Rachel era nel garage. Sollevò lo sguardo su di me. Mi apparve all’improvviso piccola e sul suo viso lessi la paura. Il cofano del bagagliaio era sollevato, e io mi avvicinai allo sportello del guidatore.
«Che cosa voleva?» mi chiese.
«Quello che hai detto tu.»
«Sapeva del CD?»
«Sapeva che eravamo andati all’MVD, però non ha parlato del CD.»
Salii in macchina e lei lasciò cadere l’argomento. Non era il momento di affrontare nuovi problemi, lo sapevamo entrambi. Ma ancora una volta mi trovai a mettere in discussione il mio metro di giudizio. Mia moglie era stata assassinata, mia sorella pure. Qualcuno aveva cercato di uccidermi. Volendo ridurre la questione ai suoi termini essenziali, mi stavo fidando di una donna che in realtà non conoscevo. Le stavo affidando non solo la mia vita, ma anche quella di mia figlia. Una cosa stupida, a pensarci bene. Lenny aveva ragione, non era così semplice. Effettivamente non avevo idea di chi lei fosse o di che cosa fosse diventata. Mi ero fatto delle illusioni trasformandola in qualcuno che lei non avrebbe potuto essere e ora mi chiedevo quanto mi sarebbe costato quell’errore.
La sua voce dissipò d’improvviso l’alone di incertezza che mi avvolgeva. «Marc?»
«Che c’è?»
«Sono sempre convinta che dovresti metterti quel giubbotto antiproiettile.»
«No.»
Ero stato troppo brusco. O forse no. Rachel s’infilò nel bagagliaio e chiuse il cofano dall’interno. Io misi la sacca di tela con i soldi sul sedile accanto a me, poi premetti il pulsante del telecomando della porta, fissato sotto l’aletta parasole, e misi in moto.
Cominciava l’avventura.
Quando Tickner aveva nove anni la madre gli aveva comprato un libro di illusioni ottiche. C’era, per esempio, un disegno che raffigurava un’anziana signora con un gran nasone: ma poi, guardando più attentamente, la vecchia si trasformava in una ragazza con la testa. A Tickner quel libro era piaciuto da matti. Qualche anno dopo era passato agli “Occhi Magici”, restando a fissarli fin quando in quel turbinio di colori appariva il cavallo o quel che c’era. A volte l’operazione richiedeva molto tempo, e veniva da chiedersi se effettivamente sarebbe comparso qualcosa. Poi, all’improvviso, ecco l’immagine.
In quel caso stava succedendo lo stesso.
Ci sono momenti nel corso di un’indagine, lo sapeva bene, in cui tutto risulta alterato come in quelle vecchie illusioni ottiche. Guardi una realtà ed è sufficiente un leggero spostamento perché questa cambi. Nulla è come appare.
Tickner non aveva mai accettato le varie teorie sul caso Seidman, assomigliavano troppo a un libro a cui mancasse qualche pagina.
Non aveva avuto a che fare con molti omicidi, nella sua carriera, perché di solito venivano lasciati alla polizia locale. Ma conosceva moltissimi investigatori che si occupavano di omicidi e i migliori erano sempre quelli un po’ spostati, dal temperamento eccessivamente melodrammatico e dalla fantasia talmente sfrenata da rasentare il ridicolo. Tickner li aveva uditi parlare di un certo momento, durante le indagini, nel quale la vittima “allunga un braccio” dalla tomba. La vittima in qualche modo “parla” e indica con la mano l’assassino. Lui ascoltava quelle assurdità e annuiva educatamente. Gli sembravano delle esercitazioni iperboliche, frasi prive di senso che i poliziotti dicono perché la gente se le beve con avidità.
La stampante continuava a ronzare. Tickner aveva già visto dodici foto.
«Quante ce ne sono ancora?» chiese.
Dorfman fissò lo schermo del computer. «Sei.»
«Come queste?»
«Più o meno. Voglio dire, sempre della stessa persona.»
L’agente speciale abbassò lo sguardo sulle foto. In tutte effettivamente compariva la stessa persona ed erano in bianco e nero, scattate all’insaputa del soggetto e probabilmente da una certa distanza, con il teleobiettivo.
La storia del braccio che spunta dalla tomba non sembrava più tanto stupida. Monica Seidman era morta da diciotto mesi e il suo assassino era in libertà. E adesso che ogni speranza di identificarlo era stata abbandonata sembrava che lei si fosse alzata dalla tomba puntando un dito. Tickner guardò un’altra volta, cercando di capire.
Il soggetto di quelle foto, la persona che Monica Seidman stava indicando era Rachel Mills.
Quando imbocchi in direzione nord il raccordo orientale della New Jersey Turnpike, ti sembra che lo skyline notturno di Manhattan brilli soltanto per te. Come per tutti coloro che la vedono quasi ogni giorno, per me quella era un tempo un’immagine scontata. Ora non più. Dopo l’11 settembre per un po’ mi è sembrato di vedere ancora le Torri. Erano come delle luci intense fissate troppo a lungo, così che, chiudendo gli occhi, rimanevano per qualche tempo fissate nella retina. Ma come le macchie solari anche quelle immagini alla fine svanivano. Ora è diverso. Quando percorro questa strada guardo sempre di proposito, e lo stavo facendo anche quella sera, ma a volte non riesco a ricordare esattamente dove sorgevano le Torri. E questo mi manda in bestia più di quanto riesca a spiegare a parole.
Imboccai, come faccio sempre, la carreggiata inferiore del George Washington Bridge, e a quell’ora non c’era traffico. Al casello oltrepassai il Telepass e riuscii a distrarmi. Alla radio incappai in due stazioni in cui non facevano che parlare. La prima era una di quelle che trasmettono soltanto sport, e un sacco di uomini che si chiamavano tutti Vinny da Bayside telefonavano per lamentarsi della mediocrità degli allenatori e per dire che loro avrebbero saputo fare molto meglio quel lavoro. Nell’altra c’erano due imitatori penosi di Howard Stern, che trovavano particolarmente divertente la scenetta di una matricola di college che telefona alla madre per annunciarle di avere un tumore ai testicoli. Per quanto non fossero divertenti, mi aiutarono a distrarmi un po’.
Rachel era nel bagagliaio, il che, a pensarci bene, era totalmente folle. Presi il cellulare, premetti il tasto di chiamata e udii subito la voce metallica. «Prendi la Henry Hudson in direzione nord.»
Mi portai l’apparecchio alla bocca, come fosse stato un walkie-talkie. «Okay.»
«Avvertimi appena arrivi all’Hudson.»
«D’accordo.»
Mi spostai sulla corsia di sinistra. La zona mi era abbastanza familiare, avevo vinto una borsa di studio per un corso post-laurea al New York Presbyterian, che si trova dieci isolati più a sud. Zia e io avevamo diviso un appartamento con Lester, un cardiologo, in un edificio art déco situato in fondo a Fort Washington Avenue, nella parte più settentrionale di Manhattan. Quando ci abitavo io, quella zona era conosciuta come il punto più a nord di Washington Heights, ma da qualche tempo mi sono accorto che le agenzie immobiliari l’hanno ribattezzata “Hudson Heights” per differenziarla, sia nel nome sia nel valore commerciale, dalle sue umili radici.
«Okay, sono sull’Hudson» dissi.
«Prendi la prossima uscita.»
«Fort Tryon Park?»
«Sì.»
Anche quell’area non mi era nuova. Fort Tryon sembra sospeso come una nuvola sul fiume Hudson, è un dirupo tranquillo e frastagliato, con il New Jersey a ovest e il Riverdale-Bronx a est. Il parco è un miscuglio di panorami diversi: sentieri di pietra ruvida, fauna di un’era ormai passata, terrazze di pietra, recessi di mattoni e cemento, fitta vegetazione, pendii di roccia, erba. D’estate trascorrevo giorni e giorni sui suoi prati verdi, in pantaloncini e maglietta, insieme a Zia e a qualche testo di medicina intonso. Mi piaceva in particolare prima del tramonto, d’estate. Quella luce arancione che inonda il parco ha un che di etereo.
Misi la freccia e imboccai la rampa d’uscita. Non si vedevano altre auto, luci ce n’erano poche. Il parco di sera chiudeva, ma la strada che l’attraversava rimaneva accessibile. La mia auto s’inerpicò sbuffando sulla ripida salita ed entrò in quella che sembrava una specie di fortezza medievale. Il Chiostro, un ex monastero in stile francese ora incorporato dal Metropolitan Museum of Art, è ancora in buone condizioni. Ospita una splendida collezione di manufatti medievali, o almeno così mi dicono. Sarò stato un centinaio di volte in questo parco, senza mai entrarci.
Era una zona adatta, pensai, per la consegna di un riscatto. Uno spazio scuro, silenzioso, pieno di sentieri serpeggianti, di dirupi rocciosi, di profondi crepacci, di fitte macchie, di vialetti asfaltati e sterrati. Ci si poteva perdere, in quel parco. Ci si poteva nascondere per giorni e giorni senza farsi trovare.
«Sei già lì?» mi chiese la voce metallica.
«Sono a Fort Tryon, sì.»
«Parcheggia vicino al bar, esci dall’auto e vai a piedi fino alla rotonda.»
Il viaggio nel bagaglio era rumoroso oltre che scomodissimo. Rachel si era portata una coperta imbottita, ma per il rumore c’era ben poco da fare. Nella borsa aveva una torcia elettrica, ma non aveva bisogno di accenderla: per lei l’oscurità non era mai stata un problema.
La luce poteva distrarre, al buio invece si rifletteva meglio.
Cercava di rilassare i muscoli ogni volta che l’auto passava sopra una gibbosità del terreno; era ancora perplessa sull’atteggiamento di Marc di poco prima. L’agente che era venuto a cercarlo aveva sicuramente detto qualcosa che l’aveva colpito. Su di lei? Forse. Si chiese che cosa potesse avergli detto e come avrebbe dovuto reagire lei.
Ma in quel momento non aveva importanza, stavano andando all’appuntamento e lei doveva concentrarsi su ciò che li attendeva.
Quel ruolo le era familiare e la cosa le provocò una fitta di nostalgia. Le mancava il suo vecchio impiego all’FBI, le piaceva quel lavoro, forse perché non aveva altri interessi al mondo. Non era soltanto una via di fuga, era la sola cosa che le interessasse veramente fare. Certi lavorano tutto il giorno non vedendo l’ora di tornare a casa e vivere la propria vita. Per Rachel era il contrario.
Dopo anni di separazione, ecco qualcosa che lei e Marc avevano in comune: facevano un lavoro che amavano. E le venne da chiedersi se per caso, sia per lui sia per lei, il lavoro non fosse un sostituto dell’amore. Ma forse ora stava davvero esagerando.
Marc aveva ancora il suo lavoro, lei no. Questo la rendeva forse più disperata.
No, invece, perché la bambina di Marc era scomparsa.
Nel buio del bagagliaio si spalmò sul viso una crema nera, per evitare riflessi. L’auto imboccò una salita, lei era pronta con i suoi attrezzi del mestiere.
Pensò a Hugh Reilly, quel figlio di puttana.
La rottura con Marc, e tutto quello che era avvenuto in seguito, era da attribuirsi solamente a Hugh, il suo amico più caro al college. Era quello che voleva, esserle amico, le aveva detto. Senza secondi fini, sapeva che lei aveva un ragazzo. Era stata ingenua, Rachel, o se l’era andata a cercare? Gli uomini che dicono di volerti essere “soltanto amici” sperano in realtà di prendere il posto del tuo ragazzo, quasi che l’amicizia fosse come quel cerchio disegnato sul campo da baseball, accanto alla panchina, dove il battitore si allena prima del proprio turno. Quella sera Hugh le aveva telefonato in Italia animato dalle migliori intenzioni. “Visto che ti sono amico, credo che dovresti saperlo” le aveva detto. Giusto. E poi le aveva raccontato ciò che Marc aveva fatto durante una stupida festa della confraternita.
Sì, basta prendersela con se stessa o con Marc. Hugh Reilly. Come sarebbe stata ora la sua vita, se soltanto quel figlio di puttana si fosse fatto gli affari suoi? Va’ a saperlo. Ma che ne era stato invece della sua di vita? A questa domanda era più facile rispondere. Beveva troppo. Si arrabbiava troppo facilmente. Passava troppo tempo a leggere una guida ai programmi televisivi. Per non parlare poi di quel vero capolavoro: si era impegolata in una relazione autodistruttiva, e ne era uscita nel peggiore dei modi.
L’auto sterzò e riprese a salire, sballottando Rachel sul fondo del bagagliaio, e poco dopo si fermò. Lei sollevò il capo e quelle crudeli riflessioni svanirono d’incanto.
La partita stava per cominciare.
Dalla vecchia torre di guardia del forte, a un’ottantina di metri d’altezza rispetto all’Hudson, Heshy si godeva la splendida vista delle Jersey Palisades che si estendevano dal Tappan Zee Bridge, alla sua destra, al George Washington Bridge, a sinistra. Rimase ad ammirarla per un po’ prima di mettersi al lavoro.
Come in risposta a un segnale convenuto, Seidman imboccò proprio in quel momento l’uscita dell’Henry Hudson Parkway. Nessuno lo seguiva. Heshy tenne gli occhi fissi sulla strada, ma non vide nessun’auto rallentare o accelerare. Nessuno stava cercando di non dare l’impressione di seguire l’auto di Marc.
Si voltò di scatto e perse per un attimo di vista l’auto. Quando tornò a guardarla, Seidman era al volante e non si vedeva nessun altro. Questo non significava granché, qualcuno poteva starsene accoccolato tra i sedili, ma l’inizio sembrava comunque buono.
Seidman parcheggiò, spense il motore e aprì lo sportello. Heshy accostò il microfono alla bocca.
«Pronto, Pavel?»
«Sì.»
«È solo» disse, questa volta a beneficio di Lydia. «Comincia pure.»
«Parcheggia vicino al bar, esci e vai a piedi fino alla rotonda.»
La rotonda, ricordavo, era quella intitolata a Margaret Corbin. Appena arrivato la prima cosa che notai, anche al buio, furono i colori vivaci del campo giochi per bambini all’incrocio tra Fort Washington Avenue e la Centonovantesima Strada. Mi era sempre piaciuto, quel campo giochi, ma ora non sopportavo il suo giallo e blu accesi. Pensai a me stesso nelle vesti di ragazzo di città. Quando abitavo nelle vicinanze, immaginavo di vivere in questo quartiere, anche perché mi sentivo troppo raffinato per le periferie residenziali di soli bianchi, e naturalmente ciò significava che avrei portato i miei bambini proprio in quel parco. Lo considerai un presagio, ma chissà di che cosa.
«Alla tua sinistra c’è una stazione della metropolitana» gracchiò la voce al telefono.
«Okay.»
«Scendi le scale e vai all’ascensore.»
Avrei dovuto aspettarmelo. Mi stava mandando nell’ascensore per andare a prendere il treno della linea A. Per Rachel seguirmi sarebbe stato difficile, se non impossibile.
«Sei per le scale?»
«Sì.»
«In fondo a destra troverai un cancello.»
Lo conoscevo, sapevo che portava a un altro parco, più piccolo, che era aperto solo per il fine settimana. Veniva usato soprattutto per i picnic e c’erano dei tavoli da ping-pong, ma se si voleva giocare bisognava portarsi da casa racchetta, palline e retina. C’erano panche e aree attrezzate con tavolini, e i ragazzi se ne servivano per le loro festicciole di compleanno.
Il cancello, ricordavo, era sempre sprangato.
«Sono arrivato» dissi.
«Accertati che nessuno ti veda, poi spingi il cancello, entra e richiuditelo subito alle spalle.»
Sbirciai oltre il cancello: il parco era nero e la luce dei lampioni lontani diffondeva un debole chiarore. La sacca con i soldi pesava e me la sistemai sulla spalla. Mi voltai a guardare. Nessuno. Girai lo sguardo a sinistra, gli ascensori della metropolitana erano immobili. Misi la mano sul cancello, il lucchetto era stato tranciato. Diedi un’occhiata attorno velocemente, come mi aveva detto di fare la voce metallica.
Non c’era traccia di Rachel.
Il cancello scricchiolò quando lo aprii, e l’eco sembrò squarciare il silenzio della notte. Scivolai dall’altra parte, e fui inghiottito dall’oscurità.
Rachel sentì l’auto dondolare quando Marc scese.
Aspettò solo un minuto, ma le sembrò che fossero passate due ore. Quando decise che era il momento di azzardare, sollevò il cofano di qualche centimetro e sbirciò fuori.
Non vide nessuno.
Si era portata una pistola, una Glock.22 calibro 40 semiautomatica, l’arma di ordinanza dei federali, oltre agli occhiali per la visione notturna, i Rigel 3501 Gen. 2+. In tasca aveva il palmare m grado di leggere i segnali del Q-Logger.
Non temeva di essere vista, ciò nonostante sollevò il cofano il minimo necessario per rotolare fuori, e rimase immobile a terra per qualche istante. Allungò una mano dentro il bagagliaio e prese pistola e occhiali, poi richiuse silenziosamente il cofano.
Le operazioni sul campo le erano sempre piaciute, o quanto meno l’addestramento per tali operazioni. Aveva partecipato a poche missioni come quelle che si vedono nei film d’azione, perché di solito gli appostamenti venivano effettuati con strumentazioni sofisticate, a bordo di furgoni trasformati in cabine di regia, o con aerei spia e fibre ottiche. Difficilmente ci si ritrovava a strisciare di notte in tuta nera e con il viso ricoperto di nerofumo.
Si accucciò contro la ruota posteriore e vide in lontananza Marc che risaliva il sentiero. Infilò la pistola nella fondina e agganciò i visori notturni alla cintura. Poi, tenendosi chinata, cercò di individuare una posizione più elevata. C’era ancora luce a sufficienza e non aveva bisogno degli occhiali.
Una falce di luna apparve nel cielo, non c’erano stelle. Marc, più avanti, aveva portato il cellulare all’orecchio e teneva la sacca di tela sulla spalla. Rachel si guardò attorno, ma non vide nessuno: sarebbe avvenuta qui la consegna del riscatto? Il posto non era male, se ci si era preparata una via di fuga. Cominciò a valutare le varie possibilità.
Fort Tryon si trovava in alto rispetto alla strada, il trucco era quindi di trovarsi un posto d’osservazione ancora più in alto. Lei cominciò a salire e stava ancora cercando il punto adatto quando Marc uscì dal parco.
Maledizione. Doveva mettersi di nuovo in movimento.
Ridiscese strisciando come una testa di cuoio; l’erba pungeva e sapeva di fieno, a causa delle scarse piogge, pensò. Cercò di non perdere di vista Marc, ma non lo vide più quando lui a un certo punto svoltò. Allora decise di rischiare e di muoversi più in fretta; poi, arrivata al cancello, si nascose dietro uno dei due pilastri.
Marc era lì, ma non vi rimase per molto. Con il cellulare di nuovo accostato all’orecchio, girò a sinistra e scomparve lungo le scale che portavano alla linea A.
Più su rispetto a lei, Rachel vide un uomo e una donna con un cane. Magari facevano parte della banda o forse erano solo una coppia che portava a spasso il cane. Di Marc sempre nessuna traccia, ma a quel punto non c’era più tempo per chiedersi cosa fare. Rachel si chinò nascondendosi dietro un muretto e poi, tenendo le spalle contro la parete, si diresse alle scale.
Edgar Portman assomigliava a un personaggio di Noel Coward, secondo Tickner. Indossava un pigiama di seta e sopra una vestaglia rossa allacciata con cura in vita, ai piedi aveva babbucce di velluto. Il frateho Carson, al contrario, aveva il pigiama mezzo aperto, i capelli scompigliati e gli occhi rossi.
Sembrava che i due Portman non riuscissero a staccare gli occhi dalle foto scaricate dal CD.
«Edgar, non traiamo conclusioni affrettate» disse Carson.
«Non traiamo?…» Edgar si rivolse a Tickner. «Gli ho dato i soldi.»
«Sì, signore, lo sappiamo» disse Tickner. «Un anno e mezzo fa.»
«No.» Edgar cercò di mettere una nota di impazienza in quel “no”, ma non ne aveva la forza. «Di recente, intendevo dire. Oggi, per la precisione.»
Tickner si rizzò sulla sedia. «Quanto?»
«Due milioni di dollari. Ci è arrivata un’altra richiesta di riscatto.»
«E perché non vi siete messi in contatto con noi?»
«Ma certamente.» Edgar emise un suono a metà tra una risatina e un ghigno. «Visto l’ottimo lavoro che avete fatto l’altra volta.»
Tickner sentì il sangue pulsargli nelle vene. «Mi sta dicendo che ha dato a suo genero altri due milioni di dollari?»
«È precisamente quello che sto dicendo.»
Carson Portman stava ancora guardando le foto. Edgar gli lanciò uno sguardo, per poi riportare l’attenzione su Tickner. «È stato Marc Seidman a uccidere mia figlia?»
Carson si alzò in piedi. «Lo sai benissimo che non è stato lui.»
«Non lo sto chiedendo a te, Carson.»
Guardarono entrambi Tickner, che sembrava che non li avesse nemmeno sentiti. «Ha detto che si è visto oggi con suo genero?»
Se Edgar era infastidito perché l’uomo aveva ignorato la sua domanda, non lo diede a vedere. «Questa mattina presto» rispose. «Al Memorial Park.»
Tickner indicò le foto. «E c’era anche questa donna con lui?»
«No.»
«L’avevate mai vista?»
Carson ed Edgar risposero di nuovo no. Edgar prese una foto. «Mia figlia aveva assunto un investigatore privato?»
«Sì.»
«Non capisco. Chi è questa donna?»
Di nuovo l’agente ignorò la domanda. «Il biglietto con la richiesta di riscatto l’avete ricevuto come l’altra volta?»
«Sì.»
«Non riesco a capire. Come facevate a sapere che non si trattava di una truffa? Chi vi diceva che a mandarvi quel biglietto erano stati i veri rapitori?»
Fu Carson a rispondere. «Credevamo che fosse una truffa, sulle prime.»
«E che cosa vi ha convinti del contrario?»
«Hanno mandato degli altri capelli.» Carson gli parlò in breve delle analisi e della richiesta di altri esami fatta dal dottor Seidman.
«Gli avete dato tutti i campioni di capelli, allora?»
«Sì» rispose Carson.
Edgar sembrava di nuovo concentrato sulle foto. «Seidman aveva una storia con questa donna?» chiese furibondo.
«Non saprei risponderle.»
«Per quale motivo, altrimenti, mia figlia avrebbe fatto scattare queste foto?»
Squillò un cellulare. Tickner si scusò e rispose.
«Bingo!» disse O’Malley.
«Che c’è?»
«Dobbiamo ringraziare il Telepass di Seidman. Il nostro amico è passato cinque minuti fa al casello del George Washington Bridge.»
«Scendi fino a quel sentiero» disse la voce metallica.
C’era ancora abbastanza luce per vedere i primi gradini. Li discesi e poi le tenebre mi avvolsero, costringendomi a portare avanti lentamente il piede a ogni gradino come un cieco che muove il bastone avanti a sé. Non mi piaceva come si stavano mettendo le cose, non mi piaceva assolutamente. Mi chiesi che fine avesse fatto Rachel. Era nelle vicinanze? Feci del mio meglio per seguire il sentiero, che curvava a sinistra, e inciampai nei lastroni.
«Okay» disse la voce. «Stop.»
Mi fermai. Davanti a me non vedevo un accidenti, alle mie spalle il debole chiarore della strada stava definitivamente scomparendo. Sulla destra c’era un ripido pendio. L’aria era quella caratteristica dei parchi cittadini, un misto di fresco e di stantio. Drizzai le orecchie nella speranza di udire qualche suono familiare, ma mi giunse soltanto il lontano fruscio cadenzato del traffico.
«Posa i soldi a terra.»
«No, voglio vedere mia figlia.»
«Metti giù i soldi.»
«Avevamo fatto un patto: io vi faccio vedere i soldi e voi mi fate vedere mia figlia.»
Non ebbi risposta. Sentivo il sangue ronzarmi nelle orecchie e la paura stava per sopraffarmi. No, non mi piaceva come si erano messe le cose, ero troppo esposto. Lanciai uno sguardo al sentiero alle mie spalle, avrei potuto mettermi a correre urlando come un pazzo. Gli abitanti di questa zona sono più solidali che nel resto di Manhattan, qualcuno avrebbe potuto chiamare la polizia o venire in mio aiuto.
«Dottor Seidman?»
«Sì?»
Poi il raggio di una torcia elettrica mi colpì in viso. Battei le palpebre, sollevando una mano per proteggermi gli occhi, quindi li socchiusi tentando di vedere chi c’era dietro la torcia. Qualcuno abbassò il raggio e i miei occhi finalmente si adattarono alla nuova luce, ma non ce n’era bisogno. Il raggio fu interrotto da una sagoma umana e vidi subito, senza possibilità d’errore, chi si era interposto tra me e la torcia.
Era un uomo e mi parve di notare anche la sua camicia a scacchi, ma non ne ero certo. Era solo una sagoma, come dicevo, e non riuscii a distinguere lineamenti, colori o disegni. Quindi la camicia a scacchi potrei essermela immaginata. Ma non il resto, forme e contorni erano fin troppo netti.
Aggrappato alla gamba dell’uomo, subito sopra il ginocchio, c’era un bambino. O forse una bambina.