E adesso che cosa faccio?
Avevo telefonato a Rachel per informarla che Steven Bacard era stato assassinato, e ora quell’uomo la teneva in ostaggio. Quale avrebbe dovuto essere la mia prossima mossa? Cercai di riflettere, di analizzare attentamente la situazione, ma non avevo abbastanza tempo. Quell’uomo al telefono aveva detto giusto, in precedenza avevo fatto il furbo. Alla prima consegna del riscatto avevo avvertito la polizia e l’FBI, alla seconda mi ero fatto aiutare da un’ex agente federale. Mi ero rimproverato più volte per il fallimento della prima consegna, ma adesso non più. Tutt’e due le volte avevo rischiato, ma ora mi rendo conto che l’esito di quel gioco era stato stabilito in partenza. Non avevano mai avuto l’intenzione di restituirmi la mia bambina, né diciotto mesi fa né la scorsa notte.
E nemmeno ora.
Forse stavo cercando da tempo una risposta che invece conoscevo fin dall’inizio. Verne aveva capito il mio dilemma. Ricordo ancora quel suo monito: “Ma non bisogna prendersi in giro”. E invece mi ero veramente preso in giro. Anche ora che stavamo smascherando un turpe traffico di bambini indulgevo alla speranza. Forse, mi dicevo, mia figlia è viva, forse anche lei è stata data in adozione. Un pensiero orribile, certo, ma non quanto l’unica altra ipotesi possibile: cioè che Tara fosse morta.
Non sapevo più che cosa pensare.
Guardai l’ora, erano passati venti minuti. Mi chiesi come giocarmela, ma c’erano della priorità da rispettare. Chiamai Lenny in studio al suo numero diretto.
«A East Rutherford è appena stato ucciso un certo Steven Bacard» dissi.
«Bacard l’avvocato?»
«Lo conosci?»
«Ci siamo incontrati nel corso di un processo qualche anno fa.» Poi una pausa. «Maledizione!»
«Che c’è?»
«Prima mi hai fatto una domanda su Stacy e le adozioni, e non capivo il nesso. Ma ora che sento il nome Bacard… Stacy mi chiese informazioni su di lui tre o quattro anni fa.»
«Che tipo di informazioni?»
«Non ricordo più, qualcosa sulla maternità.»
«Che significa?»
«Non lo so, non le diedi molta importanza. Le raccomandai di non firmare nulla prima di essersi consigliata con me. Come fai a sapere che è stato assassinato?»
«Ho appena visto il suo cadavere.»
«Accidenti, non dire altro, magari qualcuno ci sta ascoltando.»
«Ho bisogno del tuo aiuto. Chiama la polizia e fai mettere sotto sequestro l’archivio di Bacard, aveva messo in piedi una rete di adozioni illegali e forse ha avuto a che fare con il rapimento di Tara.»
«Avuto a che fare come?»
«Non ho il tempo di spiegartelo.»
«D’accordo, chiamo subito Tickner e Regan. Regan ti sta cercando per mare e per terra, sai.»
«L’immaginavo.»
Riattaccai prima che potesse farmi altre domande. Non sapevo bene nemmeno io che cosa speravo la polizia potesse trovare nell’archivio di Bacard, non volevo credere che la verità sulla sorte di Tara fosse sepolta in un dossier di uno studio legale. Ma non potevo escluderlo. Quindi se adesso le cose per me si fossero messe male, e c’erano serie possibilità che così fosse, volevo che qualcuno andasse a fondo in quella storia.
Ero arrivato a Ridgewood e non avevo creduto nemmeno per un attimo alle parole del tipo al telefono. Quella non era gente disposta a scambiare informazioni, aveva il compito di fare piazza pulita: io e Rachel sapevamo troppo e così mi stavano attirando in quella casa per ucciderci entrambi.
Che fare, allora?
Avevo pochissimo tempo. Se avessi cercato di guadagnarne un altro po’, se avessi impiegato più di mezz’ora per arrivare, il tipo al telefono avrebbe cominciato ad agitarsi. E non potevo permettermelo. Ripresi in considerazione l’idea di chiamare la polizia, ma poi ricordai il suo consiglio di “non fare il furbo” e ancora una volta temetti che potessero avere un informatore. Avevo una pistola, sapevo usarla e anche bene: ma al poligono. Sparare a qualcuno sarebbe stato diverso, immaginavo. O forse no. Non mi facevo più molti scrupoli al pensiero di uccidere quella gente, e forse non me ne ero mai fatti.
Parcheggiai un isolato prima di quello di Denise Vanech, presi la pistola e m’incamminai.
Lui la chiamava Lydia, lei lo chiamava Heshy.
La donna era arrivata cinque minuti prima, era piccolina e carina con quegli occhi da bambola spalancati per l’emozione. Stava in piedi davanti al cadavere di Denise Vanech e osservava il sangue che ancora sgorgava. Rachel sedeva immobile, le avevano legato le mani dietro la schiena con del nastro adesivo da pacchi. Lydia si voltò verso di lei.
«Sarà un bel problema far sparire quella macchia.»
Rachel la guardò e quella sorrise.
«Non lo trovi divertente?»
«Sì. Non lo do a vedere, ma dentro di me mi sto sbellicando dalle risate.»
«Oggi sei andata da una ragazza, una certa Tatiana. Vero?»
Rachel non rispose. L’omone di nome Heshy cominciò ad abbassare le tendine avvolgibili.
«È morta, pensavo che t’interessasse saperlo.» Lydia andò a sedersi accanto a Rachel. «Ti ricordi Family Laughs, quella serie televisiva?»
Rachel si chiese come comportarsi: quella Lydia era visibilmente fuori di testa. «Sì» rispose esitante.
«Ti piaceva molto?»
«L’ho sempre trovata terribilmente infantile.»
Lydia rise buttando indietro la testa. «Io facevo la parte di Trixie» annunciò sorridendo a Rachel.
«Ne sarai sicuramente orgogliosa.»
«Ah certo, certo.» Lydia si abbassò avvicinando il viso a quello di Rachel. «Sai, naturalmente, che stai per morire.»
Lei non batté ciglio. «Perché allora non mi racconti che fine hai fatto fare a Tara Seidman?»
«Ti prego.» Lydia si alzò. «Ero un’attrice, ti ricordo, lavoravo in televisione. Questo quindi, secondo te, sarebbe il momento in cui il colpevole racconta tutto a beneficio del pubblico e del protagonista, che sta a sentire pronto a intervenire? Mi dispiace, tesoruccio.» Si rivolse a Heshy. «Imbavagliala, orsacchiotto.»
Lui mise il nastro adesivo sulla bocca di Rachel, fermandoglielo dietro la testa, poi tornò accanto alla finestra. Lydia si avvicinò all’orecchio di Rachel, che si sentì il fiato della donna addosso.
«Questo te lo voglio proprio dire perché è buffo» le sussurrò, chinandosi ancora un po’. «Non ho idea di che cosa sia successo a Tara Seidman.»
Certo, non sarei andato a bussare alla porta.
Era chiaro che quelli volevano farci fuori e quindi non avevo alternativa, dovevo coglierli di sorpresa. Non conoscevo la pianta della casa, ma avrei sicuramente trovato una finestra laterale dalla quale tentare di introdurmi. Ero armato ed ero convinto che non avrei avuto esitazioni a sparare. Avrei tanto voluto escogitare un piano migliore, ma anche avendo più tempo a disposizione probabilmente non l’avrei trovato.
Zia aveva a suo tempo parlato del mio “ego da chirurgo’’ e ammetto che la cosa mi spaventava. In quel momento ero sicuro di farcela perché ero intelligente, sapevo essere prudente. Avrei quindi cercato una soluzione e, se non ci fossi riuscito, avrei proposto uno scambio: me al posto di Rachel. Non mi sarei fatto infinocchiare con l’argomento Tara. Certo, volevo credere che fosse ancora viva, volevo credere che quelli sapessero dove si trovava. Ma non avrei più messo in pericolo la vita di Rachel per un sogno: la mia sì, ma non quella di Rachel.
Mi avvicinai alla casa di Denise Vanech, cercando di mettermi al riparo dietro gli alberi e al tempo stesso di non farmi notare. E non sarebbe stato facile, perché in una zona residenziale come quella la gente non si muove furtivamente. Mi immaginavo già qualcuno dietro le veneziane che seguiva i miei movimenti, con il dito sul telefono per chiamare il Pronto intervento. Ma la cosa non mi preoccupava, perché in ogni caso tutto sarebbe avvenuto prima dell’arrivo della polizia.
Quando squillò il mio cellulare, ebbi un soprassalto. Mi trovavo ormai a tre case di distanza e imprecai sottovoce: il furbone, il prudente, aveva dimenticato di togliere la suoneria e lasciare solo la vibrazione. Mi resi conto con assoluta certezza di quanto fossi una schiappa fuori dal mio elemento. E se il telefono avesse squillato mentre stavo entrando in casa?
Mi chinai dietro un cespuglio e risposi.
«Hai tanto da imparare se vuoi giocare a nascondino» sussurrò Verme. «Fai proprio schifo da questo punto di vista.»
«Dove sei?»
«Dai un’occhiata alla finestra del secondo piano, l’ultima.»
Sollevai lo sguardo e dalla finestra Verne mi fece un gesto di saluto con la mano.
«La porta sul retro non era chiusa a chiave e sono entrato» bisbigliò.
«Che sta succedendo lì dentro?»
«C’è stato un omicidio. Li ho sentiti dire che hanno ucciso quella ragazza del motel, poi hanno fatto fuori Denise. Il suo cadavere è sul pavimento, a meno di un metro da Rachel.»
Chiusi gli occhi.
«È una trappola, Marc.»
«Lo immaginavo.»
«Sono in due, un uomo e una donna. Ora fai quello che ti dico, risali in macchina e parcheggia davanti alla casa, sarai abbastanza distante perché quelli possano colpirti. Rimani lì, senza avvicinarti. Voglio solo che tu attiri la loro attenzione, capito?»
«Sì.»
«Cercherò di non ammazzarli tutt’e due, ma non posso promettertelo.»
Riattaccò. Tornai velocemente all’auto e feci come mi aveva detto, con il cuore che mi batteva all’impazzata. Ma ora avevo qualche speranza, ora c’era Verne, era in casa, armato. Mi fermai di fronte alla casa di Denise, le tende e le veneziane erano abbassate. Feci un respiro profondo, aprii lo sportello e scesi.
Silenzio.
Mi aspettavo di udire degli spari, ma il primo rumore che sentii fu un altro, quello di una vetrata che andava in frantumi. E poi vidi Rachel cadere dalla finestra.
«La sua auto si è appena fermata qui di fronte» disse Heshy.
Rachel aveva ancora le mani legate dietro la schiena e la bocca coperta dal nastro adesivo. Sapeva che ormai era arrivata la fine, Marc avrebbe bussato alla porta e quelle due imitazioni di Bonnie e Clyde l’avrebbero fatto entrare per poi sparargli e fare fuori anche lei.
Tatiana era già morta. Denise pure. Heshy e Lydia non potevano quindi permettersi di lasciare vivi loro due. Rachel aveva sperato che Marc l’avesse capito e fosse andato alla polizia, aveva sperato che non sarebbe nemmeno venuto: ma quell’eventualità lui naturalmente non l’aveva nemmeno considerata. E adesso era lì. Con molta probabilità avrebbe compiuto qualche gesto temerario oppure era ancora talmente accecato dalla speranza che sarebbe caduto nella trappola.
In ogni caso lei doveva fermarlo.
L’unica speranza era quella di coglierli di sorpresa. E anche in tal caso, se tutto fosse andato come doveva, lei avrebbe potuto al massimo sperare di salvare Marc. Riguardo a se stessa c’era poco da farsi illusioni.
Era ora di muoversi.
Non si erano preoccupati di legarle i piedi, imbavagliata e con le mani legate dietro la schiena che cosa poteva mai fare? Lanciarsi contro di loro sarebbe equivalso a suicidarsi: un bersaglio così non l’avrebbero certo mancato.
E proprio su questo lei faceva affidamento.
Si alzò in piedi, Lydia le puntò subito contro la pistola. «Siediti.»
Lei non le obbedì e Lydia si trovò spiazzata. Se le avesse sparato Marc avrebbe sentito la detonazione e si sarebbe reso conto che qualcosa non andava. Ma Rachel capì che l’indecisione della donna sarebbe durata poco e allora le venne un’idea abbastanza idiota. Si mise a correre. Lydia avrebbe dovuto spararle o inseguirla, oppure…
La vetrata.
Lydia capì ciò che Rachel aveva in mente, ma non riuscì a fermarla. Rachel chinò il capo come un ariete e si tuffò contro la vetrata, Lydia sollevò la pistola per fare fuoco e Rachel si irrigidì prima dell’impatto con il vetro. Sapeva che sarebbe stato doloroso. Volò attraverso la vetrata, che andò in frantumi con sorprendente facilità, ma ciò che l’ex agente federale non aveva calcolato era la distanza dal suolo. E con le mani legate dietro la schiena non poteva attutire la caduta.
Si voltò e assorbì l’impatto sulla spalla, poi udì un rumore sordo e sentì un dolore acuto alla gamba, mentre un frammento di vetro le s’infilava in una coscia. Marc non poteva non avere udito quel fracasso, poco ma sicuro. E avrebbe potuto salvarsi. Ma, mentre rotolava su se stessa, Rachel fu colta dalla disperazione: in quel modo aveva attirato l’attenzione di Marc, che l’aveva vista cadere dalla finestra.
E adesso, incurante del pericolo, lui stava correndo verso di lei.
Verne era accovacciato sulla rampa di scale.
Stava per entrare in azione quando Rachel si era improvvisamente alzata in piedi. Ma era ammattita? Capì subito quanto fosse coraggiosa, quella donna. Dopo tutto non poteva sapere che lui se ne stava nascosto al piano di sopra e non poteva permettere che Marc cadesse nelle mani di quei due. Non era il tipo, Rachel.
«Siediti.»
Era la voce della donna, di quella specie di ragazzina di nome Lydia, che sollevò subito la pistola. Verne fu colto dal panico, non era ancora pronto ad agire, non aveva la giusta visuale per sparare. Ma Lydia non premette il grilletto e lui rimase a guardare sbalordito Rachel che si tuffava contro la vetrata.
Ottima manovra diversiva.
Verne si mosse. Aveva sentito infinite volte parlare del tempo che nei momenti più difficili si ferma, di quei brevi secondi in cui riesci a vedere tutto con la massima chiarezza. In realtà erano tutte stronzate. I fotogrammi di quelle scene sembra che si susseguano lenti soltanto quando ti passano per la mente mentre stai comodo e al sicuro. Ma nella concitazione del momento, come la volta in cui lui e tre commilitoni erano rimasti coinvolti in una sparatoria con alcuni soldati dei reparti d’élite di Saddam, il tempo subisce invece un’accelerazione. E lo stesso stava succedendo in quel momento.
Verne sbucò da dietro l’angolo. «Butta quella pistola!»
L’omaccione teneva l’arma puntata in direzione della vetrata dalla quale era caduta Rachel. Verne non poteva perdere tempo e sparò quindi due volte. Heshy crollò sul pavimento. Lydia urlò. Verne rotolò a terra e sparì dietro il divano. La donna urlò di nuovo.
«Heshy!»
Verne fece capolino, convinto che Lydia tenesse la pistola puntata contro il divano, ma si sbagliava. Lei lasciò l’arma e, sempre urlando, cadde in ginocchio e prese a cullare dolcemente la testa di Heshy.
«No! Non morire! Ti prego, Heshy, ti prego, non lasciarmi!»
Verne diede un calcio alla pistola di Lydia e le puntò contro la sua.
La voce della donna si era fatta più bassa, morbida, materna. «Ti prego, Heshy. Ti prego, non morire. Oh Dio, per favore, non mi lasciare.»
«Non ti lascerò mai» disse lui.
La donna guardò con occhi imploranti Verne, che non stette nemmeno a telefonare al Pronto intervento. Già si udivano infatti le sirene. Heshy afferrò la mano di Lydia. «Lo sai quello che devi fare» le ricordò.
«No» fece lei, questa volta con una vocina da bambina.
«Lydia, sapevamo che sarebbe arrivato questo momento.»
«Non morirai.»
Heshy chiuse gli occhi, il suo respiro si era fatto più affannoso.
«Il mondo penserà che eri un mostro» disse lei.
«A me interessa solo quello che pensi tu. Promettimelo, Lydia.»
«Guarirai.»
«Promettimelo.»
Lydia scosse il capo, mentre le lacrime le rigavano le guance. «Non posso.»
«Sì che puoi.» Heshy riuscì ad abbozzare un ultimo sorriso. «Sei una grande attrice, non dimenticarlo.»
«Ti amo.»
Ma gli occhi di lui si erano chiusi. Lydia continuò a singhiozzare, a implorarlo di non lasciarla. Le sirene si fecero più vicine. Verne arretrò di un passo. Quando gli agenti entrarono, si raccolsero in circolo attorno a lei. E Lydia all’improvviso sollevò il capo che teneva poggiato sul petto di Heshy.
«Dio ti ringrazio» disse, con il viso rigato di lacrime. «Il mio incubo finalmente è finito.»
Rachel fu portata d’urgenza all’ospedale, io avrei voluto seguirla, ma la polizia la pensava diversamente. Allora telefonai a Zia pregandola di prendersi cura di lei.
Fummo interrogati per ore. Sentirono Verne, Katarina e me, prima separatamente e poi tutti assieme. Sono convinto che credettero alle nostre parole. C’era anche Lenny, e dopo un bel po’ arrivarono Regan e Tickner che stavano passando in rassegna gli archivi di Bacard come gli aveva chiesto Lenny.
Fu Regan a parlarmi per primo. «Giornata faticosa, vero, Marc?»
Ero seduto di fronte a lui. «Le sembro nello stato d’animo per una chiacchierata, detective?»
«La donna si fa chiamare Lydia Davis, ma il suo vero nome è Larissa Dane.»
Feci una smorfia. «Perché questo nome non mi giunge nuovo?»
«Era stata un’attrice bambina.»
All’improvviso ricordai. «Trixie, di Family Laughs.»
«Proprio lei, o quanto meno così dice. Sostiene che quell’uomo, del quale sappiamo solo che si chiamava Heshy, la teneva prigioniera e la violentava. Dice che la costringeva a fare certe cose. Secondo il suo amico Verne è tutta una balla, ma la cosa per il momento non ha importanza. Sempre la Dane giura di non sapere niente della sua bambina.»
«Com’è possibile?»
«Dice che lei e quell’Heshy erano soltanto dei manovali, che Bacard aveva proposto a Heshy di chiedere il riscatto di una bambina che non avevano rapito. Un sacco di soldi e oltretutto quasi senza rischiare, dal momento che la bambina non l’avevano loro.»
«Dice anche che non c’entra con quello che è successo a casa mia un anno e mezzo fa?»
«Proprio così.»
Guardai Lenny e anche lui la pensava come me. «Ma avevano la mia pistola, quella con cui hanno ucciso il fratello di Katarina.»
«Sì, lo sappiamo. Secondo la donna era stato Bacard a darla a Heshy per incastrare lei, Marc. Heshy ha sparato a Pavel e poi ha lasciato lì la pistola per farci credere che eravate stati voi due.»
«E come hanno fatto a procurarsi i capelli di Tara per la richiesta di riscatto? E anche la tutina?»
«Secondo la Dane glieli aveva dati Bacard.»
Scossi il capo. «Quindi sarebbe stato Bacard a rapire Tara?»
«La donna dice di non saperlo.»
«E mia sorella? Che parte avrebbe avuto?»
«Ancora una volta la Dane dà la colpa a Bacard, che avrebbe fatto il nome di Stacy perché le si attribuisse tutta la colpa. Heshy ha dato i soldi a Stacy, dicendole di versarli in banca, e poi l’ha uccisa.»
Guardai Tickner, poi mi rivolsi di nuovo a Regan. «Non quadra, come spiegazione.»
«Ci stiamo ancora lavorando sopra.»
«Avrei una domanda» intervenne Lenny. «Perché dopo un anno e mezzo ci hanno riprovato?»
«La Dane sospetta che l’abbiano fatto solo per avidità, anche se non ne è sicura. Bacard avrebbe telefonato a Heshy chiedendogli se gli andava di guadagnare altri due milioni di dollari, e lui aveva accettato. Dai conti di Bacard risulta chiaramente che era in serie difficoltà, perciò probabilmente la Dane sta dicendo la verità: Bacard in sostanza ha voluto dare un altro morso alla mela.»
Mi passai una mano sul viso, le costole cominciavano a dolermi. «Avete trovato tra le carte di Bacard qualcosa sulle adozioni?»
Regan lanciò un’occhiata a Tickner. «Non ancora.»
«Com’è possibile?»
«Senta, abbiamo appena cominciato, ma le troveremo quelle carte. Controlleremo ogni adozione della quale si è occupato, specialmente quella di una bambina risalente a diciotto mesi fa. E se Bacard ha dato Tara in adozione lo scopriremo.»
Scossi nuovamente il capo.
«Che c’è, Marc?»
«C’è che è assurdo. Bacard aveva messo in piedi quel lucroso affare delle adozioni, che bisogno aveva di alzare la posta sparando a me e a Monica e portarsi via la bambina?»
«Non lo sappiamo» rispose Regan. «Siamo tutti consapevoli, immagino, che non conosciamo ancora i dettagli. Ma lo scenario più plausibile per il momento è quello che vede sua sorella Stacy e un complice sparare a lei e a sua moglie, rapire la bimba e consegnarla a Bacard.»
Chiusi gli occhi e richiamai di nuovo alla mente quella sequenza. Davvero Stacy aveva potuto fare una cosa del genere? Introdursi di nascosto in casa mia e spararmi? Non riuscivo ancora a crederci. Poi feci una considerazione.
Perché non avevo sentito andare in frantumi la finestra?
Meglio ancora, perché non avevo sentito niente subito prima che mi sparassero? Che so, rumore di vetri rotti, il campanello di casa, una porta che si apre? Perché non avevo sentito niente? Secondo Regan, perché ho subito uno shock, ma ora mi rendevo conto che non era quello il motivo.
«Il biscotto di cereali» dissi.
«Come?»
Mi voltai verso di lui. «Secondo la sua teoria io mi sarei dimenticato di qualcosa, giusto? Ma se Stacy e il complice avessero forzato una finestra o suonato il campanello l’avrei sentito. E invece no. Ricordo che stavo sgranocchiando quel biscotto di cereali e poi sono crollato a terra.»
«Giusto.»
«Ma il mio ricordo è preciso, avevo il biscotto in mano. Quando siete arrivati era sul pavimento: quanto ne avevo mangiato?»
«Un morso, forse due» rispose Tickner.
«Allora la teoria dell’amnesia non regge. Ero davanti al lavandino e mangiavo quel biscotto, questo me lo ricordo. È stata l’ultima cosa che ho fatto, poi mi avete trovato voi, e non c’è alcun vuoto di memoria. E poi, santo Iddio, se fosse stata mia sorella che bisogno avrebbe avuto di spogliare nuda Monica…?» Mi bloccai.
«Marc?» fece Lenny.
“L’amavi?”
Guardai fisso davanti a me.
“Lo sai chi ti ha sparato, vero, Marc?”
Dina Levinsky. Pensai a quelle sue misteriose attese davanti alla casa in cui era cresciuta. Pensai alle due pistole, una delle quali era la mia. Pensai al CD-ROM nascosto in cantina, nel punto in cui Dina mi aveva indirizzato. Pensai alle foto scattate davanti all’ospedale. Pensai a Edgar e a ciò che mi aveva rivelato, al fatto cioè che la figlia andava da uno psichiatra.
E poi cominciò a farsi strada un pensiero terribile, così terribile che effettivamente potevo averlo rimosso.