«Stiamo facendo tutto il possibile» disse Regan con una voce che sembrava troppo impostata, come se avesse provato quella frase accanto al mio letto mentre io ero ancora senza conoscenza. «Come dicevo, all’inizio non eravamo nemmeno certi che la bambina fosse scomparsa e abbiamo perso del tempo prezioso, ma poi l’abbiamo recuperato. La foto di Tara è stata trasmessa a ogni comando di polizia, aeroporto, casello autostradale, stazione ferroviaria o di autobus, in un raggio di centocinquanta chilometri. Abbiamo esaminato i casi di sequestri precedenti, alla ricerca di un modus operandi, di un sospetto.»
«Dodici giorni» ripetei.
«Abbiamo messo sotto controllo tutti i suoi telefoni, quello di casa, quello dell’ufficio, il cellulare…»
«Perché?»
«Nel caso arrivasse una richiesta di riscatto.»
«Ne sono arrivate?»
«No, non ancora.»
La testa mi ricadde sul cuscino. Dodici giorni. Ero rimasto in quel letto dodici giorni, mentre la mia bambina… allontanai quel pensiero.
Regan si grattò la barba. «Ricorda che cosa indossava Tara quella mattina?»
Lo ricordavo. Avevo instaurato una specie di routine mattutina che vedeva il sottoscritto svegliarsi presto, avvicinarsi in punta di piedi alla culla di Tara e guardarvi dentro. Un bambino molto piccolo non dà soltanto gioia, lo so. So che ci sono momenti di noia mortale che offuscano il cervello. So che certe notti il pianto della creatura ha sui nervi lo stesso effetto di una grattugia. Non voglio perciò colorare di rosa la vita con un neonato. Ma quella routine mattutina mi piaceva, in qualche modo guardare il corpicino di Tara mi dava nuovo vigore. E a parte ciò, quel rituale mi procurava una specie di estasi. Alcuni la raggiungono dentro un tempio, io invece la trovavo in quella culla: sì, lo so che come concetto è decisamente sdolcinato, ma non me ne frega niente.
«Una tutina rosa con dei pinguini neri» risposi. «L’aveva comprata Monica da Baby Gap.»
Prese un appunto. «E Monica?»
«E Monica che cosa?»
Il suo viso era di nuovo assorbito dal taccuino. «Che cosa indossava?»
«Dei jeans.» La rivedevo mentre se li metteva. «E una camicetta rossa.»
Regan prese altri appunti.
«Ci sono… voglio dire, avete qualche pista?» gli domandai.
«Stiamo ancora vagliando tutte le possibilità.»
«Non è questo che vi ho chiesto.»
Regan si limitò a guardarmi. Uno sguardo troppo pesante da sostenere.
Mia figlia. Là fuori. Sola. Per dodici giorni. Pensai ai suoi occhi, a quella luce calda che solo un genitore può vedere, e dissi una cosa stupida: «È viva».
Regan piegò il capo come un cucciolo che sente un suono nuovo.
«Non vi arrendete» dissi.
«Non ci arrenderemo.» Quel suo sguardo strano non mi abbandonava.
«È che… Lei ha figli, detective Regan?»
«Due ragazze.»
«È stupido, ma lo sentirei se fosse morta.» Così come avevo sentito che il mondo non sarebbe stato più lo stesso, dopo la nascita di Tara. «Lo sentirei» ripetei.
Lui non commentò. Mi rendevo conto che ciò che stavo dicendo era ridicolo, considerando oltretutto il mio abituale scetticismo nei confronti delle percezioni extrasensoriali, il soprannaturale o i miracoli. Sapevo che questa “sensazione” era solo frutto del desiderio. Hai un tale bisogno di credere, che il tuo cervello rielabora ciò che vede. Ma io mi ci aggrappavo ugualmente, giusto o sbagliato che fosse, per me era come la cima che viene gettata a uno che è caduto in mare.
«Dovremo chiederle altre informazioni» stava dicendo Regan. «Informazioni su di lei, sua moglie, gli amici, la vostra situazione finanziaria…»
«Più tardi» intervenne di nuovo la dottoressa Heller. Si fece avanti come per strapparmi allo sguardo del poliziotto. «Ora ha bisogno di riposare» disse con voce ferma.
«No, ora» replicai in tono fermo «dobbiamo trovare mia figlia.»
Monica era stata sepolta nel cimitero di famiglia dei Portman, all’interno della tenuta paterna. Me l’ero perso, naturalmente, il suo funerale. Non saprei dire come ho reagito a questo fatto ma, ancora una volta, i miei sentimenti nei confronti di mia moglie erano piuttosto confusi nei difficili momenti in cui riuscivo a essere onesto con me stesso. Monica aveva la bellezza caratteristica delle ragazze privilegiate, con quei suoi zigomi cesellati, i capelli neri lisci come seta e la mascella volitiva da “country club” che irritava ed eccitava al tempo stesso. Il nostro era stato un matrimonio all’antica, cioè sotto la minaccia di una doppietta. D’accordo, sto esagerando. Monica era incinta e io, da indeciso che ero prima dell’annuncio dell’imminente paternità, avevo accolto di buon grado l’idea del matrimonio.
I particolari del funerale me li diede Carson Portman, zio paterno di Monica e unico parente che avesse continuato a mantenere i contatti con noi. Monica gli aveva voluto molto bene. Carson se ne stava seduto accanto al mio letto con le mani strette in grembo. Assomigliava in tutto al mio professore preferito dei tempi del liceo, con quei suoi occhiali dalle lenti spesse, la giacca di tweed consumata sui gomiti e i capelli a metà strada tra Albert Einstein e Don King. Ma gli occhi castani gli brillavano mentre mi spiegava con la sua voce da baritono che Edgar, il padre di Monica, aveva fatto in modo che il funerale di mia moglie fosse “intimo e di buon gusto.”
Non ne dubitavo, in particolare riguardo all’“intimo”.
Nei giorni seguenti venne a trovarmi un certo numero di persone. Mia madre, Honey, come la chiamavano tutti, si materializzava ogni mattina nella mia stanza come spinta da un potente carburante. Ai piedi portava scarpe da ginnastica Reebok candide. La tuta era blu con una striscia dorata, come quella dell’allenatore dei St Louis Rams. I capelli, anche se freschi di parrucchiere, avevano cambiato colore troppe volte e addosso le si sentiva sempre la puzza dell’ultima sigaretta. Il trucco non riusciva a nascondere il tormento per la perdita dell’unica nipotina. Dimostrando una sorprendente energia, se ne stava accanto al mio letto, un giorno dopo l’altro, riuscendo a mettere in circolo una costante corrente d’isterismo. Meglio così. Era come se fosse isterica anche per me e in questo modo, stranamente, i suoi sbalzi d’umore mi tenevano calmo.
Nonostante il caldo torrido che regnava nella stanza, e nonostante le mie contìnue proteste, mamma, mentre dormivo, mi metteva addosso un’altra coperta. Una volta, svegliandomi fradicio, naturalmente di sudore, udii mia madre raccontare all’infermiera nera con il cappellino bianco di quella volta che a soli sette anni ero stato ricoverato al St Elizabeth.
«Aveva la salmonella» le confidò Honey, con quel suo tono cospiratorio di qualche decibel più alto di quello di un corno da caccia. «Mai sentito una puzza di diarrea come quella, gli usciva da tutti i pori. Il tanfo aveva praticamente intriso la carta da parati.»
«Nemmeno adesso è rose e fiori» la informò l’infermiera.
Le due donne si fecero una bella risata.
Il secondo giorno dopo aver ripreso conoscenza mi svegliai trovando mamma accanto al letto.
«Te lo ricordi questo?» mi chiese.
Teneva in mano un pupazzo imbottito, Oscar il Brontolone, che qualcuno mi aveva regalato ai tempi della salmonella. Il verde era scolorito in un menta pallido. Lei guardò l’infermiera. «Questo è l’Oscar di Marc» le spiegò.
«Mamma…»
Riportò la sua attenzione su di me. La riga intorno agli occhi era un po’ troppo carica, quel giorno, al punto da incresparsi lungo le rughe. «Oscar ti ha tenuto compagnia quella volta, ricordi? Ti ha aiutato a stare meglio.»
Mi girai sul fianco e chiusi gli occhi. Un ricordo mi si affacciò alla memoria. Avevo preso la salmonella dalle uova crude che mio padre mi aggiungeva nel frullato per il loro contenuto proteico. Ricordo il terrore allo stato puro che mi aveva attanagliato quando mi dissero che avrei passato la notte in ospedale. Mio padre, che si era da poco rotto il tendine di Achille giocando a tennis, era ingessato e soffriva come un cane. Ma si accorse della mia paura e, come sempre, fu lui a sacrificarsi. Lavorava tutto il giorno in fabbrica e passava la notte in poltrona accanto al mio letto d’ospedale. Rimasi dieci giorni al St Elizabeth e lui dormì dieci notti su quella poltrona.
All’improvviso mamma mi diede le spalle e capii che stava ricordando la stessa cosa. L’infermiera si congedò in fretta. Posai una mano sulla schiena di mia madre, lei non si mosse ma la sentii rabbrividire. Abbassò lo sguardo sul pupazzo stinto che teneva in mano e io lentamente glielo tolsi.
«Grazie» dissi.
Lei si asciugò gli occhi. Papà, lo sapevo bene, questa volta non sarebbe venuto in ospedale e, anche se sono certo che mamma gli ha raccontato quello che mi è successo, non ho modo di sapere se lui abbia capito qualcosa. Mio padre ha avuto il primo ictus all’età di quarantun anni, l’anno dopo il mio ricovero per la salmonella. Io allora ne avevo otto.
Ho anche una sorella minore, Stacy, che “fa uso di sostanze stupefacenti” (secondo la versione politically correct) o “è strafatta di crack” (se vogliamo essere più precisi). A volte mi capita di guardare quelle vecchie foto di papà prima dell’ictus, quelle nelle quali si vede la nostra giovane e fiduciosa famigliola costituita da padre, madre e due figli, con il cane a pelo lungo, il praticello ben curato, il canestro da basket, il barbecue stracarico di carbone troppo intriso di liquido infiammabile. Cerco qualche segnale del futuro di mia sorella nel suo sorriso sdentato, magari qualche aspetto in ombra della sua personalità, qualche triste presentimento. Ma non ne vedo. La casa l’abbiamo ancora, ma ormai assomiglia a una specie di set cinematografico in disuso. Papà è ancora vivo, ma da quando gli è preso il coccolone tutto è andato a puttane. Specialmente Stacy.
Stacy non è venuta a trovarmi, non ha nemmeno telefonato, ma ormai nulla di ciò che fa mi sorprende più.
Mìa madre si voltò finalmente a guardarmi. Strinsi ancora di più quello sbiadito Oscar e un pensiero mi colpì: eravamo rimasti ancora una volta noi due. Papà era praticamente un vegetale e Stacy si era come svuotata dentro, non c’era più. Allungai il braccio e strinsi una mano di mamma, avvertendone sia il calore sia il recente ispessimento della pelle. Rimanemmo così fin quando la porta si aprì e la solita infermiera fece capolino.
Mamma si raddrizzò immediatamente. «Marc giocava anche con le bambole» le disse.
«Con i pupazzetti» mi affrettai a correggerla. «Giocavo con i pupazzetti, non con le bambole.»
Ogni giorno passava a trovarmi anche il mio migliore amico, Lenny, insieme alla moglie Cheryl. Lenny Marcus è un avvocato di successo anche se si occupa delle mie piccole faccende, come quella volta che feci ricorso in seguito a una contravvenzione per eccesso di velocità oppure quando mi assistette per le pratiche legate all’acquisto della casa. Quando dopo la laurea si mise a lavorare per il procuratore della contea, amici e avversari lo soprannominarono subito “il bulldog”. Ma a un certo punto fu deciso che come soprannome era decisamente blando e ora lo chiamano “Cujo”. Conosco Lenny dai tempi delle elementari, sono il padrino di suo figlio Kevin e lui è il padrino di Tara.
Non ho dormito molto. La notte guardo il soffitto, conto ì secondi scanditi dall’orologio a muro e ascolto i rumori notturni dell’ospedale cercando in tutti i modi di non andare con la mente alla mia bambina, di non considerare le infinite possibilità. Non sempre ci riesco. La mente, mi sono accorto, è effettivamente una cupa fossa di serpenti.
Tornò a trovarmi il detective Regan, con una possibile pista.
«Mi parli di sua sorella» cominciò.
«Perché?» gli chiesi, troppo in fretta. Prima che potesse trarre delle conclusioni sbagliate sollevai una mano per bloccarlo. Avevo capito. Mia sorella era una tossica e dove girava la droga allignava un certo tipo di criminalità. «Siamo stati rapinati?» gli chiesi.
«Riteniamo di no, sembra che non manchi nulla, ma la casa è stata perquisita.»
«Perquisita?»
«Qualcuno ha buttato tutto per aria. Ha idea del perché?»
«No.»
«Mi parli di sua sorella.»
«Conoscete i precedenti di Stacy?»
«Sì, li conosciamo.»
«Non so che cosa potrei aggiungere.»
«Voi due non siete più in buoni rapporti, vero?»
In buoni rapporti. Lo siamo mai stati, io e Stacy? «Le voglio bene» dissi lentamente.
«Quando l’ha vista l’ultima volta?»
«Sei mesi fa.»
«Quando è nata Tara?»
«Sì.»
«Dove?»
«Dove l’ho vista, vuol dire?»
«Sì.»
«Stacy venne in ospedale.»
«A vedere la nipote?»
«Sì.»
«Che cos’è successo durante quella visita?»
«Stacy era fatta. Voleva tenere in braccio la bambina.»
«E lei non gliel’ha permesso?»
«Proprio così.»
«Sua sorella si è arrabbiata?»
«Non ha quasi reagito. Quando è fatta sembra assente.»
«Ma lei l’ha buttata fuori?»
«Le ho detto che non avrebbe dovuto avvicinarsi a Tara fino a quando non avesse detto addio alla droga.»
«Capisco» disse. «Sperava in tal modo di convincerla a disintossicarsi.»
Mi veniva da ridere. «No, non proprio.»
«Credo di non capire.»
Non sapevo come spiegarglielo. Pensai al sorriso di Stacy nella foto di famiglia, quella in cui le mancano i denti davanti. «Abbiamo fatto a Stacy minacce peggiori» gli dissi. «La verità è che mia sorella non si staccherà mai dalla droga, ormai fa parte di lei.»
«Quindi non ha speranze di recupero, dottor Seidman?»
Non l’avrei mai ammessa, una cosa del genere. «Diciamo che non mi piaceva che stesse accanto a mia figlia, mettiamola così.»
Regan si avvicinò alla finestra e guardò in basso. «Quando si è trasferito nella sua casa attuale?»
«Monica e io l’abbiamo comprata quattro mesi fa.»
«Non lontano dalla zona in cui siete cresciuti, vero?»
«Proprio così.»
«Vi conoscevate da molto?»
Quelle domande mi lasciavano perplesso. «No.»
«Anche se siete cresciuti nella stessa città?»
«Frequentavamo ambienti diversi.»
«Capisco. Per riepilogare, la casa l’ha comprata quattro mesi fa e sua sorella non la vede da sei, giusto?»
«Giusto.»
«Sua sorella, quindi, non è mai venuta a trovarvi nella nuova casa?»
«Proprio così.»
Regan si voltò a fissarmi. «Abbiamo rilevato in casa sua le impronte digitali di sua sorella.»
Non commentai.
«Non sembra sorpreso, Marc.»
«Stacy è una tossicomane. Non credo sia capace di spararmi e di rapire mia figlia, ma ho sottovalutato l’abisso nel quale è sprofondata. Siete andati a cercarla nel suo appartamento?»
«Dal giorno della sparatoria nessuno l’ha più vista» mi informò.
Chiusi gli occhi.
«Riteniamo che sua sorella non possa avere organizzato qualcosa del genere da sola» proseguì. «Di sicuro aveva un complice, un fidanzato, uno spacciatore, qualcuno al corrente del fatto che la famiglia di sua moglie è molto facoltosa. Ha qualche idea?»
«No. Quindi, secondo lei, il piano era rapire la bambina?»
Regan riprese a grattarsi il ciuffetto di barba sul mento, poi si strinse nelle spalle.
«Ma hanno cercato di uccidere me e mia moglie. Come si fa a chiedere un riscatto a dei morti?»
«Magari erano così pieni di droga che hanno commesso un errore. O forse pensavano di estorcere denaro al nonno di Tara.»
«E perché non l’hanno ancora fatto?»
Regan rimase in silenzio, ma la risposta la conoscevo. La pressione, specialmente dopo l’omicidio di Monica e il mio ferimento, sarebbe stata eccessiva per quei delinquenti strafatti di crack, gente che quando la situazione si complica non è in grado di cavarsela. Questo è proprio uno dei motivi per cui sniffano o si bucano, per fuggire, per svanire, per evitare i contatti, per tuffarsi in un universo bianco. I media avrebbero parlato del caso per molto tempo, la polizia avrebbe fatto indagini accurate e gli strafatti di crack non avrebbero resistito a una pressione del genere. Sarebbero fuggiti, avrebbero abbandonato tutto.
E si sarebbero disfatti di tutte le prove che avrebbero potuto incriminarli.
Ma due giorni dopo la richiesta di riscatto arrivò.
Ora che avevo ripreso conoscenza, stavo riacquistando le forze con sorprendente velocità. Forse perché ero concentrato sulla guarigione, oppure perché l’essere rimasto in stato semicatatonico per dodici giorni aveva dato alle ferite il tempo di guarire. Oppure, ancora, perché il dolore che mi attanagliava era ben più forte di quello che qualsiasi ferita fisica possa infliggere. Pensavo a Tara, e la paura dell’ignoto mi toglieva il respiro. Pensavo a Monica, me l’immaginavo morta sul pavimento, e artigli d’acciaio mi squarciavano le viscere.
Volevo andarmene.
Ero ancora dolorante, ma insistetti con Ruth Heller perché mi dimettesse. E lei, di fronte all’ennesima conferma del fatto che i medici sono i pazienti peggiori, mi diede controvoglia il permesso di tornarmene a casa. Mi fece promettere che avrei fatto venire ogni giorno un fisioterapista e, per maggiore sicurezza, che ogni tanto sarebbe passata a trovarmi un’infermiera.
La mattina che lasciai il St Elizabeth mia madre era andata a casa mia, cioè sulla scena del delitto, per “prepararla”: anche se non so bene che cosa intendesse fare. Io, stranamente, non avevo alcuna paura di tornarci. Una casa è solo calce e mattoni. Non pensavo che il semplice vederla avrebbe potuto emozionarmi, ma forse stavo soltanto cercando di prevenire l’emozione.
Lenny mi aiutò a fare la valigia e a vestirmi. È alto e forte, Lenny, e come Homer Simpson ha il viso inscurito dalla cosiddetta “ombra delle 17”, quel velo di barba che compare a quell’ora: solo che nel suo caso spuntava sei minuti dopo che aveva terminato di radersi. Da ragazzino portava occhiali da vista spessi come fondi di bottiglie di Coca-Cola e pantaloni di velluto a coste troppo stretti, anche d’estate. I suoi capelli ricci crescevano troppo in fretta, tanto da farlo somigliare a un barboncino randagio. Adesso i capelli li porta rigorosamente cortissimi. Due anni fa ha abbandonato gli occhiali grazie a un intervento oculistico con il laser. E si veste in modo raffinato.
«Sei sicuro di non voler venire a stare un po’ da noi?» mi chiese.
«Hai quattro bambini» gli ricordai.
«Già.» Fece una pausa. «Vuoi che venga io da te?»
Cercai di sorridere.
«No, davvero» riprese Lenny «non dovresti rimanere solo in quella casa.»
«Starò bene, non preoccuparti.»
«Cheryl ti ha preparato da mangiare per qualche giorno, troverai tutto nel freezer.»
«È stata gentile.»
«Ma è comunque la peggior cuoca del mondo.»
«Non ho detto che avrei mangiato quello che mi ha preparato.»
Lenny distolse lo sguardo, dandosi da fare con la valigia che era pronta da tempo. Lo osservai. Ci conosciamo da una vita, da quando frequentavamo la prima elementare con la maestra Roberts. Probabilmente, quindi, non si sorprese quando gli chiesi: «Mi vuoi dire che sta succedendo?».
Non vedeva l’ora di entrare in argomento e sfruttò subito l’occasione. «Senti, io sono il tuo avvocato. Giusto?»
«Giusto.»
«E allora voglio darti qualche consiglio legale.»
«Ti ascolto.»
«Avrei dovuto parlarti già da prima, ma sapevo che non mi avresti ascoltato. Ora… be’, direi che è proprio tutta un’altra storia.»
«Lenny?»
«Sì?»
«Ma cosa stai dicendo?»
Malgrado fosse diventato un uomo grande e grosso, io continuavo a vedere Lenny da ragazzino e quindi mi riusciva difficile ascoltare i suoi consigli con la dovuta serietà. Sia chiaro, so bene che è in gambissima, abbiamo festeggiato insieme quando fu ammesso a Princeton e, successivamente, alla Columbia Law School. Abbiamo superato insieme il test per l’ammissione al college e al terzo anno abbiamo frequentato lo stesso corso di Chimica. Ma il Lenny che vedevo era lo stesso con il quale correvo in auto su e giù per il corso principale nelle afose serate di venerdì e sabato. Partivamo con la station wagon dalla carrozzeria in legno di suo padre, non proprio l’auto più indicata per rimorchiare, e cercavamo di imbucarci alle feste. Ci facevano entrare semplicemente come membri di quella maggioranza dei liceali che chiamo “I Grandi Ignorati”, ma non eravamo mai i benvenuti. Ce ne stavamo in un angolo della sala, con una birra in mano, muovendo la testa al tempo di musica, cercando in tutti i modi di farci notare. Ma nessuno ci notava mai. Quasi sempre concludevamo queste serate facendoci un piatto di formaggio alla piastra all’Heritage Diner. Oppure, meglio ancora, ci andavamo a sdraiare sull’erba del campo di calcio dietro la Benjamin Franklin Middle School e guardavamo le stelle. Era più facile parlare, anche con il tuo migliore amico, guardando le stelle.
«Okay» disse Lenny, gesticolando come fa di solito. «La cosa allora funziona così: voglio che non parli più con i poliziotti se io non sono presente.»
Sollevai le sopracciglia. «Stai parlando seriamente?»
«Forse esagero, ma ho già visto casi del genere. Non come questo, cioè, insomma, hai capito che cosa voglio dire. Il primo a essere sospettato è sempre uno di famiglia.»
«Mia sorella, vuoi dire?»
«No, voglio dire un familiare stretto. O il più stretto, se possibile.»
«Mi stai dicendo che la polizia sospetta di me?»
«Non lo so, davvero non lo so.» Fece una pausa, ma molto breve. «Okay, sì, è possibile.»
«Ma mi hanno sparato, te lo ricordi? Ed è la mia bambina quella che si sono portati via.»
«Giusto. Ed è un’arma a doppio taglio.»
«In che senso, scusa?»
«Con il passare dei giorni finiranno per sospettare di te sempre di più.»
«Ma perché?»
«Non lo so, ma è così che funziona di solito. Stai a sentire, dei rapimenti si occupa l’FBI, lo sai anche tu, no? Dopo ventiquattro ore dalla scomparsa del bambino danno per scontato che si trovi in un altro Stato e iniziano le indagini.»
«E allora?»
«Per i primi dieci giorni o giù di lì hanno fatto venire un esercito di agenti, ti hanno messo i telefoni sotto controllo per intercettare la richiesta di riscatto, roba del genere insomma. Poi, l’altro giorno, hanno in pratica fatto fagotto, e questo naturalmente è abbastanza normale. Non possono aspettare all’infinito, e così hanno lasciato uno o due agenti. Hanno anche cambiato modo di ragionare, nel senso che per loro Tara non è più la vittima di un sequestro a scopo di estorsione ma di un sequestro e basta. Secondo me, però, i telefoni sono ancora sotto controllo: non gliel’ho chiesto, ma lo farò. Loro diranno che continuano a tenerli sotto controllo nel caso dovesse a un certo punto arrivare una richiesta di riscatto, ma sperano anche di sentirti dire al telefono qualcosa di compromettente.»
«E allora?»
«E allora stai attento. Ricordati che con molta probabilità ascoltano le tue telefonate da casa, dall’ufficio e dal cellulare.»
«Torno a chiedertelo: e allora? Io non ho fatto niente.»
«Non hai fatto?…» Lenny agitò le braccia come se si stesse preparando a spiccare il volo. «Ascolta, ti dico solo di stare attento. Magari a te risulta difficile crederlo ma, e ti prego di non trasalire, la polizia a volte altera e distorce le prove.»
«Non capisco più niente. Stai dicendo che sono un sospetto solo perché sono marito e padre?»
«Sì. E no.»
«Okay, grazie, ora è tutto più chiaro.»
Squillò il telefono accanto al mio letto, ma io ero dall’altra parte della camera. «Ti dispiace?»
Lenny sollevò il ricevitore. «È la camera del dottor Seidman.» Mentre ascoltava, il suo viso si oscurò. «Attenda» e mi porse il ricevitore come se fosse stato infettato da germi. Gli rivolsi un’occhiata perplessa. «Pronto?»
«Salve, Marc. Sono Edgar Portman.»
Il padre di Monica. Questo spiegava la reazione di Lenny. Il tono di Edgar era, come al solito, troppo formale. Molti pesano le parole ma una cerchia più ristretta, della quale mio suocero fa parte, prende ogni parola e la posa su una bilancia prima di farsela uscire di bocca.
Fui colto momentaneamente alla sprovvista. «Salve, Edgar» dissi, come un idiota. «Come sta?»
«Bene, grazie. Mi sento in colpa, naturalmente, per non averla chiamata prima, ma avevo saputo da Carson che era molto occupato a riprendersi dalle ferite e ho preferito far passare qualche giorno.»
«Premuroso» dissi, con una punta di sarcasmo.
«Sì, be’, ho sentito che la dimettono oggi.»
«Esatto.»
Edgar si schiarì la voce, cosa che per lui era abbastanza insolita. «Potrebbe passare da casa?»
Da casa. Cioè da casa sua. «Oggi?»
«Il più presto possibile. E da solo, per favore.»
Seguì un silenzio. Lenny mi guardò perplesso.
«Qualcosa non va, Edgar?» gli chiesi.
«Davanti all’ospedale c’è un’auto che l’aspetta, Marc. Parleremo quando arriverà.»
E, prima che potessi dire qualcosa, aveva già riattaccato.
L’auto, una Lincoln Town Car nera, mi stava effettivamente aspettando.
Lenny spinse la mia sedia a rotelle fino all’uscita. La zona la conoscevo, naturalmente, essendo cresciuto a pochi chilometri di distanza dal St Elizabeth. Quando avevo cinque anni mio padre mi aveva portato di corsa al Pronto soccorso (dodici punti) e quando ne avevo sette… be’, la storia della mia salmonella la conoscete già fin troppo bene. Avevo frequentato la facoltà di Medicina e fatto il mio internato a New York, in quello che allora si chiamava Columbia Presbyterian, ma poi ero tornato al St Elizabeth con una borsa di studio in Oftalmologia ricostruttiva.
Sì, sono un chirurgo plastico, ma non come pensate voi. Ogni tanto raddrizzo anch’io qualche naso, ma non mi vedrete mai lavorare con sacchi pieni di silicone o sostanze affini. Con questo, non voglio giudicare nessuno: più semplicemente, io non pratico quel tipo di chirurgia plastica.
Lavoro nel reparto Chirurgia pediatrica ricostruttiva con una ex collega d’università, un tipetto energico che si chiama Zia Leroux e abita nel Bronx. Lavoriamo per un’associazione, One World WrapAid, che abbiamo fondato noi due. Assistiamo i bambini, quasi tutti del Terzo Mondo, affetti da deformità congenite o conseguenti a condizioni di vita di estrema povertà o a guerre. Viaggiamo molto. Ho lavorato su facce maciullate in Sierra Leone, su palati leporini in Mongolia, sulla sindrome di Crouzon in Cambogia, su ustionati nel Bronx. Come molti miei colleghi in questo settore, ho fatto molta pratica. Mi sono specializzato in Otorinolaringoiatria con un anno di pratica in Chirurgia ricostruttiva, plastica, maxillofacciale e, come ho detto, oftalmologica. Zia ha un curriculum analogo al mio, anche se lei è più forte nel maxillofacciale.
Ma se pensate a noi come a dei benefattori vi sbagliate. Avrei potuto rifare tette o tirare la pelle di chi è già troppo bella, o in alternativa avrei potuto aiutare i bambini feriti o vittime della povertà. Ho scelto questi ultimi non tanto per andare in aiuto a chi ha bisogno quanto, ahimè, perché è tra loro che si registrano i casi più interessanti. Molti chirurghi plastici sono, in fondo all’animo, amanti dei puzzle. Siamo gente strana, noi. Ci entusiasmiamo per certe anomalie congenite da circo o per i tumori vistosi. Avete presente quei testi di medicina con immagini di orribili deformità sulle quali a volte non si osa nemmeno posare lo sguardo? Zia e io ne andiamo pazzi. E ancora di più ci piacciono le “riparazioni”, rimettere insieme ciò che è andato a pezzi.
L’aria fresca mi pizzicò i polmoni. Il sole splendeva come se fosse il primo giorno, prendendosi gioco del mio umore cupo. Girai il volto verso il sole per calmarmi con i suoi raggi. Lo faceva anche Monica, diceva che la “destressava”. Le rughe sul suo volto scomparivano come se i raggi fossero stati dei delicati massaggiatori. Tenni gli occhi chiusi. Lenny attendeva in silenzio, senza mettermi fretta.
Mi sono sempre considerato un uomo ipersensibile. Piango con eccessiva facilità guardando film idioti. Non è difficile manipolare le mie emozioni. Ma con mio padre non ho mai pianto. E questo terribile colpo che avevo appena ricevuto non era riuscito a strapparmi nemmeno una lacrima, non so perché. Forse si trattava di un classico meccanismo di difesa. Dovevo tirare avanti. Lo stesso accade più o meno nel mio lavoro, quando compare qualche crepa devo ripianarla prima che si cronicizzi.
Lenny era ancora imbestialito per la telefonata che avevo ricevuto. «Hai idea di che cosa possa volere quel vecchio bastardo?»
«Assolutamente no.»
Tacque per qualche istante e capii a cosa stava pensando. Lenny attribuiva a Edgar la responsabilità della morte di suo padre, un dirigente di medio livello nella ProNess Foods, una delle holding di mio suocero. Aveva lavorato ventisei anni per quella società, come uno schiavo, e ne aveva cinquantasei quando Edgar aveva deciso una maxi fusione e lui, il padre di Lenny, aveva perso il posto. Ricordo ancora il signor Marcus seduto al tavolo di cucina, con le spalle curve, che imbustava con la massima attenzione il suo curriculum. Ma non trovò nessun altro lavoro e due anni dopo venne stroncato da un infarto. Nulla potrà mai convincere Lenny che i due fatti non fossero collegati.
«Davvero non vuoi che venga con te?» mi chiese.
«No, non preoccuparti.»
«Ce l’hai il cellulare?»
Glielo mostrai.
«Chiamami, se ti serve qualcosa.»
Lo ringraziai e rimasi a guardarlo mentre si allontanava. L’autista aprì lo sportello ed entrai con una smorfia di dolore. La nostra meta non era lontana: Kasselton, New Jersey, il mio paese. Passammo davanti alle ville a piani sfalsati degli anni Sessanta, ai ranch ampliati degli anni Settanta, alle modanature di alluminio degli anni Ottanta, alle McMansion degli anni Novanta. La boscaglia si fece più fitta, le ville si allontanarono progressivamente dal ciglio della strada protette dalla vegetazione rigogliosa, separate dalla plebaglia. Ci stavamo avvicinando alla vecchia ricchezza, a quella terra per pochi eletti che sapeva sempre di autunno e fumo di legna.
La famiglia Portman si era insediata in questo bosco subito dopo la Guerra Civile. Come in quasi tutto il New Jersey extra urbano, quello era in origine terreno agricolo. Il trisnonno Portman lo vendette e fece la sua fortuna. Possedevano ancora sedici acri e la loro era una delle tenute più estese della zona. Mentre l’auto risaliva il vialetto in direzione della villa, lo sguardo mi cadde sul piccolo cimitero di famiglia alla mia sinistra.
Vidi un monticello di terra smossa.
«Fermi l’auto» dissi.
«Mi dispiace, dottor Seidman, ma mi hanno detto di portarla subito alla villa.»
Stavo per protestare, ma cambiai immediatamente idea. Attesi che l’auto si fermasse davanti alla porta d’ingresso, poi scesi e tornai indietro. Udii l’autista chiamarmi: «Dottor Seidman…» ma non mi fermai. Mi chiamò un’altra volta e continuai a ignorarlo. Nonostante fosse piovuto poco, l’erba era del verde tipico delle foreste pluviali. Il roseto era in pieno rigoglio, un’esplosione di colore.
Provai ad affrettare il passo, ma sembrava che la mia pelle dovesse spezzarsi da un momento all’altro e rallentai. Era la terza volta che entravo nella tenuta dei Portman, da giovane l’avevo guardata dall’esterno decine di volte, e non avevo mai visto il cimitero di famiglia: anzi, come fanno di solito le persone razionali, cercavo in tutti ì modi di tenermene lontano. L’idea di seppellire nel giardino di casa una persona cara come se fosse un animale domestico… insomma, era una di quelle cose tipiche dei ricchi che noi gente normale non riusciremo mai a capire. O non avremo mai voglia di capire.
Lo steccato attorno al piccolo cimitero era alto una sessantina di centimetri e di un bianco abbacinante, tanto che mi chiesi se non fosse stato appena riverniciato. Scavalcai l’inutile cancelletto e passai davanti alle modeste pietre tombali, senza perdere d’occhio il monticello di terra smossa. Quando vi arrivai, mi sentii squassato da un brivido. Abbassai lo sguardo.
Sì, era una tomba scavata da poco. Non c’era ancora la lapide, soltanto un cartello sul quale, scritto nel carattere delle partecipazioni di nozze, si leggeva semplicemente: LA NOSTRA MONICA.
Rimasi lì, a battere le palpebre. Monica. La mia bella dagli occhi selvaggi. Il nostro era stato un rapporto turbolento, il classico caso di troppa passione all’inizio e troppo poca verso la fine. Non so perché succeda una cosa del genere. Monica era diversa, questo è poco ma sicuro. All’inizio quella sua effervescenza, l’entusiasmo, mi avevano attratto. Più tardi i suoi cambiamenti d’umore riuscivano solo a stufarmi. Non avevo avuto la pazienza di andare in profondità.
Guardando quella terra mi sentii assalire da un ricordo doloroso. Due sere prima della tragedia, entrando in camera da letto, avevo trovato Monica in lacrime. Non era la prima volta, tutt’altro. Interpretando la mia parte in quella commedia che era diventata la nostra vita, io ogni volta le chiedevo che cosa avesse, ma senza particolare interesse. Di solito glielo chiedevo con maggiore preoccupazione, ma Monica non rispondeva. Cercavo di stringerla tra le braccia, ma lei s’irrigidiva. Dopo un po’ quell’assenza di reattività diventava stancante, una specie di “al lupo, al lupo!” che alla fine ti inaridiva il cuore. È anche questa la vita con una depressa. Non si può star sempre a preoccuparsi per qualcuno, a un certo punto bisogna cominciare ad arrabbiarsi.
Questo era, almeno, ciò che mi dicevo.
Ma quella volta accadde qualcosa di diverso. Monica mi rispose, ma la sua non fu una risposta lunga. Una frase brevissima: “Tu non mi ami”, fu tutto quello che disse. Solo questo. Senza alcuna compassione. “Tu non mi ami.” E mentre mi apprestavo a rispondere con proteste di rito, mi chiesi se per caso non avesse ragione lei.
Chiusi gli occhi e mi lasciai sommergere dal ricordo. Le cose non andavano bene, ma da sei mesi a quella parte avevamo una valvola di sfogo, un obiettivo caldo e tranquillo rappresentato da nostra figlia. Alzai gli occhi al cielo, battei nuovamente le palpebre e quindi riportai lo sguardo sulla terra che ricopriva la mia volubile moglie. «Monica» dissi ad alta voce. E poi presi con lei un ultimo impegno.
Giurai sulla sua tomba che avrei ritrovato Tara.
Un cameriere, o maggiordomo, o collaboratore domestico, o qualunque cosa adesso si usi per indicare la categoria, mi precedette lungo il corridoio fino alla biblioteca. L’arredamento era sotto tono anche se inequivocabilmente da ricchi: pavimenti scuri e levigati coperti da semplici tappeti orientali, mobili in stile Old America più robusti che elaborati. Nonostante il denaro e l’estensione della propria tenuta, Edgar non era tipo da ostentare la sua ricchezza. Il termine nouveau riche era per lui profano, impronunciabile.
Edgar indossava un blazer blu di cachemire ed era seduto alla sua enorme scrivania di quercia. Appena mi vide entrare si alzò. C’era una penna d’oca sulla scrivania, appartenuta, se non ricordo male, al suo bisnonno, e due busti bronzei di Jefferson e Washington. Mi sorpresi nel vedere seduto davanti alla scrivania lo zio Carson. Quando mi era venuto a trovare in ospedale ero troppo debole per poterlo abbracciare ma lo fece lui in quel momento e mi tenne stretto. Rimasi in silenzio tra le sue braccia, anche lui sapeva di autunno e di fumo di legna.
Non c’erano foto in quella stanza, nessuna istantanea delle vacanze di famiglia, nessuna foto di classe, nessuna del padrone di casa e signora in pompa magna in occasione di una festa di beneficenza. Credo di non aver mai visto nemmeno una foto in quella casa.
«Come si sente, Marc?» mi chiese Carson.
Gli risposi che mi sentivo come si sarebbe sentito chiunque nelle mie condizioni e mi voltai verso mio suocero. Edgar non girò attorno alla scrivania per venirmi incontro. Non ci abbracciammo, non ci stringemmo nemmeno la mano. Mi indicò la poltrona davanti alla scrivania.
Non lo conoscevo molto bene, Edgar. Ci eravamo visti soltanto tre volte. Non so quanti soldi abbia ma anche fuori da questo contesto, anche per strada o in una stazione delle corriere, anche nudo, maledizione, si capiva che un Portman era sinonimo di ricchezza. Monica era fatta della stessa pasta, aveva quel qualcosa che si acquisisce generazione dopo generazione, qualcosa che non si insegna, qualcosa che si può considerare genetico, letteralmente. La decisione di venire ad abitare nella nostra casa relativamente modesta era stata con ogni probabilità una forma di ribellione.
Aveva odiato suo padre.
Nemmeno io andavo matto per lui, forse perché di tipi così ne avevo già conosciuti. Edgar si considera uno che si è fatto da sé, ma anche lui i soldi li ha fatti all’antica: ereditandoli. Non conosco molti super ricchi, però ho notato che più le cose ti vengono offerte su un piatto d’argento e più ti lamenti dei contributi alle madri bisognose e delle sovvenzioni governative. È a dir poco strano. Edgar appartiene a quella classe di fortunati che si autoconvincono di essersi guadagnati il loro status lavorando sodo. Tutti abbiamo la tendenza a giustificare noi stessi, naturalmente, e se non hai mai dovuto faticare per mantenerti, se vivi nel lusso e non hai fatto nulla per meritartelo, immagino che tutto questo vada ad alimentare le tue insicurezze. Ma non dovrebbe renderti, per giunta, così ipocrita.
Mi sedetti, imitato da Edgar; Carson invece rimase in piedi. Guardai Edgar, era in carne come tutti quelli che mangiano bene, il viso fatto di morbide rotondità. Ma le sue guance tutt’altro che ossute avevano perso il colorito rubizzo. Intrecciò le dita e posò le mani sullo stomaco prominente. Sembrava distrutto, teso, avvizzito, e la cosa mi sorprese.
Mi sorprese perché avevo sempre considerato Edgar una specie di id puro, una persona il cui piacere o dolore dovesse prevalere su quello degli altri, uno convinto che gli abitanti dello spazio attorno a lui fossero poco più di un semplice allestimento vetrinistico a suo uso e consumo. Edgar aveva perso un figlio e ora una figlia. Il maschio, Eddie IV, era morto dieci anni prima in un incidente stradale. Guidava ubriaco e aveva superato la doppia linea gialla finendo nella cunetta spartitraffico. Secondo Monica l’aveva fatto apposta e lei per qualche motivo dava la colpa al padre. Dava quasi sempre la colpa al padre.
C’è anche la madre di Monica. “Riposa” molto, la signora Portman, fa vacanze “prolungate”. Insomma, entra ed esce dalle case di cura. Nelle due circostanze in cui l’ho vista, mia suocera era pronta per qualche occasione sociale, tutta in ghingheri e incipriata, gentile e troppo pallida, aveva lo sguardo vuoto, biascicava le parole e dondolava leggermente.
A parte lo zio Carson, Monica non aveva più contatti con la sua famiglia. La cosa, come potete immaginare, mi lasciava abbastanza indifferente.
«Voleva vedermi?» chiesi.
«Sì, Marc. Volevo vederla.»
Attesi.
Edgar appoggiò le mani sulla scrivania. «Amava mia figlia?»
La domanda mi sorprese con la guardia abbassata, ma riuscii a rispondere senza esitare. «Moltissimo.»
Sembrò che si fosse accorto della bugia e io feci di tutto per non abbassare lo sguardo. «Ma Monica non era felice, come ben sa.»
«Non credo che fosse per colpa mia.»
Annuì lentamente. «Eh già.»
Ma difendermi scaricando la responsabilità, non funzionava con me. Quelle due parole di Edgar ebbero l’effetto di un altro cazzotto e ancora una volta sentii crescere in me il senso di colpa.
«Lo sapeva che era in cura da uno psichiatra?» mi chiese Edgar.
Mi voltai verso Carson, poi riportai lo sguardo sul padrone di casa. «No.»
«Non voleva che si sapesse.»
«Lei come l’ha scoperto?»
Non rispose, ma si guardò le mani. «Voglio farle vedere qualcosa» disse poi.
Lanciai un’altra occhiata di sottecchi a Carson, aveva la mascella contratta e mi sembrò di vederla tremare. «Okay» dissi.
Edgar aprì il cassetto della scrivania, vi infilò una mano e tirò fuori un sacchetto di plastica, sollevandolo e tenendolo per un angolo tra pollice e indice. Non me ne resi immediatamente conto, ma quando capii che cosa stavo guardando sbarrai gli occhi.
Edgar notò la mia reazione. «La riconosce, vero?»
All’inizio non riuscii a parlare. Guardai Carson, aveva gli occhi rossi. Riportai lo sguardo su Edgar e annuii come inebetito. Dentro il sacchetto di plastica c’era un pezzetto di stoffa, grande forse sette centimetri per sette. Il disegno era lo stesso che avevo notato due settimane prima, subito prima che mi sparassero.
Pinguini neri su sfondo rosa.
La mia voce era poco più di un sussurro. «Dove l’ha trovata?»
Edgar mi porse una grossa busta marrone, di quelle imbottite con le bolle d’aria. Anche questa era protetta dalla plastica. La girai. Su un’etichetta bianca si leggevano nome e indirizzo di Edgar, ma non era stato indicato il mittente. Sul timbro si leggeva: NEW YORK CITY.
«È arrivata oggi con la posta» disse Edgar. Fece un gesto indicando il pezzo di stoffa. «È della tuta di Tara?»
Credo di avere risposto di sì.
«C’è altro.» Edgar infilò nuovamente la mano nel cassetto. «Mi sono preso la libertà di mettere tutto dentro sacchetti di plastica, nel caso le autorità volessero accertarne la provenienza.»
Mi porse un altro sacchetto di plastica, questo con la chiusura a pressione e più piccolo degli altri. Dentro si vedevano dei capelli, ciuffettini di capelli. In preda a un terrore crescente capii che cosa stavo guardando. E mi si fermò il respiro.
Capelli di neonato.
Da lontano sentii Edgar chiedere: «Sono della bambina?».
Chiusi gli occhi e tentai di immaginarmi Tara nella culla. E scoprii inorridito che l’immagine di mia figlia stava già cominciando a svanirmi dalla memoria. Ma come poteva essere? Non riuscii a capire se stavo vedendo un ricordo oppure qualcosa che mi ero sforzato di creare per sostituire ciò che stavo già dimenticando. Maledizione! Sentii le lacrime premermi contro le palpebre. Cercai di ricreare il contatto della mia mano con la sua morbida testolina.
«Marc?»
«Potrebbero esserlo» risposi, aprendo gli occhi. «Non posso esserne sicuro.»
«C’è qualcos’altro.» Edgar mi porse un altro sacchetto di plastica e io posai piano piano sulla scrivania quello con i capelli. Dentro c’era un foglio di carta bianca, un biglietto scritto con una stampante laser.
Se contatterete la polizia noi spariremo e non saprete mai che fine avrà fatto la bambina. Vi terremo d’occhio. Sapremo tutto. Abbiamo infiltrato uno dei nostri. Le vostre telefonate sono sotto controllo. Non parlate di questa faccenda al telefono. Sappiamo che tu, nonno, sei ricco. Vogliamo due milioni di dollari e vogliamo che ce li consegni tu, paparino. Tu, nonno, preparerai il denaro. Accludiamo a questo biglietto un cellulare, al quale è impossibile risalire. Ma se lo usate per telefonare a qualcuno lo sapremo, e allora scompariremo e non rivedrete più la bambina. Preparate il denaro e datelo a paparino. Tu, paparino, tieni sempre accanto a te i soldi e il cellulare. Vai a casa e aspetta. Ti chiameremo noi per dirti che cosa fare, ma se sgarri anche di poco non rivedrai più tua figlia. Non avrai una seconda possibilità.
La sintassi lasciava a dir poco a desiderare. Lessi il biglietto tre volte, poi alzai gli occhi su Edgar e Carson. Mi sentii invadere da una strana calma. Sì, ciò che avevo letto era terrificante… ma al tempo stesso, ricevere quel messaggio mi dava una specie di sollievo. Qualcosa era finalmente accaduto. Ora avremmo potuto muoverci. Potevamo riportare a casa Tara. C’era una speranza.
Edgar si alzò, dirigendosi verso un angolo della stanza. Poi aprì l’anta di un armadio, dal quale estrasse un borsone da ginnastica con il logo della Nike. «È tutto qui» mi disse, senza alcun preambolo.
Mi lasciò cadere in grembo il borsone e io vi posai sopra lo sguardo. «Due milioni di dollari?»
«Le banconote non hanno la serie in sequenza, ma per ogni evenienza abbiamo registrato tutti i numeri di serie.»
Guardai Carson, poi riportai lo sguardo su Edgar. «Non crede che dovremmo informare l’FBI?»
«Direi proprio di no.» Edgar si andò ad appoggiare contro il bordo della scrivania, con le braccia conserte. Profumava di colonia, ma sotto quel profumo avvertivo qualcosa di più primitivo, di più rancido. Da vicino si notavano le occhiaie provocate dalla spossatezza. «Deve deciderlo lei, Marc. È lei il padre. Noi rispetteremo ogni sua decisione. Ma, come sa, ho avuto a che fare con le autorità federali. Forse il mio giudizio su di loro non è equanime perché li considero degli incompetenti totali, o forse sono prevenuto perché ho potuto constatare fino a quale punto sono mossi da motivazioni personali. Se Tara fosse mia figlia, mi fiderei più del mio giudizio che del loro.»
Non sapevo che cosa dire o fare, ma mi venne in aiuto Edgar che batté una volta le mani e poi mi indicò la porta.
«Sul biglietto le chiedono di andare a casa ad aspettare. Credo che ci convenga obbedire.»