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Lydia si guardò attorno. Era un po’ troppo allo scoperto per i suoi gusti, ma non poteva farci nulla. Si era messa una parrucca bionda ed era pettinata come la Vanech, o almeno secondo la descrizione che le aveva fatto Steven Bacard. Bussò alla porta del monolocale.

La tendina accanto alla porta si mosse. Lydia sorrise. «Tatiana?»

Nessuna risposta.

L’avevano avvertita che Tatiana non sapeva in pratica spiccicare nemmeno una parola. Lydia aveva elaborato una strategia d’azione, consapevole dell’importanza del fattore tempo. Bisogna sistemare tutto e tutti, e se una cosa del genere te la dice uno come Bacard che odia il sangue, allora devi trarne subito le debite conclusioni. Lydia ed Heshy si erano separati, lei era venuta a occuparsi di Tatiana e si sarebbero rivisti dopo.

«Non devi preoccuparti, Tatiana» le disse parlando da dietro la porta. «Sono venuta ad aiutarti.»

Non si sentì alcun rumore.

«Sono un’amica di Pavel» continuò. «Lo conosci Pavel, vero?»

La tendina si mosse e apparve per un momento un viso di ragazza, scavato e infantile. Lydia le fece un cenno con il capo, ma la ragazza tenne la porta chiusa. Lydia si guardò di nuovo attorno, nessuno l’aveva notata ma lei si sentiva ugualmente troppo esposta. Doveva sbrigarsi.

«Aspetta» disse alla ragazza. Poi, sempre fissando la tendina, infilò una mano nella borsetta e tirò fuori un foglietto di carta e una penna. Scrisse qualcosa, assicurandosi che se la ragazza fosse stata ancora dietro i vetri vedesse esattamente ciò che stava facendo. Poi richiuse la penna e si avvicinò al vetro, sollevando il foglietto di carta perché Tatiana potesse leggerlo.

Era come convincere un gatto spaventato a uscire da sotto il divano. Tatiana si avvicinò lentamente alla vetrata e Lydia rimase immobile per non innervosirla. Tatiana continuò ad avvicinarsi. Vieni, gattina, vieni qui. Lydia ora vedeva il viso di lei, con gli occhi semichiusi per leggere il biglietto.

Quando la ragazza fu abbastanza vicina, Lydia premette la canna della pistola contro il vetro mirandola alla fronte. All’ultimo momento Tatiana cercò di scansarsi, ma si spostò troppo poco e troppo tardi. La pallottola perforò il vetro e s’infilò nell’occhio destro. Uscì del sangue. Lydia premette di nuovo il grilletto, abbassando automaticamente la canna, e centrò la ragazza in fronte. Ma quella seconda pallottola era del tutto superflua: la prima, quella nell’occhio, le aveva spappolato il cervello, uccidendola sul colpo.

Lydia si allontanò in fretta guardandosi per un attimo alle spalle. Nessuno. Arrivata al vicino centro commerciale gettò in un cassonetto la parrucca e il soprabito bianco. Infine salì sulla sua auto parcheggiata a quasi un chilometro di distanza.


Telefonai a Rachel appena arrivato al MetroVista. Lei aveva parcheggiato in fondo alla strada dove abitava Denise Vanech. Eravamo pronti a entrare in azione.

Non sapevo bene che cosa mi aspettavo che succedesse. Mi vedevo irrompere nell’ufficio privato di Bacard, puntargli la pistola in faccia e chiedergli delle risposte. Ma ciò che non avevo previsto era di ritrovarmi in un ufficio modernissimo, con le sue brave reception e sale d’attesa. C’era già una coppia che stava aspettando, marito e moglie avrei detto. Il marito teneva il viso immerso in una copia di “Sports Illustrated” con la copertina plastificata, la moglie sembrava che stesse soffrendo: tentò di sorridermi, ma quello sforzo probabilmente aveva aumentato il suo dolore.

Mi resi conto che dovevo essere impresentabile. Avevo ancora indosso la divisa da chirurgo, non mi ero rasato, avevo gli occhi rossi per la notte in bianco e i capelli per aria come se invece fossi appena sceso dal letto.

La receptionist sedeva dietro un vetro scorrevole. Si chiamava Agnes Weiss, come si leggeva sulla targhetta, e mi rivolse un sorriso dolce.

«Posso esserle utile?»

«Devo vedere l’avvocato Bacard.»

«Ha un appuntamento?» Era una domanda per lei retorica, anche se il suo tono di voce era rimasto gentile. La risposta evidentemente la conosceva già.

«È un’emergenza.»

«Capisco. Lei è un nostro cliente, signor…?»

«Dottore» la corressi automaticamente. «Gli dica che il dottor Marc Seidman ha bisogno di vederlo immediatamente, che si tratta di un’emergenza.»

La giovane coppia ora ci stava osservando. E il dolce sorriso della receptionist non era più tanto dolce. «L’agenda dell’avvocato Bacard è già piena per oggi.» Aprì la rubrica degli appuntamenti. «Mi faccia vedere quando potrà riceverla, per favore.»

«Agnes, mi guardi.»

Mi guardò.

Le rivolsi un’espressione grave, della serie “se non si opera immediatamente potrebbe morire”. «Gli dica che c’è il dottor Seidman e che si tratta di un’emergenza. Gli dica anche che se non mi riceve subito andrò alla polizia.»

La giovane coppia si scambiò un’occhiata.

Agnes si mosse a disagio sulla poltroncina. «Se vuole sedersi…»

«Glielo dica.»

«Se non si allontana di qualche passo chiamerò la sicurezza, signore.»

Indietreggiai e mi fermai a una distanza che la receptionist potesse considerare di sicurezza. Lei richiuse il vetro scorrevole. «Lo sta coprendo» mi disse l’uomo in attesa.

«Jack!» esclamò la moglie.

Lui la ignorò. «Bacard è uscito di corsa mezz’ora fa e quella donna continua a ripeterci che tornerà subito.»

Notai una parete piena di fotografie e mi avvicinai a guardarle. In tutte c’era lo stesso uomo ritratto insieme a politicanti da strapazzo, celebrità di second’ordine, atleti caduti in disgrazia. Doveva essere Steven Bacard, conclusi. Lo guardai bene: era grassoccio, con il mento sfuggente e aveva la carnagione lucida.

Ringraziai Jack e corsi alla porta. L’ufficio di Bacard era al primo piano e decisi quindi di aspettarlo sul portone, in modo da poterlo sorprendere in campo neutro prima che Agnes avesse modo di avvertirlo. Trascorsero cinque minuti. Vidi passare diversi impiegati, spossati dalla loro esistenza fatta di toner per stampanti e di fermacarte, appesantiti da borse grosse come bagagliai di un’auto. Continuai a camminare su e giù.

Entrò un’altra coppia e dal loro passo incerto e dagli occhi stanchi capii che anche loro stavano andando da Bacard. Li guardai, chiedendomi che cosa li avesse indotti a prendere quella decisione. Li vidi sposarsi, tenersi per mano, baciarsi, fare l’amore la mattina. Li vidi fare carriera. Li vidi anche preoccuparsi davanti ai primi, inutili tentativi di concepire un figlio: “Aspettiamo il prossimo mese” dicevano a ogni test di gravidanza negativo, ma il tormento si faceva pian piano più forte. Passa un anno. E ancora nulla. Gli amici cominciano ad avere bambini e non parlano d’altro. I rispettivi genitori vogliono sapere quand’è che diventeranno nonni. Vedo marito e moglie andare da un medico, “uno specialista”, vedo le infinite analisi alle quali deve sottoporsi lei, l’umiliazione di masturbarsi dentro una provetta per lui, le domande intime, i campioni di sangue e di urina. Passano altri anni. Gli amici si sono in pratica allontanati. Fare l’amore adesso è praticamente finalizzato alla riproduzione, è un’attività programmata e velata di tristezza. Lui non le tiene più la mano. Lei a letto si gira dall’altra parte, a meno che non sia il periodo fecondo del ciclo. Vedo le medicine, l’inseminazione artificiale dai costi proibitivi, e poi un secondo tentativo, altri test di gravidanza, la delusione insopportabile.

E ora eccoli lì.

No, non sapevo se quello fosse veramente il caso loro, ma sentivo di esserci andato vicino. E mi chiesi fino a che punto si sarebbero spinti per lenire quel dolore, quanto sarebbero stati disposti a pagare.

«Oh mio Dio! Oh mio Dio!»

Mi girai di scatto verso il punto da cui proveniva quel grido. Un uomo entrò di corsa sbattendo la porta. «Chiamate il Pronto intervento!»

«Che succede?» gli chiesi.

Udii un altro grido e corsi fuori. Ancora un grido, questa volta più stridulo.

Guardai a destra: due donne stavano uscendo di corsa dal garage sotterraneo. Mi precipitai giù, superando la barriera davanti alla quale si prende il biglietto. Vi furono altre invocazioni di aiuto, altre affannose richieste del Pronto intervento.

Più avanti vidi un vigilante parlare dentro un walkie-talkie, poi allontanarsi di corsa. Lo seguii. Girato l’angolo, l’uomo si fermò accanto a una donna, che si teneva le mani in faccia e urlava. Li raggiunsi e guardai a terra.

Il cadavere era disteso tra due auto, con gli occhi sbarrati sul nulla. Il viso era ancora grassoccio, il mento sfuggente e la carnagione lucida. Da una ferita alla testa sgorgava del sangue. E il mio mondo tornò a vacillare.

Steven Bacard, forse la mia ultima speranza, era morto.

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