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A Lydia piaceva guardare le vecchie foto.

Non sapeva perché, ma non le davano un gran conforto. Provava sempre una forte nostalgia. Heshy non pensava mai al passato, Lydia invece sì e per motivi che nemmeno lei riusciva a razionalizzare.

Quella foto in particolare era stata scattata quando lei aveva otto anni, una foto in bianco e nero con un’immagine di quella sit-com famosa, Family Laughs. La trasmissione era andata avanti sette anni, cioè da quando Lydia aveva sei anni fino ai tredici. La star era un ex sex symbol del cinema, Clive Wilkins, nella parte del vedovo padre di tre meravigliosi figli: Tod e Rod, i gemelli che avevano undici anni all’inizio della serie, e quell’adorabile frugoletto della loro sorellina che si chiamava Trixie, impersonata dall’irrefrenabile Larissa Dane. Era stato un enorme successo, tanto che alcuni episodi vengono ancora riproposti da Tivulandia.

Di tanto in tanto la trasmissione E! True Hollywood Story realizza un servizio sul vecchio cast di Family Laughs. Clive Wilkins era morto di tumore al pancreas due anni dopo la fine della serie. La voce fuori campo sottolineava come Clive sul set “fosse stato proprio come un padre”, ma Lydia sapeva bene che le cose non stavano proprio così. Beveva e puzzava di tabacco, Clive, e quando lei doveva abbracciarlo ricorreva a tutte le sue risorse di giovanissima attrice per non vomitare dall’odore.

Jarad e Stan Frank, i due gemelli che impersonavano Tod e Rod, dopo la fine della serie avevano tentato la carriera musicale. In Family Laughs avevano un’orchestrina alla buona molto popolare tra i giovanissimi, con un repertorio di canzoni scritte da altri, con gli strumenti suonati da altri e con delle voci così modificate e modulate dal sintetizzatore che perfino Jarad e Stan, che non riuscivano ad azzeccare una nota nemmeno se se la fossero fatta tatuare sul palmo della mano, cominciarono a considerarsi autentici musicisti e cantanti. Ora i gemelli andavano per i quaranta, stavano diventando visibilmente calvi e si illudevano di riprendere da un momento all’altro lo status di star, anche se in pubblico sostenevano di “non sopportare più la fama”.

Ma il vero e misterioso enigma della saga di Family Laughs era rappresentato dal destino dell’adorabile “folletto birichino Trixie”, Larissa Dane. Di lei si sa quanto segue: durante l’ultimo anno della serie i genitori divorziarono e si dettero battaglia senza esclusione di colpi per assicurarsi i cachet della piccola. Il padre alla fine si fece saltare le cervella. La madre si risposò con un truffatore che sparì con i soldi. Come molti attori-bambini, Larissa Dane si trasformò immediatamente in una ex. Cominciarono a girare voci sulla sua promiscuità e la passione per le droghe, anche se sembrò che a nessuno interessasse particolarmente: e questo succedeva prima che la nostalgia diventasse di moda. A quindici anni si fece un’overdose e rischiò di lasciarci le penne. La mandarono in una specie di sanatorio e apparentemente scomparve dalla faccia della terra. Nessuno sa veramente che fine abbia fatto, molti ritengono che sia morta per droga.

Ma naturalmente le cose non erano andate così.

«Sei pronta per quella telefonata, Lydia?» le chiese Heshy.

Lei non rispose, ma si avvicinò a un’altra foto. Un’altra istantanea da Family Laughs, quinto anno, episodio centododici. La piccola Trixie aveva un braccio ingessato e Tod voleva disegnarle sul gesso una chitarra, ma il padre non era d’accordo. “Ma papà, ti prometto di disegnarla soltanto quella chitarra, non di suonarla” aveva protestato Tod. E il finto pubblico era scoppiato a ridere. La giovane Larissa non aveva capito la battuta, e nemmeno l’ormai cresciuta Lydia. Ricordava però come aveva fatto quel giorno a rompersi il braccio. Una faccenda tipica dei ragazzini. Giocando si era scatenata ed era caduta dalle scale. Aveva un gran male, ma la serie non poteva interrompersi. Il medico lo sapeva e le fece un’iniezione di sa-Dio-che-cosa, e due sedicenti sceneggiatori inserirono la frattura nel copione. Quando cominciarono le riprese, lei era a malapena cosciente. Ma ora non partite con i violini, per favore. Lydia aveva letto il libro di Danny Partridge, aveva ascoltato i piagnistei di Willis in Diff’rent Strokes. Sapeva tutto sull’impegno dell’attrice bambina, sulle violenze cui era sottoposta, sui soldi rubati, sulle lunghe ore passate sul set. Aveva assistito a tutti i talk show, ascoltato tutte le lagnanze, notato tutte le lacrime di coccodrillo dei suoi colleghi: e la loro disonestà l’aveva fatta star male.

Era quella la verità sul dilemma della star bambina. No, non gli abusi sessuali anche se, quando Lydia era sufficientemente giovane e scema per credere che uno strizzacervelli potesse aiutarla, questo analista aveva continuato a ripeterle che lei stava di sicuro “bloccando” il ricordo delle molestie subite con molta probabilità da uno dei produttori dello show. E non bisogna nemmeno prendersela con il disinteresse dei genitori o, al contrario, con la loro ricerca smaniosa del successo della loro creatura se poi le star bambine crescono in un certo modo. La causa non va nemmeno imputata alla mancanza di amici, alle lunghe ore di lavoro, alle scarse doti di socializzazione, alla fiumana di assistenti di studio. No, a nulla di tutto questo.

La causa è, più semplicemente, l’assenza dei riflettori. Punto e basta.

Tutte le altre sono scuse, perché nessuno è disposto ad ammettere di essere tanto vuoto dentro. Lydia aveva cominciato a lavorare in quello show a sei anni e ha pochi ricordi precedenti a quell’età. Così ricorda solo di essere una star. Una star è speciale. Una star fa parte della famiglia reale. Una star è ciò che sulla terra si avvicina maggiormente a un dio. E per Lydia non era mai esistito null’altro. Noi diciamo ai nostri bambini quanto sono speciali, Lydia questa sua specialità l’aveva vissuta. Tutti la definivano adorabile, rappresentava la figlia perfetta, gentile, affettuosa e impertinente al punto giusto. La gente la fissava con sguardi di bizzarro desiderio, voleva esserle vicina, sentirla parlare della sua vita, passare un po’ di tempo con lei, toccarle l’orlo del cappottino.

Poi, un giorno, puff… tutto era scomparso.

La celebrità provoca più assuefazione del crack. Gli adulti non più famosi, quelli per esempio che la fama l’hanno raggiunta all’improvviso grazie a un unico exploit, di solito vivono nella depressione anche se ostentano superiorità. Non vogliono ammettere la verità. La loro vita è tutta una bugia, una scalata disperata alla ricerca di un’altra dose di quel potentissimo stupefacente che è il successo.

Questi adulti hanno avuto il tempo di mandare giù solo un sorso del nettare, prima che glielo strappassero di mano. Ma per una star bambina quel nettare è come il latte materno, è tutto ciò che ha conosciuto. Non riesce a rendersi conto che si tratta di qualcosa di passeggero, che non durerà. Non puoi spiegarla a un bambino una cosa del genere, non puoi prepararlo all’inevitabile. Lydia aveva conosciuto soltanto l’adulazione. Poi, in pratica da un momento all’altro, il riflettore si era spento e lei per la prima volta nella sua vita era rimasta sola e al buio.

È questo che ti fotte.

Lydia ora se ne rendeva conto. Heshy l’aveva aiutata, l’aveva fatta uscire per sempre dal tunnel della droga. Lei si era fatta del male, si era prostituita, aveva sniffato o si era sparata in vena più stupefacenti di quanto si possa immaginare. Ma non l’aveva mai fatto per evadere, bensì per menare colpi alla cieca, per fare del male a qualcuno o a qualcosa. Ma il suo errore era stato quello di fare del male a se stessa, come si era resa conto durante la fase di riabilitazione seguita a un incidente particolarmente violento e terrificante. La fama ti innalza verso il cielo e rimpicciolisce tutti gli altri. Perché mai allora stava facendo del male a quella che si trovava in cima? Perché non prendersela invece con le meschine masse, con coloro che l’avevano idolatrata, che le avevano dato un tale inebriante potere, che l’avevano eccitata? Perché fare del male alla specie superiore, a quella che si era meritata tutte quelle lodi?

«Lydia?»

«Sì?»

«Credo che ora dovremmo fare quella telefonata.»

Si voltò a guardare Heshy. Si erano conosciuti in clinica psichiatrica e fu subito come se le sofferenze dell’uno cercassero disperatamente di integrarsi in quelle dell’altra. Heshy era andato in suo soccorso quando due inservienti l’avevano inchiodata a terra per abusare di lei, e quella volta si era limitato a toglierglieli di dosso. I due li avevano minacciati e loro avevano promesso di tenere la bocca chiusa. Ma Heshy sapeva attendere il momento opportuno. Due settimane dopo investì con un’auto rubata uno dei due addetti e, mentre quello gemeva ferito, aveva fatto marcia indietro passandogli con una ruota sulla testa: si era accostato alla base del collo, premendo poi sull’acceleratore. Un mese dopo l’altro tipo, il capo, fu ritrovato in casa morto. Qualcuno gli aveva portato via quattro dita ma senza tagliargliele bensì, come avrebbe accertato il medico legale, girandogliele fino a quando tendini e ossa non avevano ceduto. Lydia aveva ancora una delle dita da qualche parte in cantina.

Dieci anni prima erano fuggiti insieme, cambiando generalità e modificando quanto bastava il loro aspetto. E si erano rifatti una vita trasformandosi in angeli vendicatori, angeli che avevano avuto qualche “problema” ma rimanevano comunque superiori rispetto alla plebaglia. Lei non faceva più del male a nessuno: o, quanto meno, quando lo faceva, poi se ne stava tranquilla per un po’.

Avevano tre case. Heshy, a quel che si diceva, abitava nel Bronx e lei a Queens. Avevano due indirizzi dei rispettivi posti di lavoro con relativo telefono. Ma era soltanto per scena. Non volevano che si sapesse chi erano in realtà, cioè una squadra, oltre che amanti. Lydia, sotto falso nome, quattro anni prima aveva comprato quella villetta color giallo brillante, con due stanze da letto e un bagno. La cucina, dove sedeva in quel momento Heshy, era luminosa e allegra. La casa si trovava nell’estremità nord della contea di Morris, nel New Jersey. C’era tanta pace, in quella zona, e a loro piacevano i tramonti. Lydia continuò a guardare le foto di “Trixie folletto birichino”, cercando di ricordare le sensazioni di allora. Ma i ricordi erano in pratica scomparsi. Heshy si trovava alle sue spalle, in piedi, e attendeva con la sua solita pazienza. C’era chi sosteneva che lei ed Heshy fossero due assassini spietati, ma secondo lei non era vero, si trattava di un’altra leggenda di Hollywood come quella della meravigliosa “Trixie folletto birichino”. Nessuno si dedica a quest’attività solo perché è lucrosa, ci sono modi meno complicati per guadagnarsi da vivere. Puoi comportarti da professionista. Puoi controllare le tue emozioni. Puoi anche illuderti che quello sia un giorno di lavoro come un altro. Ma se valuti con onestà la tua posizione devi ammettere che hai superato il limite, e sei passato dalla parte sbagliata perché ti piace. Lydia questo lo capiva. Far male a qualcuno, uccidere qualcuno, spegnere la luce negli occhi di qualcuno… no, non ne aveva bisogno. Non smaniava per farlo, come invece aveva smaniato per stare sotto i riflettori. Ma, indubbiamente, ti dava quella scossa piacevole, quell’inequivocabile emozione, e soffrivi di meno.

«Lydia?»

«Arrivo, orsacchiotto.» Prese il cellulare con il numero rubato e il programma anti-intercettazioni, poi si voltò a guardare Heshy. Era ripugnante, ma non per lei. Lui annuì e Lydia inserì il distorsore della voce, poi compose il numero.

«Vogliamo riprovarci?» chiese, appena udì la voce di Marc Seidman.

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