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Rachel suonò il campanello. Quello di casa Vanech aveva una di quelle suonerie pretenziose che raggiungono le tonalità acute per poi scendere a quelle basse. Il sole era ormai alto nel cielo azzurro e limpido. In strada due donne camminavano veloci stringendo tra le mani due piccoli manubri viola. Salutarono Rachel con un cenno del capo, senza saltare un passo. Lei ricambiò.

«Sì?» disse una voce al citofono.

«Denise Vanech?»

«Chi parla, prego?»

«Mi chiamo Rachel Mills, sono un’ex agente dell’FBI.»

«Un’ex, ha detto?»

«Sì.»

«Che cosa desidera?»

«Dobbiamo parlare, signora Vanech.»

«Di che cosa?»

Rachel sospirò. «Potrebbe aprire il portone, per favore?»

«No, fino a quando non mi dirà che cosa vuole.»

«Si tratta della ragazzina che lei ha appena visitato a Union City. Tanto per cominciare.»

«Mi dispiace, ma non parlo dei miei pazienti.»

«Per cominciare, ho detto.»

«E poi mi spiega che cosa c’entra in questa faccenda un’ex agente dell’FBI?»

«Preferisce che chiami un agente ancora in servizio?»

«Non m’interessa quello che vuole fare, signora Mills, e non ho altro da dirle. Se l’FBI ha da farmi delle domande può rivolgersi al mio avvocato.»

«Capisco. E il suo avvocato sarebbe Steven Bacard?»

Seguì un breve silenzio. Rachel si voltò a guardare l’auto.

«Signora Vanech?»

«Non sono tenuta a parlare con lei.»

«No, è vero. Vuol dire che comincerò a bussare a ogni porta e a parlare con i suoi vicini.»

«Per chiedergli cosa?»

«Se sanno nulla di un traffico di neonati di cui lei è uno degli artefici.»

La porta venne aperta di scatto e fecero capolino i capelli bianchi e l’abbronzatura di Denise Vanech. «La querelerò per diffamazione.»

«Calunnia» disse Rachel.

«Che cosa?»

«La diffamazione riguarda qualcosa di scritto, la calunnia ciò che viene detto. Calunnia, quindi. In ogni caso dovrà provare che quanto dico è falso ed entrambe sappiamo che invece è vero.»

«Non ha alcuna prova che io ho fatto qualcosa di male.»

«Certo che ce l’ho.»

«Ho visitato una donna che mi aveva detto di non sentirsi bene, tutto qui.»

Rachel le indicò l’auto dalla quale stava scendendo Katarina. «E che mi dice di questa sua ex paziente?»

Denise Vanech si portò una mano alla bocca.

«Testimonierà che ha ricevuto da lei dei soldi in cambio del bambino.»

«Non lo farà, se non vuole essere arrestata.»

«Ma certo, l’FBI preferirà prendersela con una povera donna serba invece di sgominare una banda di trafficanti di neonati. Mi sembra già di vederla, questa scena.»

Denise Vanech rimase in silenzio e Rachel aprì la porta. «Le dispiace se entro?»

«Guardi che si sbaglia» disse lei piano.

«Benissimo.» Rachel era ormai dentro. «Può sempre correggermi, allora.»

Denise Vanech sembrò all’improvviso incerta sul da farsi. Lanciò un altro sguardo a Katarina, poi richiuse lentamente la porta di casa. Rachel stava già entrando nello studio, un ambiente bianco, tutto bianco, con divani bianchi componibili sopra un tappeto bianco. Con statuette di porcellana bianche di donne nude a cavallo, un tavolo bianco, tavolini bianchi e due sedie bianche ergonomiche senza schienale. Denise la seguì, il suo completo bianco era quasi assorbito dallo sfondo, mimetizzato, e si aveva l’impressione che viso e braccia fossero sospesi nell’aria.

«Che cosa vuole?»

«Cerco una bambina in particolare.»

Denise spostò gli occhi verso la porta di casa. «La sua?» Si riferiva a Katarina.

«No.»

«Comunque non ha importanza, io non so a chi vengono dati i bambini.»

«Lei è un’ostetrica, vero?»

Denise incrociò sotto il petto le braccia lisce e muscolose. «Non ho intenzione di rispondere alle sue domande.»

«Vede, Denise, io so quasi tutto. Mi manca solo qualche tassello.» Rachel andò a sedersi su uno dei divani di vinile, ma la padrona di casa rimase in piedi. «Avete dei complici in una nazione straniera, forse più di una, non so, ma sicuramente in Serbia. Cominciamo da lì, allora. Avete gente che assolda le ragazze e le fa venire in America, ma loro alla dogana non dicono di essere incinte. Lei, Denise, fa nascere i bambini: forse qui, o da qualche altra parte, non lo so.»

«Sono tante le cose che non sa.»

Rachel sorrise. «Quello che so è abbastanza.»

Denise si portò le mani sui fianchi. Ogni sua mossa sembrava studiata, come se le avesse provate tutte davanti allo specchio.

«Le ragazze comunque mettono al mondo i loro bambini, lei le paga e poi consegna i neonati a Steven Bacard. All’avvocato si rivolgono coppie disperate, e quindi disposte a violare qualche legge, e lui le aiuta ad adottare un bambino.»

«Bella storia.»

«Secondo lei sono fantasie?»

Denise sorrise. «Dalla prima all’ultima.»

«Benissimo, splendido.» Rachel prese il cellulare. «Vuol dire che chiamerò i federali e presenterò loro Katarina, poi potranno andare a Union City a fare il terzo grado a Tatiana. Poi, Denise, controlleranno le sue bollette telefoniche, i suoi conti in banca…»

Lei agitò le braccia. «Va bene, va bene, mi dica che cosa vuole. Prima ha detto che non è più un’agente dell’FBI, vero? Si può sapere allora che cosa vuole?»

«Voglio sapere come funziona questa organizzazione.»

«Vuole guadagnarci qualcosa anche lei?»

«No.»

Denise fece una pausa. «Prima ha detto che cercava una certa bambina.»

«Sì.»

«Quindi lei lavora per qualcuno?»

Rachel scosse il capo. «Mi stia a sentire, Denise, non ha molte scelte. O mi dice la verità o passa un bel po’ di anni al fresco.»

«E se le dico quello che so?»

«In questo caso la tengo fuori.» Ma era una bugia, una grossolana bugia. Quella donna era coinvolta in un traffico di bambini e Rachel non poteva in alcun modo tenerla fuori.

Denise si sedette. Sembrava che la sua abbronzatura si fosse sbiadita, e lei d’improvviso sembrò invecchiata, le rughe attorno a occhi e bocca si erano fatte più profonde. «Non è come crede» cominciò.

Rachel attese.

«Non facciamo del male a nessuno, anzi, aiutiamo il prossimo.»

Denise Vanech prese la borsetta, bianca naturalmente, e ne estrasse una sigaretta. Poi ne offrì una a Rachel, che scosse il capo.

«Che cosa sa lei degli orfanotrofi dei paesi poveri?» le chiese Denise.

«Solo quello che vedo nei documentari.»

Denise accese la sigaretta e ne fece una lunga boccata. «Dire che sono terribili è poco. In alcuni ci sono quaranta bambini affidati a una sola infermiera, che spesso non è assolutamente all’altezza del suo compito e che ha ottenuto il posto grazie a raccomandazioni politiche. Alcuni bambini subiscono violenze, molti sono già tossicodipendenti alla nascita. L’assistenza medica…»

«Il quadro mi è chiaro. Ed è terribile.»

«Sì.»

«E allora?»

«E allora abbiamo trovato un sistema per salvare alcuni di quei bambini.»

Rachel incrociò le braccia, aveva capito dove quella voleva arrivare. «Quindi pagate delle ragazze incinte per venire qui, mettere al mondo i loro bambini e venderveli?»

«Questa è un’esagerazione.»

Rachel si strinse nelle spalle. «Perché, lei come descriverebbe ciò che fate?»

«Si metta nei loro panni. Immagini di essere una donna povera, ma povera davvero, magari una prostituta oppure una vittima della tratta delle bianche. Non ha niente di niente. Un uomo ti mette incinta e la scelta è tra abortire oppure, se la tua religione lo vieta, affidare tuo figlio a uno di quegli orfanotrofi dimenticati da Dio.»

«Oppure» aggiunse Rachel «se sei fortunata, finisci con l’avvocato Bacard e soci.»

«Sì. Noi diamo loro un’adeguata assistenza medica, offriamo un risarcimento in denaro. E, soprattutto, ci assicuriamo che il bambino vada a vivere in una bella casa e abbia genitori che gli vogliono bene oltre che in grado di garantirgli la stabilità finanziaria.»

«Stabilità finanziaria» ripeté Rachel. «Vorrebbe dire che i vostri clienti sono tutti ricchi?»

«Si tratta di un servizio costoso» ammise lei. «Ma ora vorrei chiederle una cosa, prendiamo per esempio quella sua amica qui fuori. Ha detto che si chiama Katarina?»

Rachel rimase zitta.

«Che vita farebbe ora se non l’avessimo portata in America? E che vita farebbe suo figlio?»

«Non lo so, non ho idea di che cosa abbiate fatto di suo figlio.»

Denise sorrise. «Bene, polemizzi pure. Ma ha capito benissimo che cosa voglio dire. Crede che il bambino si troverebbe meglio con una madre prostituta e povera, in un paese dilaniato dalla guerra? Oppure qui in America con una famiglia che gli vuole bene?»

«Capisco» disse Rachel, cercando di controllare la propria indignazione. «Voi quindi sareste una specie di campioni mondiali dell’assistenza sociale. È beneficenza, la vostra, mi pare di capire.»

Denise ridacchiò. «Si guardi intorno. Ho gusti costosi, abito in una zona di lusso, ho un figlio al college, vado in vacanza in Europa, ho una casa negli Hamptons. Quindi faccio questo lavoro perché è incredibilmente vantaggioso. E allora? A chi interessano le mie motivazioni? Non cambiano certo le condizioni di quegli orfanotrofi, le mie motivazioni.»

«Continuo a non capire» insistette Rachel. «Quelle ragazze vi vendono i loro bambini?»

«Ci danno i loro bambini» la corresse lei. «E noi diamo loro un risarcimento…»

«Sì, sì, ho capito. Voi vi prendete il bambino e loro i soldi. E poi? Il bambino deve essere accompagnato dalla documentazione necessaria, altrimenti interverrebbero le autorità e non permetterebbero certo a Bacard di gestire in questo modo le adozioni.»

«È vero.»

«Come fate, allora?»

Lei sorrise. «Vuole incastrarmi, vero?»

«Non lo so che cosa farò.»

Denise sorrideva ancora. «Si ricorderà che ho collaborato, vero?»

«Sì.»

Denise Vanech congiunse le mani e chiuse gli occhi, come se stesse pregando. «Ci serviamo di madri americane.»

Rachel fece una smorfia. «Come dice?»

«Per esempio, poniamo che Tatiana stia per avere un bambino. Noi ci rivolgeremmo a lei, Rachel, perché sostenga che il bambino è suo. Per fare questo lei dovrà andare nove mesi prima o giù di lì all’ufficio anagrafe della sua città, comunicare che è incinta e che vuole far nascere il bambino in casa e pertanto di non aspettarsi certificati dall’ospedale. Le daranno dei moduli da compilare e nessuno si sognerà di controllare se lei è veramente incinta. Come potrebbero, d’altronde? Non le possono mica fare una visita ginecologica.»

«Gesù!»

«È piuttosto semplice, se ci pensa. Non esiste alcuna prova scritta che Tatiana sta per avere un bambino, perché alla dogana non l’ha dichiarato, ma esiste la prova scritta che lei è incinta, Rachel. Io faccio nascere il bambino di Tatiana e attesto per iscritto che il figlio è stato messo al mondo da Rachel Mills, che diventa quindi a tutti gli effetti la madre. Bacard poi le fa riempire i moduli per l’adozione…» Si strinse nelle spalle.

«I genitori adottivi non sapranno quindi mai la verità.»

«No, ma non cercano nemmeno di scoprirla. Sono disperati, non vogliono sapere niente.»

Rachel si sentì all’improvviso come svuotata.

«E comunque prima di denunciarci consideri un altro particolare» proseguì Denise. «Svolgiamo quest’attività ormai da quasi dieci anni, il che significa che ci sono bambini, decine di bambini, che durante questi anni sono stati felicemente sistemati presso famiglie americane. Le loro adozioni verrebbero considerate nulle, le madri naturali potrebbero volere indietro i loro figli. O farsi pagare nuovamente. Rovinereste un mucchio di esistenze, insomma.»

Rachel scosse il capo. Ci avrebbe pensato più avanti a quelle conseguenze, non ora. Stava per uscire dalla carreggiata e invece non doveva perdere di vista la meta. Si voltò, raddrizzò le spalle e fissò Denise.

«Che cosa c’entra in questa faccenda Tara Seidman?»

«Chi?»

«Tara Seidman.»

Questa volta fu Denise a mostrarsi confusa. «Aspetti un momento, non era quella neonata rapita a Kasselton?»

Il cellulare di Rachel squillò e sul display apparve il numero di Marc. Stava per premere il tasto verde di risposta quando vide comparire un uomo e il respiro le si bloccò in gola. Denise se ne accorse, si voltò e vedendolo trasalì.

Era l’uomo del parco.

Aveva mani così grosse che la pistola che teneva puntata contro Rachel sembrava un gingillo. Le fece un segno con le dita. «Dammi quel telefono.»

Lei glielo porse, cercando in tutti i modi di evitare il contatto. L’uomo allora le mise la pistola alla tempia. «Dammi la tua pistola.»

Rachel infilò la mano nella borsetta e lui le ordinò di tirare fuori la pistola tenendola con due dita. Rachel obbedì, e intanto il telefono continuava a squillare.

L’omone premette il tasto di risposta. «Dottor Seidman?»

Anche Rachel riuscì a sentire la risposta. «Chi parla?»

«Ora siamo a casa di Denise Vanech. Se verrà qui solo e disarmato, le dirò tutto su sua figlia.»

«Dov’è Rachel?»

«È qui con me. Le do trenta minuti, dottore, e le dirò tutto ciò che deve sapere. In queste situazioni lei cerca sempre di fare il furbo. Non lo faccia, questa volta, altrimenti la sua amica Mills sarà la prima a morire. Capito bene?»

«Capito.»

L’uomo chiuse la comunicazione e abbassò lo sguardo su Rachel. Aveva occhi nocciola con una sfumatura dorata. Sembravano quasi dolci, come gli occhi di un cerbiatto. Poi l’omone spostò lo sguardo su Denise Vanech, che si ritrasse. E le sorrise.

Rachel capì che cosa stava per fare.

«No!» urlò, mentre l’omone puntava la pistola contro il petto di Denise ed esplodeva tre colpi, che andarono tutti a bersaglio. Denise si accasciò, scivolando dal divano sul tappeto. Rachel fece per alzarsi, ma la pistola adesso era puntata contro di lei.

«Non ti muovere.»

Obbedì. Denise Vanech era chiaramente morta. Aveva gli occhi spalancati e sul tappeto si stava allargando una pozza di sangue, formando un’incongrua macchia rossa in quel mare di bianco.

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