La mattina seguente, alle sei, uscii di casa. Percorsi un isolato e, usando una chiave che mi ero tenuto dai tempi del college, aprii una porta e scivolai dentro la casa dove avevo vissuto da bambino.
Gli anni non erano stati generosi con quell’abitazione ma, come dicevo, non era mai apparsa tanto per cominciare su “House and Garden” (al limite la sua foto avrebbe potuto far parte della serie “prima”). Quattro anni fa avevamo eliminato il vecchio tappeto ispido, la cui trama bianca e azzurra si era talmente stinta e logorata che in pratica si era eliminato da solo, e l’avevamo sostituito con uno liscio color grigio-ufficio in modo che mio padre si potesse muovere agevolmente con la sua sedia a rotelle. A parte questo, non era cambiato nulla. Sui due tavolini troppo laccati erano rimasti i ninnoli di porcellana Lladró, ricordo di un viaggio in Spagna di tanti anni prima. Dipinti a olio raffiguranti violini e frutta in puro stile Holiday Inn — nonostante nessuno di noi abbia doti musicali o “fruttifere” — adornavano ancora le pareti a pannelli bianchi.
Sulla mensola del caminetto c’erano delle foto e io mi fermavo sempre a guardare quelle di mia sorella Stacy. Non so che cosa cercassi. O forse sì. Cercavo tracce premonitrici. Cercavo qualche elemento dal quale si sarebbe dovuto intuire che quella donna giovane, fragile e disturbata un giorno avrebbe comprato in strada una pistola per spararmi e fare del male a mia figlia.
«Marc?» Era mia madre, e sapeva che cosa stavo facendo. «Vieni a darmi una mano?»
Andai nella camera da letto sul retro. Papà dormiva al piano terra, per evitare di doverlo portare su per le scale con la sedia a rotelle. Lo vestimmo, che era come vestire della sabbia bagnata. Mio padre dondola da una parte all’altra e dato il suo peso fa spesso movimenti improvvisi. Mamma e io ci siamo abituati, ma non per questo il nostro compito è più agevole.
Quando mamma mi salutò con un bacio, prima di andare al lavoro, sentii nel suo alito un misto di menta e di sigarette. Avevo insistito tante volte perché smettesse, lei prometteva sempre, ma sapevo che non avrebbe mai smesso di fumare. Mi accorsi di quanto si fosse rilasciata la pelle del suo collo, con le collane d’oro che si andavano quasi a infilare tra le pieghe. Si chinò a baciare mio padre sulla guancia e per qualche secondo non staccò le labbra.
«State attenti» ci disse. Ce lo diceva sempre, quando uscivamo insieme.
Il nostro viaggio ebbe inizio. Spingendo la carrozzella di papà passammo davanti alla stazione ferroviaria. La nostra è una cittadina di pendolari. I viaggiatori, soprattutto uomini ma anche diverse donne, erano in fila in attesa del treno con i loro lunghi cappotti, la borsa in una mano e il bicchierone di caffè nell’altra. Potrà sembrarvi strano, ma anche prima dell’ll settembre ai miei occhi quei pendolari erano degli eroi. Salivano su quel maledetto treno cinque giorni la settimana, cambiavano a Hoboken per prenderne uno della PATH con il quale giungevamo a New York. Alcuni scendevano nella Trentatreesima Strada e prendevano la metropolitana per midtown, altri invece si spostavano nella zona finanziaria, adesso che è stata riaperta. Facevano quel sacrificio ogni giorno, soffocando i propri desideri e le proprie esigenze per provvedere ai bisogni dei loro cari.
Io potrei dedicarmi alla chirurgia plastica estetica e guadagnare una barca di soldi. I miei genitori, di conseguenza, potrebbero permettersi un’assistenza migliore per papà, potrebbero trasferirsi in una zona più bella, prendersi un’infermiera a tempo pieno, andare a vivere in una casa più adatta alle loro esigenze. Ma non mi interessa quella branca della chirurgia plastica, non li aiuto prendendo la strada più battuta perché, francamente, un lavoro del genere mi annoierebbe. Quindi scelgo di fare qualcosa di più coinvolgente, qualcosa che amo fare. E questo basta agli altri per considerarmi una specie di eroe votato al sacrificio. Ma la verità è un’altra. Quelli che lavorano con i poveri sono di solito i più egoisti. Non vogliamo, cioè, sacrificare i nostri bisogni, fare un lavoro che ci consente di mantenere più che dignitosamente i nostri cari non ci basta, mantenere le persone che amiamo è secondario. Abbiamo bisogno di una soddisfazione personale, noi, anche se questo significa che le nostre famiglie certe cose non se le potranno permettere. Quei tipi in giacca e cravatta che vedo salire ancora intorpiditi dal sonno sul treno della NJ Transit? Spesso odiano il posto dove stanno andando e il loro lavoro, ma in ogni caso lo fanno. Lo fanno per provvedere alle loro famiglie, per offrire migliori condizioni di vita alle mogli, ai figli e forse, forse, anche ai genitori avanti negli anni e malati.
Chi è da ammirare, quindi? Loro o quelli come me?
Io e papà seguivamo ogni giovedì lo stesso itinerario. Prendevamo il sentiero che gira attorno al parco, dietro la biblioteca. Il parco era pieno di campi di calcio, tipico delle periferie residenziali. Quanti terreni di qualità erano destinati a questo sport straniero, cosiddetto di seconda scelta? Mio padre sembrava gradire quell’atmosfera, sentire e vedere quei ragazzini che giocavano. Ci fermammo per fare respiri profondi. Guardai alla mia sinistra: diverse donne, evidentemente ricche, facevano jogging fasciate in tute aderentissime di lycra. Papà sembrava concentrato e la cosa mi fece sorridere. Forse la predilezione di papà per questo parco non aveva nulla a che vedere con il calcio.
Non ricordo più che aspetto avesse una volta mio padre. Quando tento di spingermi così indietro con il pensiero, i miei ricordi diventano delle semplici istantanee, dei flash, la risata profonda di un uomo, un bambino aggrappato al suo braccio che dondola sollevato dal suolo. Non molto di più. Ricordo che l’amavo moltissimo e tanto basta, direi.
Dopo il suo secondo ictus, sedici anni fa, papà cominciò ad avere problemi a parlare. Si bloccava a metà frase, si mangiava le parole. Rimaneva in silenzio per ore e a volte per giorni. Ci si dimenticava della sua esistenza. Nessuno aveva la certezza che lui capisse davvero, se la sua fosse una classica “afasia espressiva” — chi ne è affetto capisce ma non riesce a comunicare — o qualcosa di ben più inquietante.
Ma in una calda giornata di giugno, quando ero all’ultimo anno delle superiori, mio padre all’improvviso allungò un braccio e mi afferrò una manica stringendola con la forza dell’artiglio di un’aquila. Stavo andando a una festa e Lenny mi aspettava alla porta. La sorprendente forza di mio padre mi bloccò, abbassai lo sguardo su di lui. Aveva il viso esangue, i tendini del collo tesi: ma soprattutto ciò che lessi in lui fu paura allo stato puro. Il suo sguardo perseguitò per anni il mio sonno. Mi sedetti sulla sedia accanto a lui, che non mi aveva lasciato il braccio.
«Papà?»
«Io capisco» mi disse in tono implorante. La stretta sul braccio aumentò. «Per favore.» Ogni parola era una lotta. «Capisco ancora.»
Fu tutto ciò che disse, ma bastò. Secondo me aveva voluto dire “Anche se non so parlare o rispondere, capisco ugualmente. Per favore, non tagliatemi fuori”. Per un po’ i medici furono concordi: il suo era un caso di afasia espressiva. Poi ebbe un altro ictus e i medici furono meno certi su cosa lui capisse e cosa no. Forse il mio ragionamento è una versione personale della “scommessa” di Pascal, e cioè: “Se lui mi capisce allora dovrei parlargli, in caso contrario che male c’è a parlargli?”: ma sento di doverglielo, a mio padre. E così gli parlo, gli dico tutto. E in quel momento gli stavo parlando della visita di Dina Levinsky (“Te la ricordi Dina?”) e del CD nascosto.
Il viso di papà era immobile, con l’angolo sinistro della bocca all’ingiù a formare una piega amara. Spesso vorrei che lui e io non avessimo avuto quella conversazione dell’“Io capisco”. Non so se sia peggio non capire nulla o rendersi conto di essere in trappola. O forse lo so.
Stavo facendo il secondo giro, quello che passa accanto alla nuova pista di skateboard, quando vidi mio suocero. Edgar Portman se ne stava seduto su una panchina ed era elegante come al solito, aveva le gambe accavallate e la piega dei pantaloni era talmente “affilata” che ci si sarebbero potuti affettare i pomodori. Dopo il fattaccio io ed Edgar cercavamo di tenere in piedi un rapporto che in effetti non era mai esistito quando sua figlia era ancora viva. Ci eravamo rivolti assieme a un’agenzia investigativa, Edgar naturalmente conosceva la migliore sulla piazza, ma non avevano cavato un ragno dal buco. Dopo un po’ ci eravamo entrambi stancati di fingere, l’unico legame che ci univa era quello che evocava il più brutto momento della mia vita.
Edgar poteva trovarsi là per pura coincidenza, ovviamente. Viviamo nella stessa cittadina e sarebbe più che naturale ogni tanto imbattersi l’uno nell’altro. Ma non in quel caso, lo sapevo. Edgar non era il tipo da fare passeggiate in un giardino pubblico, era là per incontrare me.
I nostri sguardi s’incrociarono e ciò che vidi non mi piacque granché. Avvicinai la sedia a rotelle alla panchina ed Edgar tenne gli occhi fissi su di me ignorando completamente mio padre, per lui quello che stavo spingendo poteva benissimo essere un carrello del supermercato.
«Sua madre mi ha detto che sarebbe passato di qui.»
«Che c’è?» gli chiesi.
«Si sieda qui accanto.»
Fermai alla mia sinistra la sedia a rotelle e tirai il freno. Mio padre teneva gli occhi fissi nel vuoto e la testa inclinata a destra, come fa sempre quando è stanco. Mi voltai a guardare Edgar, che non aveva più le gambe accavallate.
«Mi stavo chiedendo come dirglielo» cominciò.
Fece una pausa, poi spostò lo sguardo.
«Edgar?» dissi.
«Sì?»
«Lo dica e basta.»
Sembrò apprezzare il mio tono brusco, lui era fatto così. «Mi è arrivata un’altra richiesta di riscatto» disse, saltando i preamboli.
Vacillai. Non so che cosa mi aspettassi di sentire, forse che avevano trovato Tara morta, ma quello che stava dicendo… Non riuscivo proprio a metabolizzarlo. Stavo per fargli una domanda quando mi accorsi che aveva in grembo una cartella di cuoio, che aprì tirandone fuori qualcosa. Era un sacchetto di plastica, come l’altra volta. Me lo porse e fu come se qualcosa mi si gonfiasse nel petto. Battei le palpebre e guardai il sacchetto.
Capelli. Conteneva dei capelli.
«È questa la prova che ci hanno dato» disse Edgar.
Non riuscivo a parlare. Guardai i capelli e lentamente mi posai in grembo il sacchetto.
«Hanno previsto che saremmo stati scettici» proseguì lui.
«Chi l’ha previsto?»
«I rapitori. Ci hanno concesso qualche giorno e ho fatto immediatamente analizzare quei capelli per identificare il DNA.»
Sollevai lo sguardo su di lui, poi lo riportai sui capelli.
«I risultati preliminari sono arrivati due ore fa. Non si possono utilizzare come prova in tribunale, ma sono ugualmente incontrovertibili. I capelli sono gli stessi che ci hanno mandato un anno e mezzo fa.» S’interruppe e deglutì. «Questi capelli sono di Tara.»
Udii le parole, ma non le compresi. E per qualche motivo scossi il capo in segno di diniego. «Forse li avevano messi da parte un anno e mezzo fa…»
«No. Le analisi si riferiscono anche all’età e questi capelli appartengono a un bambino di circa due anni.»
Probabilmente lo sapevo già. Quelli non erano i capelli sottili di un neonato di pochi mesi, Tara a due anni li avrebbe avuti più scuri e robusti… proprio come quelli.
Edgar mi porse un biglietto e, sempre con la testa annebbiata, lo presi. Il carattere in cui era stato scritto era lo stesso di quello del biglietto ricevuto diciotto mesi prima. Sulla riga in alto, proprio sopra la piegatura, si leggeva:
VOLETE UNA SECONDA OCCASIONE?
Provai una profonda fitta al petto e d’improvviso la voce di Edgar mi giunse da lontano. «Avrei dovuto dirglielo subito, probabilmente, ma mi era sembrato uno scherzo di cattivo gusto. Carson e io non volevamo farle nascere false speranze. Ho qualche amico, mi hanno fatto avere i risultati del DNA a tempo di record, confrontando questi capelli con quelli che avevamo ricevuto l’altra volta.» Mi appoggiò una mano sulla spalla. Rimasi immobile.
«È viva, Marc. Non so come o dove, ma Tara è viva.» Tenni gli occhi fissi sui capelli. Tara. Erano di Tara. Quella lucentezza, quella tonalità del frumento dorato. Li stropicciai attraverso la plastica, avrei voluto infilare le dita nel sacchetto, toccare mia figlia, ma temevo che mi sarebbe scoppiato il cuore.
«Vogliono altri due milioni di dollari. E ci consigliano di non avvertire la polizia, dicono di avere un informatore tra gli agenti. Hanno mandato un altro cellulare, in auto ho i soldi. Ci restano ancora ventiquattr’ore, forse, è questo il tempo che ci hanno lasciato per il test del DNA. Dovrà essere pronto.»
Lessi finalmente il messaggio, poi spostai lo sguardo su mio padre, immobile nella sua sedia a rotelle. Lui teneva sempre lo sguardo fisso davanti a sé.
«Lo so, lei pensa che io sia ricco» riprese Edgar. «E forse è così, ma non quanto crede. Ho fatto delle speculazioni e sono indebitato e quindi…»
Mi voltai verso di lui. Aveva gli occhi spalancati e gli tremavano le mani.
«Voglio dire che non ho poi moltissima liquidità, non sono pieno di soldi, insomma. Tutto qui.»
«Già mi sorprende che faccia ciò che sta facendo.»
Quelle parole lo ferirono, me ne accorsi subito. Avrei voluto scusarmi, ma per qualche motivo non lo feci. Spostai lo sguardo su papà, il suo viso era sempre come pietrificato ma, osservandolo attentamente, notai una lacrima sulla guancia. Non significava nulla, a volte gli sfuggiva qualche lacrima, di solito però senza alcun motivo evidente. Non detti quindi particolare importanza a quel fatto.
Poi però, non so perché, seguii il suo sguardo. E fissai con lui al di là del campo di calcio, delle porte, delle due donne con le scarpe da corsa Baby Joggers, fino alla strada a un centinaio di metri da noi. E provai una fitta allo stomaco vedendo sul marciapiedi un uomo con una camicia di flanella a scacchi, jeans neri e berretto degli Yankees che mi osservava tenendo le mani in tasca.
Non avevo la certezza che fosse lo stesso individuo della consegna del riscatto: le camicie di flanella a scacchi rossi e neri non sono un capo d’abbigliamento così insolito. Magari sarà stata la mia immaginazione, visto che mi trovavo piuttosto distante da lui, ma ebbi l’impressione che mi stesse sorridendo. Sentii una scossa percorrermi il corpo.
«Marc» disse Edgar.
Non lo udii quasi. Mi alzai senza perdere di vista quell’uomo, che sulle prime non si mosse. Allora mi misi a correre verso di lui.
«Marc?» Ma sapevo che non mi sbagliavo. Non avevo dimenticato, se chiudevo gli occhi continuavo a vederlo, la sua immagine non mi aveva mai lasciato. E desideravo che arrivasse quel momento. Lo sapevo, e sapevo anche quali conseguenze quel desiderio avrebbe potuto avere. Ma corsi puntando verso di lui, perché non potevo sbagliare: sapevo chi era.
Mi trovavo ancora a una certa distanza quando il tipo sollevò la mano e mi fece ciao. Continuai a correre, ma ero ben consapevole dell’inutilità di quella corsa. Ero a metà strada quando gli si accostò un furgone bianco, l’uomo con la camicia a scacchi mi fece il saluto militare e salì dal portellone posteriore.
Il furgone scomparve prima ancora che fossi arrivato alla strada.