38

Trovammo subito la ragazza incinta.

Prima di allontanarci a tutto gas sull’auto di Verne, Rachel aveva fatto una doccia veloce per togliersi le macchie di sangue e la sporcizia. Io le avevo cambiato in fretta le medicazioni. Katarina le aveva prestato un abito estivo stampato a fiori, comodo ma aderente nei punti giusti. Rachel aveva i capelli bagnati e le gocciolavano ancora quando entrammo in macchina. Ma per me in quel momento ecchimosi e lividi erano scomparsi: ero sicuro di non avere mai visto in vita mia una donna più bella.

Katarina insistette per occupare il sedile posteriore ribaltabile e io e Rachel ci sedemmo nei due anteriori. Per qualche minuto nessuno aprì bocca: probabilmente eravamo in fase di decompressione.

Poi fu Rachel a rompere il silenzio. «A proposito di quello che ha detto Verne sui segreti e sul passato da dimenticare» cominciò.

Continuai a guidare.

«Non l’ho ucciso io mio marito, Marc.»

Sembrava che non le importasse nulla della presenza di Katarina. E nemmeno a me. «La versione ufficiale è quella dell’incidente» dissi.

«La versione ufficiale è falsa.» Emise un lungo respiro. Aveva bisogno di tempo per riprendersi e glielo concessi.

«Jerry si era già sposato una volta. Dal primo matrimonio erano nati due figli, uno dei quali, Derrick, soffre di paralisi cerebrale e le spese mediche sono assurde. Jerry non ha mai avuto molta dimestichezza con la gestione familiare, ma in quel caso diede il meglio di sé, arrivando addirittura a stipulare a suo nome una vantaggiosa polizza assicurativa nel caso gli fosse successo qualcosa.»

Con la coda dell’occhio le guardai le mani. Non le muoveva, non le stringeva a pugno, ma le teneva ferme in grembo.

«Il nostro matrimonio fallì per un mucchio di motivi, di alcuni dei quali ti ho già parlato. Non lo amavo e lui probabilmente se n’era accorto, ma Jerry era comunque un maniaco depressivo e quando non prendeva le sue medicine peggiorava. Così alla fine decisi di divorziare.»

Le rivolsi una rapida occhiata, si mordicchiava il labbro e batteva le palpebre.

«Il giorno in cui gli arrivarono i documenti con la mia istanza di divorzio, Jerry si sparò in testa. Fui io a trovarlo: era riverso sul tavolo della cucina. C’era una lettera indirizzata a me, riconobbi subito la grafia di Jerry. La aprii, conteneva un foglio di carta sul quale aveva scritto una sola parola: “Cagna”.»

Katarina le poggiò una mano sulla spalla in segno di solidarietà. Io mi concentrai ancora di più sulla guida.

«Secondo me Jerry l’aveva fatto di proposito» riprese «sapendo quello che ne sarebbe conseguito.»

«Cioè?»

«In caso di suicidio l’assicurazione non avrebbe pagato e allora Derrick non si sarebbe più potuto permettere le cure mediche. Non potevo permetterlo. Chiamai uno dei miei ex capi oltre che grande amico di Jerry, Joseph Pistillo, uno che nell’FBI ha un certo potere. Lui si portò dietro alcuni dei suoi e facemmo in modo che il suicidio sembrasse un incidente. La versione ufficiale fu che mio marito l’avevo ucciso io scambiandolo per un ladro, e la polizia locale e l’assicurazione furono convinti ad accettarla.»

«Perché allora hai dato le dimissioni?»

«Perché i miei colleghi non l’avevano bevuta, quella storia, e cominciarono a sospettare che fossi l’amante di un pezzo grosso. Pistillo non poteva proteggermi, non avrebbe fatto una bella figura, e io non ero in grado di difendermi. Tentai di tenere duro, di stringere i denti, ma all’FBI non c’è posto per gli indesiderati.»

Reclinò il capo sul poggiatesta e si mise a guardare dal finestrino. Non sapevo che cosa pensare di quel racconto, non sapevo ancora come regolarmi. Avrei voluto dirle qualche parola di conforto, ma non ne trovai. E continuai a guidare finché per fortuna non arrivammo a Union City.

Katarina andò al banco del motel, fingendo di conoscere solo il serbo, e prese a gesticolare fino a quando l’impiegato, per togliersela dai piedi, le diede il numero di stanza dell’unica persona nell’edificio che parlava quella lingua. Cominciava l’avventura.

Più che una normale stanza di motel, quella della ragazza incinta si sarebbe potuta definire uno scadente monolocale. Se parlo di “ragazza” incinta è perché Tatiana, almeno così aveva detto di chiamarsi, sosteneva di avere sedici anni: ma secondo me era ancora più giovane. Aveva gli occhi incavati di certe bambine che si vedono nei documentari di guerra, e con molta probabilità quello era proprio il suo caso.

Rimasi in disparte, quasi fuori dalla stanza, insieme a Rachel. Tatiana non parlava la nostra lingua e lasciammo quindi gestire la faccenda a Katarina. Le due donne parlarono per una decina di minuti, a cui seguì un breve silenzio. Poi Tatiana sospirò, aprì il cassetto sotto il telefono e diede un foglio di carta a Katarina, che la baciò su una guancia e tornò da noi.

«Ha paura» ci informò. «Conosceva solo Pavel, che ieri l’ha lasciata qui dicendole di non uscire per alcun motivo.»

Guardai Tatiana e le sorrisi per rassicurarla, certamente senza riuscirci.

«Che cos’ha detto?» le chiese Rachel.

«Non sa nulla, come non sapevo nulla io. Sa soltanto che il suo bambino vivrà in una bella casa.»

«Che cos’era quel pezzo di carta che le ha dato?»

Katarina me lo mostrò. «È un numero di telefono. Le hanno detto che in caso di emergenza deve chiamare questo numero, seguito da quattro 9.»

«Un cercapersone, quindi.»

«Sì, credo di sì.»

Guardai Rachel. «È possibile risalire all’intestatario?»

«Sì, ma dubito che potrà esserci utile. È facile farsi assegnare un cercapersone dando un nome falso.»

«Chiamiamolo, allora.» Mi rivolsi a Katarina. «Tatiana ha conosciuto qualcun altro oltre a suo fratello?»

«No.»

«Allora chiami lei spacciandosi per Tatiana, e dica a chi risponde che ha un’emorragia o sta male, che insomma ha bisogno di aiuto.»

«Calma, aspetta un attimo» intervenne Rachel.

«Dobbiamo far venire qui qualcuno.»

«E poi?»

«Come sarebbe a dire, e poi? Tu interroghi chi viene, non è il tuo mestiere, Rachel?»

«Non sono più un’agente federale. E anche se lo fossi non possiamo assalirli come proponi tu. Immagina per un attimo di essere uno di loro, che si trova all’improvviso ad avere a che fare con me. Tu come ti comporteresti, se fossi coinvolto in questa faccenda?»

«Cercherei un accordo.»

«Forse. Oppure potresti chiuderti a riccio e pretendere un avvocato. Sai che bel successo per noi.»

Ci pensai su. «Se chiede un avvocato, tu lo dai a me e me lo lavoro io.»

Rachel mi fissò. «Stai parlando seriamente?»

«C’è in ballo la vita di mia figlia.»

«Ora ci sono in ballo tanti bambini, Marc. Questa è gente che compra e vende bambini e dobbiamo metterla in condizione di non nuocere.»

«Tu allora che cosa consigli?»

«Chiamiamo quel numero, come dici tu, ma facciamo parlare Tatiana che dovrà convincerli a venire qui. Mentre quelli la visitano noi gli prendiamo il numero di targa e poi, quando se ne vanno, li seguiamo e scopriamo dove abitano.»

«Non capisco, non può farla Katarina questa telefonata?»

«No, perché chi verrà vorrà vedere la donna con cui ha parlato al telefono e Tatiana e Katarina hanno voci diverse.»

«Ma perché complicarci tanto la vita, se vengono qui. Perché rischiare di seguirli?»

Rachel chiuse gli occhi, poi li riaprì. «Prova a pensarci, Marc, come reagiranno se scoprono che gli stiamo dando la caccia?»

Non risposi.

«E voglio mettere in chiaro anche un’altra cosa. Non si tratta più solo di Tara, questa gente va fermata.»

Capii il suo punto di vista. «E se invece affrontiamo qualcuno qui dentro li mettiamo sull’avviso.»

«Esatto.»

Non so quanto mi interessasse tutto il resto. La mia priorità si chiamava Tara e se l’FBI o la polizia volevano incastrare quella gente io non avevo nulla da obiettare. Ma il mio radar personale aveva un altro obiettivo da localizzare.

Katarina spiegò a Tatiana il nostro piano e capii che la ragazzina non ci stava, era impietrita, continuava a fare segno di no con la testa. Passò del tempo, e non potevamo permettercelo. Alla fine non riuscii più a trattenermi e decisi di fare una pazzia: presi il telefono, composi il numero del cercapersone e premetti quattro volte il numero 9. Tatiana si immobilizzò.

«Adesso tu parli» le dissi.

Katarina tradusse.

Nei due minuti successivi nessuno aprì bocca e tutti rimanemmo a guardare Tatiana. E quando il telefono squillò, ciò che vidi negli occhi della ragazzina non mi piacque. Katarina le disse qualcosa, parlando in fretta, ma quella scosse il capo e incrociò le braccia. Il telefono squillò una terza volta, poi una quarta.

Estrassi la pistola.

«Marc» disse Rachel.

Tenni la pistola puntata verso il basso. «Lo sa che stiamo parlando della vita di mia figlia?»

Katarina si mise a parlare affannosamente in serbo, io fissai torvo Tatiana, ma lei non ebbe alcuna reazione. Allora sollevai la pistola e sparai. La lampadina esplose e l’eco della detonazione riecheggiò nella stanza. Tutti sobbalzarono. Era stata, la mia, un’altra mossa stupida, lo sapevo. Ma non m’importava granché.

«Marc!»

Rachel mi mise una mano sul braccio, ma io l’allontanai e guardai Katarina. «Le dica che se quello riattacca…»

Non ebbi bisogno di terminare la frase, lei si mise di nuovo a parlare velocemente in serbo. La pistola adesso la tenevo ancora puntata verso il basso. Tatiana continuava a guardarmi. Avevo la fronte imperlata di sudore, tremavo. Il volto di Tatiana cominciò a distendersi mentre lei mi fissava.

«Per favore» dissi.

Al sesto squillo Tatiana sollevò il ricevitore e cominciò a parlare.

Lanciai un’occhiata a Katarina, che sempre ascoltando la conversazione mi fece un cenno d’assenso con il capo. Mi spostai all’altro lato della stanza, con la pistola in mano. Rachel mi guardò e io le restituii lo sguardo.

E fu lei a battere per prima le palpebre.


Fermammo la Camaro nel parcheggio di un ristorante nell’isolato successivo e attendemmo.

Nessuno parlava, ognuno di noi tre cercava se possibile di guardare da un’altra parte come fanno gli sconosciuti in ascensore. Non sapevo che cosa dire, non riuscivo a capire come mi sentivo. Avevo sparato un colpo di pistola, ed ero arrivato quasi al punto di minacciare una minorenne. E, quel che era peggio, non me ne fregava niente. Le conseguenze, ammesso che ve ne fossero, sembravano lontanissime, nuvole di tempesta che si accumulano per poi disperdersi.

Accesi la radio sintonizzandomi su una stazione locale. Mi aspettavo che da un momento all’altro interrompessero il notiziario per dare una notizia dell’ultima ora con i nostri nomi, i nostri identikit e le raccomandazioni agli ascoltatori di prestare la massima attenzione perché eravamo armati e pericolosi. Ma invece non si parlò di una sparatoria a Kasselton né di eventuali ricerche dei responsabili da parte della polizia.

Io e Rachel eravamo ancora seduti davanti, mentre Katarina si era sdraiata sul sedile posteriore. Rachel aveva estratto il palmare e teneva lo stilo puntato sullo schermo. Pensai di telefonare a Lenny, ma poi mi venne in mente ciò che mi aveva appena detto Zia riguardo al rischio di essere intercettato. E poi non avevo granché da dirgli, a parte il fatto di avere minacciato una sedicenne incinta con una pistola sottratta al cadavere di uno assassinato nel giardino di casa mia. L’avvocato Lenny non avrebbe sicuramente gradito questi particolari.

«Credi che collaborerà?» chiesi.

Rachel si strinse nelle spalle.

Tatiana ci aveva garantito la sua collaborazione, ma non sapevo se crederle. Così, per non sbagliare, avevo staccato il telefono dalla presa, portandomi via il filo della cornetta. Poi mi ero messo a cercare eventuali foglietti di carta e penne in modo da evitare che la ragazzina passasse un biglietto a chi sarebbe venuto, ma non ne trovai. Rachel aveva messo sul davanzale il suo cellulare acceso, per ascoltare ciò che veniva detto, e ora Katarina se ne stava con il suo di cellulare appoggiato all’orecchio, pronta a tradurre.

Mezz’ora dopo il rombo di un motore annunciò l’arrivo nel parcheggio di una Lexus SC 430 color oro metallizzato. Espressi con un fischio il mio apprezzamento, un collega all’ospedale si era appena comprato quell’auto, che gli era costata sessantamila dollari. La donna che scese dalla Lexus aveva i capelli bianchi, corti, indossava una camicetta bianca come i capelli ma troppo stretta e, tanto per rimanere in tema, dei pantaloni bianchi così aderenti da sembrare una seconda pelle. Aveva braccia tornite e abbronzate, insomma avete capito che tipo di donna era. Ricordava le socie ultraquarantenni dei tennis club che si conciano come se avessero vent’anni.

Rachel e io ci voltammo contemporaneamente verso Katarina, che annuì con aria solenne. «Sì, è lei quella che mi ha aiutato a partorire.»

Subito dopo vidi Rachel armeggiare con il palmare. «Che cosa stai facendo?» le chiesi.

«Inserisco tipo e numero di targa dell’auto, tra qualche minuto dovremmo sapere a chi è intestata.»

«E come fai?»

«Non è difficile, tutti quelli che appartengono alle forze dell’ordine hanno i propri contatti, ma anche nel caso non ne avessero, possono sempre pagare qualcuno alla Motorizzazione. Cinquecento dollari, di solito.»

«Sei in rete o qualcosa del genere?»

Fece di sì con il capo. «È un modem senza fili. Un mio amico, Harold Fisher, fa il tecnico di computer free-lance e non gli è piaciuto il modo in cui l’FBI mi ha costretto ad andarmene.»

«E allora ti dà una mano?»

«Sì.»

La donna dai capelli bianchi infilò un braccio dentro l’auto e tirò fuori quella che sembrava una borsa da medico, poi inforcò un paio di occhiali da sole griffati e si diresse a grandi passi verso la stanza di Tatiana. Bussò, la porta si aprì, e lei entrò. Mi voltai a guardare Katarina, che aveva selezionato la modalità MUTE sul suo cellulare. «Tatiana le sta dicendo che ora si sente meglio, la donna è seccata perché l’ha chiamata senza motivo.» S’interruppe.

«Hanno detto qualche nome, finora?»

Lei scosse il capo. «La donna sta per visitarla.»

Rachel fissava il suo piccolo palmare come se fosse stato una sfera di cristallo. «Bingo! Ci siamo.»

«Che cosa?»

«Denise Vanech, 47 Riverview Avenue, Ridgewood, New Jersey. Quarantasei anni. Neanche una multa per divieto di sosta.»

«Come hai fatto ad avere queste informazioni tanto velocemente?»

«Harold non deve fare altro che comporre sulla tastiera il numero di targa. Adesso sta cercando eventuali altri dati.» Rachel si mise nuovamente ad armeggiare con il palmare. «Nel frattempo inserisco il nome su Google.»

«Il motore di ricerca?»

«Sì, e non puoi immaginare quello che si riesce a trovare.»

Lo sapevo, invece, una volta avevo inserito il mio nome, ma non ricordo nemmeno perché. Io e Zia eravamo ubriachi e avevamo inserito i nostri nomi dopo esserci collegati, lei diceva che era come “far fare del surfing all’ego”.

«Non parlano molto» stava dicendo Katarina, concentratissima all’ascolto. «Forse la sta visitando.»

Spostai lo sguardo su Rachel. «Ho trovato due cose su Google. La prima è il sito dell’Ufficio programmazione della contea di Bergen: la Vanech ha fatto richiesta di modifica della destinazione d’uso della sua proprietà. L’altra è più interessante: è un sito che ti mette in contatto con i vecchi compagni di scuola o di università.»

«Con gli ex allievi di quale scuola o università voleva mettersi in contatto?»

«Con quelli del corso di Ostetricia dell’Università di Philadelphia.»

Poteva aver senso.

«Hanno terminato» disse Katarina.

«Veloci» osservai. «Molto.»

Katarina stava ancora ascoltando. «La donna sta dicendo a Tatiana di riguardarsi, di mangiare meglio per il suo bambino. E di chiamarla se avrà altri disturbi.»

Mi voltai verso Rachel. «Sembra più gentile di quando è arrivata.»

La presunta Denise Vanech uscì camminando a testa alta e sculettando. La camicetta troppo stretta era a coste e, non potei fare a meno di notare, anche abbastanza trasparente. La donna salì in macchina e si allontanò.

Misi in moto la Camaro, che si avviò come un vecchio fumatore catarroso, e seguii la Lexus a distanza di sicurezza. Non mi preoccupava l’idea di perderla di vista, ora che conoscevamo l’indirizzo della donna.

«Continuo a non capire» dissi a Rachel. «Come fanno a farla franca comprando neonati?»

«Trovano donne disperate e le attirano qui promettendo loro soldi e una casa sicura e comoda per i loro bambini.»

«Ma per l’adozione bisogna seguire una certa procedura, una vera rottura di palle. Conosco gente che ha tentato di far venire in America dei bambini stranieri, e non puoi immaginare quale trafila burocratica bisogna sobbarcarsi. È impossibile.»

«Non saprei risponderti, Marc.»

Denise Vanech imboccò la New Jersey Turnpike in direzione nord, la strada che la riportava a Ridgewood, e io aumentai la distanza che ci separava da lei. Vidi accendersi il lampeggiatore destro e la Lexus uscì all’autogrill Vince Lombardi. La Vanech parcheggiò, scese ed entrò. Accostai su un lato del parcheggio e guardai Rachel, che si stava mordicchiando il labbro.

«Potrebbe essere andata in bagno» dissi.

«Si è lavata dopo avere visitato Tatiana. Perché non ci è andata allora?»

«Forse ha fame.»

«Ti sembra il tipo che mangia hamburger, Marc?»

«Che facciamo, allora?»

Non c’era tempo da perdere. Rachel afferrò la maniglia dello sportello. «Lasciami davanti alla porta.»


Denise Vanech era abbastanza sicura che Tatiana si fosse inventata tutto.

Aveva parlato di un’emorragia, la ragazza, ma Denise aveva controllato le lenzuola e non si vedevano tracce di sangue nonostante non fossero state cambiate. Le mattonelle del gabinetto erano pulite, così come la tavoletta del water. Di sangue insomma non c’era nemmeno l’ombra.

Quel particolare da solo non avrebbe significato granché, naturalmente: era possibile che la ragazza avesse pulito tutto con cura. Ma c’era dell’altro. L’esame ginecologico non aveva rilevato la presenza di nulla di anomalo, niente. Sui peli vaginali non si notavano tracce di sangue. Denise aveva anche controllato la doccia: asciutta. Tatiana aveva chiamato meno di un’ora prima, dicendo di avere un’emorragia.

I conti non tornavano.

E poi c’era qualcosa che non andava nel modo di fare della ragazza. Quelle come lei erano sempre spaventate, comprensibilmente. Denise aveva lasciato la Jugoslavia all’età di nove anni, quando ancora c’era Tito. Vivevano in pace, ma lei conosceva bene la miseria. Per questa ragazza, considerando da dove veniva, gli Stati Uniti dovevano somigliare a Marte. Ma la sua era una paura di tipo diverso. Le ragazze di solito guardavano Denise come si guarda un genitore o un salvatore, con un misto cioè di trepidazione e di speranza. Quella ragazza aveva invece evitato il suo sguardo, era visibilmente irrequieta: e c’era qualcos’altro. Era stato Pavel a portare in America Tatiana, e lui sapeva tenere a bada le sue donne. Pavel però non si era visto e Denise stava per chiedere alla ragazza dov’era andato, ma poi aveva deciso di attendere e darle corda. Se fosse stato tutto normale Tatiana avrebbe sicuramente fatto il nome di Pavel.

E invece non l’aveva fatto.

Sì, c’era qualcosa che non andava.

Denise non voleva insospettirla e al termine della visita era uscita in fretta. Una volta in strada, inforcò gli occhiali da sole e cercò di individuare eventuali camionette della polizia o autocivetta, ma non notò né le une né le altre. Non era un’esperta, ovviamente, ma lavorava da quasi dieci anni con Steven Bacard e non c’era mai stata la minima complicazione. Per questo forse aveva abbassato la guardia.

Appena rientrata in macchina stava per prendere il cellulare e avvertire Bacard, ma si trattenne. Se la tenevano d’occhio avrebbero intercettato la telefonata. Pensò allora di usare un telefono pubblico alla stazione di servizio più vicina, ma la polizia avrebbe previsto anche una mossa del genere. Quando vide l’insegna dell’autogrill, si ricordò di avere notato una lunga fila di telefoni l’ultima volta che si era fermata. Avrebbe potuto chiamare da lì, se fosse stata abbastanza veloce non l’avrebbero vista e non avrebbero quindi saputo da quale telefono aveva chiamato.

E se invece fosse stato un errore?

Passò velocemente in rassegna le varie possibilità. Se effettivamente la stavano pedinando, andare in ufficio da Bacard sarebbe stata una pazzia: meglio aspettare e chiamarlo da casa. Ma potevano averle messo il telefono sotto controllo e quindi chiamare da uno dei tanti telefoni dell’autogrill le apparve la soluzione meno rischiosa.

Prese un tovagliolino di carta e se ne servì per non lasciare impronte digitali sulla cornetta. E fece attenzione a non pulire le impronte già esistenti: perché semplificare loro il lavoro?

«Pronto?» rispose Steven Bacard.

Provò un tuffo al cuore nel sentire l’evidente tensione nella voce di lui. «Dov’è Pavel?» gli chiese.

«Denise?»

«Sì.»

«Perché me lo chiedi?»

«Ho appena visitato la sua ragazza, c’è qualcosa che non va.»

«Oh Dio» gemette Bacard. «Che cos’è successo?»

«La ragazza ha telefonato al numero che le avevamo dato per le emergenze, dicendo che perdeva sangue. Ma credo che stesse mentendo.»

Silenzio.

«Steven?»

«Vai a casa, non parlare con nessuno.»

«Okay.» Denise vide fermarsi la Camaro bianca e si rabbuiò: le sembrò di averla vista poco prima.

«Tieni in casa un archivio?» le chiese Bacard.

«No, naturalmente.»

«Sicura?»

«Sicurissima.»

«Okay, bene.»

Dalla Camaro stava scendendo una donna e, anche da quella distanza, si notava che aveva un orecchio fasciato.

«Vai a casa» le disse Bacard.

Prima che la donna potesse voltarsi, Denise riagganciò e s’infilò nella toilette.


Da ragazzo Steven Bacard andava matto per la vecchia serie televisiva di Batman. Ogni episodio, ricordava, aveva inizio più o meno allo stesso modo. Veniva commesso un gravissimo reato, gli agenti informavano immediatamente l’assessore Gordon e il capo della polizia O’Hara e quei due pagliacci assumevano un’espressione cupa. Poi esaminavano insieme la situazione, per rendersi conto che esisteva soltanto una soluzione. A quel punto l’assessore Gordon sollevava la cornetta del Bat-telefono rosso, Batman rispondeva, prometteva loro di risolvere il caso e infine si voltava verso Robin e gli diceva: “Alla Bat-mobile!”.

Rimase a guardare il telefono avvertendo una sgradevole sensazione nello stomaco. Non era un eroe quello che si accingeva a chiamare, anzi esattamente il contrario. Ma alla fine ciò che contava era sopravvivere, le belle parole e le giustificazioni andavano bene in tempo di pace. In tempo di guerra, nei casi di vita o di morte, era più semplice: noi o loro. Sollevò la cornetta e compose il numero.

Lydia rispose con la consueta dolcezza. «Salve, Steven.»

«Ho ancora bisogno di voi.»

«Sei nei guai?»

«Guai seri.»

«Arriviamo.»

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