano le 10.18. Passando davanti alla finestra lanciai un’occhiata distratta in strada. Nell’oscurità non me ne accorsi quasi, a livello conscio cioè non avevo registrato nulla, ma qualcosa mi si era per così dire “impigliato” nella vista. Mi fermai a guardare con maggiore attenzione.

C’era una donna sul marciapiedi, immobile come una statua, e guardava verso casa mia. Immaginavo stesse guardando, non potevo affermarlo con certezza perché il viso era immerso nell’ombra. Aveva i capelli lunghi, questo riuscii a vederlo, e indossava un soprabito. Teneva le mani infilate nelle tasche.

E se ne stava lì, ferma.

Non sapevo bene che cosa fare. I media avevano parlato di me, naturalmente, e i cronisti venivano a bussare a tutte le ore. Guardai la strada da un’estremità all’altra, ma non vidi auto o furgoni delle stazioni TV, nulla. Era venuta a piedi. Anche questo non doveva sorprendere, perché nel quartiere residenziale dove abito la gente passeggia a tutte le ore, di solito con un cane o un coniuge o entrambi, e non era una notizia clamorosa quella di una donna che passeggiava da sola.

Ma perché si era fermata davanti a casa mia?

Curiosità morbosa, pensai.

Vista dalla mia finestra sembrava alta, ma non ne ero sicuro. E non ero nemmeno sicuro sul da farsi. Provai una sensazione di disagio lungo la schiena. Poi afferrai la felpa e me la infilai sopra la giacca del pigiama, ripetendo l’operazione con i pantaloni della tuta. Guardai di nuovo dalla finestra e la donna s’irrigidì.

Mi aveva visto.

Si voltò e prese ad allontanarsi a passo veloce. Provai un senso di oppressione al petto. Cercai di tirare su il vetro della finestra, che però non si mosse. Detti qualche colpo alle due estremità e riuscii ad aprire uno spiraglio di pochi centimetri, al quale avvicinai la bocca.

«Aspetti!»

Lei accelerò il passo.

«Si fermi un attimo, la prego.»

La donna cominciò a correre. Maledizione. Mi misi all’inseguimento, non sapevo dove avevo lasciato le pantofole e non c’era il tempo per cercare le scarpe. Schizzai fuori, con l’erba che mi solleticava i piedi, cercai di raggiungerla ma non la vidi più.

Rientrato in casa, telefonai a Regan per raccontargli l’accaduto, ma mentre parlavo mi rendevo conto di quanto tutto apparisse stupido. C’era una donna ferma davanti a casa mia. Sai che notizia! Anche Regan mi sembrò tutt’altro che colpito. Mi convinsi allora che non avevo di che preoccuparmi, quella donna era soltanto una vicina impicciona. Tornai a letto, spensi il televisore e finalmente chiusi gli occhi.

Ma la notte non era ancora finita.

Alle quattro del mattino, mentre mi trovavo in quello stato che ora chiamo “sonno”, squillò il telefono. Non mi addormento più profondamente, ci rimango come sospeso sopra con gli occhi chiusi. Le notti si trascinano a fatica come i giorni, separati fra loro da una tendina evanescente. Di notte il corpo riesce a riposare, ma il cervello si rifiuta di spegnere l’insegna e abbassare la saracinesca.

Me ne stavo a occhi chiusi, ricostruendo per l’ennesima volta quella tragica mattina nella speranza di riportare alla luce qualche ricordo sommerso. Cominciai da dove mi trovavo in quel momento, dalla stanza da letto. Ricordo la sveglia che suonava, io e Lenny dovevamo andare a giocare a racquetball quella mattina. Avevamo cominciato a farlo circa un anno prima, il mercoledì, e il nostro stile era passato da “pietoso” a “quasi decente”. Monica era già sveglia e stava facendo la doccia, io dovevo cominciare a lavorare in sala operatoria alle undici. Mi ero alzato ed ero subito andato a guardare Tara nella sua culla, per poi tornare in camera da letto. Monica era uscita dal bagno e si stava infilando i jeans. Sempre in pigiama ero sceso in cucina, avevo aperto lo sportello destro del frigorifero Westinghouse, scelto il biscotto di müsli al lampone preferendolo a quello al mirtillo (di recente avevo riferito a Regan anche questo particolare, come se avesse una qualche rilevanza) e mi ero chinato sul lavandino per sgranocchiarlo…

Bam, fine del ricordo. Più niente fino al risveglio in ospedale.

Il telefono squillò una seconda volta. Aprii gli occhi.

Trovai a tentoni la cornetta e la sollevai. «Pronto?»

«Sono il detective Regan, sono con l’agente Tickner. Saremo da lei tra due minuti.»

Inghiottii a vuoto. «Che cos’è successo?»

«Due minuti.»

E riagganciò.

Scesi dal letto e guardai dalla finestra, come se mi aspettassi di rivedere quella donna. Non c’era nessuno. I miei jeans del giorno prima erano buttati sul pavimento. Li presi e me li infilai. Poi mi misi una felpa, scesi, aprii la porta di casa e guardai fuori. Un’auto della polizia, con Regan al volante e Tickner seduto accanto, svoltò l’angolo. Credo di non averli mai visti arrivare su due auto diverse.

Non portavano buone notizie, lo sapevo.

I due scesero dall’auto e mi sentii sommergere dalla nausea. Mi ero preparato a questa visita fin dal giorno della consegna del riscatto, avevo addirittura immaginato scena per scena ciò che sarebbe accaduto, come loro mi avrebbero dato la mazzata e io avrei annuito, per poi ringraziarli e congedarli. Avevo provato e riprovato la mia reazione. Sapevo esattamente come avrei accolto la notizia.

Ora però, osservando Regan e Tickner avvicinarsi, le mie difese crollarono e venni sopraffatto dal panico. Cominciai a rabbrividire, mi cedettero quasi le ginocchia e dovetti appoggiarmi allo stipite. I due camminavano tenendo lo stesso passo e mi venne in mente un vecchio film di guerra, la scena in cui i due ufficiali si presentano serissimi a casa della madre. Scossi il capo, come se volessi scacciarli dalla mia vista.

Arrivati alla porta, i due entrarono.

«Abbiamo qualcosa da mostrarle» disse Regan.

Mi voltai e li seguii. Regan accese una lampada, che non faceva però molta luce. Tickner andò a sedersi sul divano e accese il suo computer portatile. Lo schermo prese vita, inondando l’agente della luce azzurra del display a cristalli liquidi.

«C’è una novità» spiegò Regan.

Mi avvicinai.

«Suo suocero ci aveva dato un elenco delle banconote del riscatto, ricorda?»

«Sì.»

«Una di queste banconote è stata utilizzata in una banca ieri pomeriggio. L’agente Tickner ora le mostrerà un video.»

«Della banca?»

«Sì. Abbiamo scaricato sul suo computer le immagini riprese dalla telecamera a circuito interno. Dodici ore fa qualcuno ha cambiato in quella banca una banconota da cento dollari. Vogliamo che lei dia un’occhiata a questo video.»

Mi sedetti accanto a Tickner e lui premette un tasto. Il video partì immediatamente. Mi aspettavo immagini di scarsa qualità tecnica, sgranate e in bianco e nero, ma mi sbagliavo. Erano state prese dall’alto e in colori forse troppo accesi. Un uomo calvo stava parlando al cassiere, non c’era sonoro.

«Non lo riconosco» dissi.

«Aspetti.»

L’uomo calvo disse qualcosa al cassiere ed entrambi si fecero una bella risata, poi il cliente si mise in tasca un foglio di carta e fece un gesto di saluto, che il cassiere ricambiò. Fu quindi il turno del cliente successivo. E mi udii gemere.

Era mia sorella, Stacy.

Fui subito invaso da quell’insensibilità che avevo tanto agognato. Non so perché, forse perché stavo provando nello stesso tempo due emozioni radicalmente opposte. Una era di spavento, mia sorella aveva fatto una cosa del genere. Mia sorella, alla quale avevo voluto tanto bene, mi aveva tradito. Ma l’altra emozione era la speranza, ora avevo una speranza. Esisteva una pista. E se era quella di Stacy, non riuscivo a credere che avrebbe potuto fare del male a Tara.

«È sua sorella quella donna?» mi chiese Regan, puntando il dito sullo schermo del computer.

«Sì.» Lo guardai. «Da dove vengono queste immagini?»

«Dai Catskill, da una città che si chiama…»

«Montague» conclusi io.

Tickner e Regan si guardarono. «Come fa a saperlo?»

Ma io stavo già andando alla porta. «So dove trovarla, mia sorella.»

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