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Non c’era traffico e quindi arrivai al centro commerciale con notevole anticipo. Spensi il motore, mi sistemai contro lo schienale del sedile e mi guardai attorno. Immaginai che poliziotti e federali fossero appostati in zona, ma non riuscii a vederli. Una buona cosa, pensai.

E ora?

Non avevo idea. Aspettai ancora. Accesi la radio passando da una stazione all’altra, ma non c’era nulla che m’interessava. Premetti il pulsante delle cassette e dei CD. Quando Donald Fagan, degli Steely Dan, attaccò Black Cow sentii un leggero brivido. Non ascoltavo quella cassetta dai tempi del college, probabilmente. Come mai Monica ce l’aveva? E poi, con un nuovo brivido, realizzai che era stata Monica l’ultima a prendere l’auto e che quella era forse l’ultima canzone che aveva ascoltato.

Mi misi a guardare la gente che entrava nel centro commerciale, concentrando la mia attenzione sulle giovani mamme. Osservai il loro modo di sollevare il portellone posteriore dei minivan, il modo di aprire a mezz’aria i passeggini con un gesto secco come quello di un mago, il modo di contorcersi per sollevare i figli dal seggiolino di sicurezza, che mi ricordava quello di Buzz Aldrin sull’Apollo 11, il modo in cui si allontanavano premendo il telecomando che chiudeva lo sportello scorrevole del minivan.

Le mamme, tutte le mamme, sembravano così blasé. I loro bambini gli camminavano accanto. La sicurezza dei piccoli era scontata, grazie agli airbag laterali a cinque stelle e ai seggiolini modello Nasa. E io me ne stavo lì, con una borsa piena dei soldi di un riscatto, sperando di riprendermi la mia bambina. Quant’era sottile, quella linea. Avrei voluto abbassare il finestrino e lanciare un grido d’avvertimento.

Si avvicinava l’ora della consegna. Il sole batteva sul tergicristallo, feci per prendere gli occhiali da sole ma ci ripensai. Non so perché. Forse vedendomi con gli occhiali da sole il rapitore si sarebbe sentito a disagio? No, non credo. O forse sì. Meglio lasciarli dov’erano, non correre rischi.

Raddrizzai le spalle, continuando a guardarmi attorno senza però, per qualche strano motivo, darlo troppo a vedere. Ogni volta che qualcuno parcheggiava non lontano dalla mia auto o si avvicinava, mi si stringeva lo stomaco e mi chiedevo: “Tara è qui vicino?”.

Scoccarono le due ore esatte dalla telefonata e volevo che quella storia finisse. Nei prossimi minuti si sarebbe deciso tutto. Lo sapevo. Calmo. Dovevo restare calmo. Nel cervello mi rimbalzava l’avvertimento di Tickner: qualcuno avrebbe potuto avvicinarsi allo sportello e farmi saltare le cervella.

Mi resi conto che quella possibilità era tutt’altro che remota.

Quando il cellulare squillò, ebbi un soprassalto, poi portai il telefonino all’orecchio e dissi un affrettato «Pronto».

«Vai all’uscita ovest» disse la voce metallica.

Ero confuso. «Da che parte è l’uscita ovest?»

«Segui i cartelli della Route 4, poi prendi il cavalcavia. Ti teniamo d’occhio e se vedremo che qualcuno ti segue scompariremo. Tieni il cellulare contro l’orecchio.»

Obbedii immediatamente. Con la destra tenni il telefono premuto contro l’orecchio fin quasi a bloccare la circolazione del sangue, mentre con la sinistra stringevo il volante come se volessi strapparlo via.

«Prendi la Route 4 in direzione ovest.»

Imboccai la rampa a destra e, in derapata, entrai in autostrada. Poi controllai nel retrovisore per vedere se qualcuno mi stava seguendo. Difficile accorgersene.

«Vedrai una fila di negozi» disse ancora la voce metallica.

«Ce n’è un milione di negozi.»

«Guarda sulla destra; c’è un negozio di culle, di fronte all’uscita di Paramus Road.»

Lo vidi. «Okay.»

«Entraci. Vedrai un vialetto, percorrilo fin dietro l’edificio, spegni il motore e tieni i soldi pronti.»

Capii immediatamente perché avessero scelto quel posto. C’era solo un’entrata e i negozi erano tutti sfitti, a parte quello che vendeva culle, ma si trovava all’estremità opposta. In altre parole, era un posto isolato e accanto all’uscita di un’autostrada. Nessuno poteva arrivare da dietro e nemmeno avvicinarsi senza essere visto.

Sperai che anche i federali se ne fossero resi conto.

Quando arrivai dietro il palazzo, vidi un uomo in piedi accanto a un furgone. Indossava una camicia di flanella rossa e nera, jeans neri, occhiali scuri e un berretto da baseball degli Yankees. Cercai in lui qualcosa di insolito, ma mi venne in mente solo l’aggettivo “medio”. Altezza media, costituzione media. A parte il naso, che anche da lontano si notava che era ammaccato come quello di un ex pugile. Ma era proprio così, oppure si trattava di una specie di protesi per ingannarmi? Impossibile stabilirlo.

Guardai attentamente il furgone. Sulla fiancata c’era un’insegna: B T ELECTRICIANS di Ridgewood, New Jersey. Niente indirizzo o numero di telefono. La targa era del New Jersey, l’imparai a memoria.

L’uomo si portò alle labbra un cellulare in stile walkie-talkie e udii la solita voce metallica. «Sto per avvicinarmi. Passami i soldi dal finestrino, senza scendere dall’auto e senza dirmi nemmeno una parola. Quando saremo lontani con i soldi ti chiamerò per dirti dove potrai trovare tua figlia.»

L’uomo con la camicia di flanella e i jeans neri abbassò il telefono e si avvicinò. Portava la camicia fuori dai pantaloni: aveva una pistola? Non potevo saperlo. E anche se l’avesse avuta, a quel punto che cosa avrei potuto fare? Premetti il pulsante per abbassare i finestrini, che rimasero però immobili. Dovevo girare la chiave d’accensione. L’uomo si stava avvicinando. Il berretto degli Yankees aveva la visiera calata fin quasi a toccare gli occhiali scuri. Allungai la mano sulla chiave e la girai, le luci del cruscotto presero vita e il finestrino si abbassò.

Ancora una volta cercai qualche caratteristica particolare dello sconosciuto. Camminava barcollando quasi impercettibilmente, come se si fosse fatto un bicchierino o due, ma non sembrava nervoso. Aveva il viso non rasato che sembrava quasi macchiato e le mani sporche, i jeans neri avevano uno strappo all’altezza del ginocchio destro. Le scarpe da ginnastica, modello Converse alto di tela, non erano esattamente nuovissime.

Quando arrivò a due passi dalla mia auto sollevai la borsa all’altezza del finestrino e trattenni il fiato. Senza fermarsi, l’uomo la prese e fece dietro front tornando al furgone, ma questa volta a passo veloce. Le porte posteriori si aprirono, per richiudersi subito non appena lui saltò dentro. Sembrava che fosse stato inghiottito dal furgone.

L’autista premette sull’acceleratore, il furgone partì e mi accorsi solo allora che esisteva un’uscita su una laterale. Ma il furgone era già scomparso.

Ero solo.

Rimasi dov’ero, in attesa che squillasse il cellulare. Il cuore mi batteva all’impazzata, la camicia era zuppa di sudore. Non arrivava nessun’altra auto, la strada era dissestata, degli scatoloni di cartone erano sparpagliati attorno al cassonetto dell’immondizia, a terra si vedevano alcune bottiglie in frantumi. Tenevo gli occhi fissi al suolo, cercando di leggere le etichette sbiadite delle bottiglie di birra.

Passarono quindici minuti.

Continuavo a immaginarmi il momento in cui avrei rivisto mia figlia, pensavo a come l’avrei trovata, a come l’avrei tirata su e presa tra le braccia cullandola e sussurrandole qualcosa. Il cellulare. Il cellulare avrebbe dovuto squillare, era previsto nella scena che mi stavo immaginando. Il cellulare che squilla, la voce metallica che mi dà le indicazioni: erano queste le parti uno e due. Perché quel maledetto telefono si rifiutava di collaborare?

Vidi arrivare una Buick LeSabre, che si fermò a rispettosa distanza dalla mia auto. Non riconobbi il guidatore, ma quello sul sedile accanto era Tickner. I nostri sguardi s’incrociarono. Cercai di leggere qualcosa nella sua espressione, ma lui non aveva perso quella sua aria imperscrutabile.

Riportai allora lo sguardo sul cellulare, senza avere il coraggio di distoglierlo. Era tornato il ticchettio, questa volta lento e smorzato.

Passarono altri dieci minuti, poi il telefono emise di malavoglia il suo rumore metallico. Lo portai all’orecchio con una velocità superiore a quella del suono.

«Pronto?»

Nulla.

Tickner mi stava osservando attentamente. Mi fece un leggero cenno d’assenso con il capo, anche se non capivo che cosa volesse dirmi. L’uomo accanto a lui continuava a tenere le mani sul volante, a ore dieci.

«Pronto?» provai ancora.

«Te l’avevo detto di non avvertire la polizia» disse la voce metallica.

Mi si ghiacciò il sangue.

«Non avrai una seconda possibilità.»

E il telefono tacque.

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