Quando la prima pallottola mi colpì al petto, pensai a mia figlia.
Questo, almeno, è ciò che voglio credere. Svenni quasi subito e, se vi interessano i dettagli tecnici, non ricordo nemmeno il momento in cui mi hanno sparato. So che persi un mucchio di sangue. So che una seconda pallottola mi sfiorò la testa, anche se a quel punto ero probabilmente già svenuto. So che il mio cuore si fermò. Ma mi piace lo stesso credere che mentre agonizzavo a terra pensavo a Tara.
Per vostra informazione: non ho visto né una luce radiosa, né un tunnel. Oppure, se li ho visti, non me ne ricordo nemmeno.
Tara, la mia bambina, ha soltanto sei mesi. Era nella sua culla e chissà se i colpi di pistola l’hanno spaventata. Credo di sì. Probabilmente è scoppiata a piangere. E mi chiedo se il suo pianto, familiare quanto irritante, sia riuscito a penetrare la caligine che mi avvolgeva, ammesso che io l’abbia udito a qualche livello. Ma, ripeto, non me lo ricordo.
Quello che ricordo, comunque, è il momento in cui Tara è nata. Ricordo Monica, la mamma di Tara, che dava un’ultima spinta. Ricordo la sua piccola testa che compariva. Fui il primo a vedere mia figlia. Sappiamo tutti che sulla strada della vita si trovano dei bivi. Sappiamo tutti che aprendo una porta se ne chiude un’altra, conosciamo bene i cicli vitali, i cambi di stagione. Ma il momento in cui vi nasce un figlio… è qualcosa che va al di là del surreale. È come varcare una specie di portale di Star Trek, è un trasformatore in piena regola della realtà. È tutto diverso. Tu sei diverso, da elemento semplice che eri vieni colpito all’improvviso da un catalizzatore che ti trasforma in un elemento ben più complesso. Il tuo mondo non c’è più, si è ridotto alle dimensioni di un batuffolo di tre chili e duecento grammi: nel caso di mia figlia, voglio dire.
La paternità mi confonde. Sì, so bene che essendo nel ramo solo da sei mesi devo considerarmi un dilettante. Lenny, il mio migliore amico, ha quattro bambini, una femmina e tre maschi. Marianne è la più grande e ha dieci anni mentre il più piccolo dei tre fratelli ha appena compiuto un anno. Per rendermi conto che ancora non so nulla della paternità mi basta guardare l’espressione del viso di Lenny, quella di uno che è felice di vivere in tutto quel caos, oppure i tappetini del suo fuoristrada sempre incrostati di macchie di cibo. Ma quando mi sento davvero perso o spaventato dalla prospettiva di allevare un bambino, guardo quel fagottino indifeso nella culla, il fagottino guarda me e penso a che cosa non farei per proteggerlo. Per la mia bambina sarei pronto a sacrificare la mia vita in un secondo: e se devo dirla tutta, in caso di assoluta necessità sarei pronto a sacrificare anche la vostra di vita.
Così mi piace pensare che, mentre le due pallottole mi colpivano, mentre crollavo sul pavimento di linoleum della cucina stringendo in mano una barretta di müsli mangiata per metà, mentre giacevo immobile nella pozza del mio sangue che continuava ad allargarsi e perfino mentre il mio cuore cessava di battere, stavo comunque cercando di fare qualcosa per proteggere mia figlia.
Ripresi conoscenza nell’oscurità.
Dapprima non capii dove mi trovavo, finché non udii da destra un bip bip familiare. Non mi mossi, ma rimasi ad ascoltarlo. Mi sembrava di avere il cervello marinato nella melassa. Il primo impulso che provai fu quello primitivo della sete. Bramavo l’acqua. Non avrei mai immaginato che la gola potesse seccarsi a tal punto. Cercai di chiamare qualcuno, ma la lingua era come appiccicata in fondo alla bocca.
Una figura umana entrò nella stanza. Cercai di mettermi seduto nel letto, e un dolore cocente mi trafisse il collo come un coltello. La testa mi ricadde all’indietro. E, ancora una volta, piombai nelle tenebre.
Quando mi risvegliai, era giorno. Impietose lame di sole sciabolavano attraverso i listelli della veneziana. Battei le palpebre. Una parte di me avrebbe voluto sollevare una mano per bloccare i raggi, ma la spossatezza era tale che quel comando non riusciva a giungere al luogo preposto. E avevo ancora la gola insopportabilmente asciutta.
Udii un movimento e all’improvviso una donna si materializzò accanto al mio letto. Alzando lo sguardo mi accorsi che era un’infermiera. E la prospettiva, così diversa da quella cui ero abituato, mi sconcertò. Non c’eravamo proprio. Avrei dovuto essere io quello in piedi accanto al letto e qualcun altro dentro, non il contrario. Un cappellino bianco, di quelli a tricorno, stava piantato, simile a un nido d’uccello, sulla testa dell’infermiera. Ho lavorato buona parte della mia vita in ospedali di ogni tipo, ma credo di aver visto quel tipo di cappellino soltanto in televisione o al cinema. La donna era tarchiata e nera.
«Dottor Seidman?»
La sua voce faceva pensare allo sciroppo d’acero caldo. Riuscii ad annuire vagamente.
Doveva leggere nel pensiero, quell’infermiera, perché aveva in mano una tazza piena d’acqua. Mi infilò la cannuccia tra le labbra e io succhiai avidamente.
«Non così in fretta» mi disse con dolcezza.
Stavo per chiederle dove mi trovavo, ma sarebbe stata una domanda fin troppo ovvia. Aprii la bocca per domandare che cos’era successo, ma ancora una volta lei mi anticipò.
«Vado a chiamare il dottore» disse, avviandosi verso la porta. «Lei stia tranquillo.»
«La mia famiglia…» biascicai.
«Torno subito. Lei cerchi di non preoccuparsi.»
Mi guardai attorno. La mia vista era ancora avvolta nella caligine indotta dai medicinali, simile a una tenda da doccia, ma avevo sufficienti stimoli per trarre le dovute conclusioni. Mi trovavo in una tipica camera d’ospedale, era fin troppo ovvio. Alla mia sinistra era appesa una flebo, e la sua cannula terminava dentro il mio braccio. I tubi al neon ronzavano quasi impercettibilmente, ma non poi così tanto. Di fronte a me, nell’angolo a destra della stanza, spuntava un braccio metallico girevole sul quale era sistemato un piccolo televisore.
A un metro o poco più dal letto si apriva una grossa vetrata; socchiusi le palpebre ma non riuscii a vedere nulla. Probabilmente ero sotto monitoraggio, il che voleva dire che mi trovavo in Rianimazione: il che, a sua volta, voleva dire che avevo qualcosa di serio.
Mi prudeva la testa e sentii che i capelli mi tiravano. Bende, avrei giurato. Cercai di capire in quali condizioni mi trovassi ma il cervello non voleva proprio collaborare. Dentro di me rimbombava silenziosamente un dolore sordo, anche se non ne intuivo la provenienza. Mi sentivo le braccia e le gambe pesanti e il torace costretto dentro una gabbia di piombo.
«Dottor Seidman?»
Girai di scatto lo sguardo verso la porta, e vidi entrare una donnetta in divisa da sala operatoria completa di cuffia. La mascherina, allentata, le pendeva sul collo. Io ho trentaquattro anni, lei dimostrava la stessa età.
«Sono la dottoressa Heller» si presentò, avvicinandosi. «Ruth Heller.» Sicuramente mi aveva detto il cognome, oltre al nome, per pura cortesia professionale. Ruth Heller mi dette un’occhiata indagatrice. Io cercai di mettere a fuoco il suo sguardo. Il mio cervello era ancora inerte, ma sentivo che stava lentamente e faticosamente riprendendo vita. «Si trova al St Elizabeth Hospital» mi informò con un tono di voce debitamente serio.
La porta alle sue spalle si aprì per far entrare un uomo. Non riuscivo a distinguerlo bene, data la caligine da tenda-doccia di cui sopra, ma non mi sembrava di conoscerlo. L’uomo incrociò le braccia e si appoggiò alla parete con consumata disinvoltura. Non è un dottore, pensai. Li conoscevo, i dottori, lavoravo con loro da tanto tempo.
La dottoressa Heller gli lanciò una rapida occhiata, poi riportò l’attenzione su di me.
«Che cos’è successo?» le chiesi.
«Le hanno sparato» rispose. «Due volte» aggiunse.
Tacque per darmi il tempo di assorbire la notizia. Guardai l’uomo appoggiato al muro, non si era mosso. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma Ruth Heller proseguì. «Una pallottola le ha colpito di striscio la testa asportandole un lembo di pelle che, come lei saprà, in quella zona è incredibilmente ricca di vasi sanguigni.»
Sì, lo sapevo. Le ferite di una certa entità al cuoio capelluto sanguinano come se la vittima fosse stata decapitata. E questo, pensai, spiega il prurito al capo. Vidi Ruth Heller esitare e, in assenza di una spiegazione, glielo chiesi io. «E la seconda pallottola?»
Lei emise una specie di sospiro. «Questa è una storia un po’ più complicata.»
Attesi.
«La pallottola è penetrata nel torace perforando il sacco pericardico e provocando una forte emorragia. I paramedici non sono quasi riusciti a individuare i suoi parametri vitali, abbiamo dovuto spaccarle delle costole…»
«Dottore» intervenne l’uomo appoggiato alla parete, e per un attimo pensai che si fosse rivolto a me. Ruth Heller, visibilmente seccata, s’interruppe e quello si staccò dal muro. «Può rimandare a dopo i particolari? Non possiamo perdere tempo.»
Lei gli lanciò un’occhiataccia, ma di più non poté fare. «Rimarrò qui in osservazione, se per lei non è un problema» gli disse.
La dottoressa Heller si fece da parte e l’uomo si avvicinò guardandomi dall’alto. Aveva la testa troppo grossa rispetto alle spalle, al punto che per un attimo temetti che il collo potesse cedere sotto il suo peso. Aveva i capelli cortissimi, quasi rasati, fatta eccezione per la frangetta che gli ricadeva sulla fronte, come fosse un antico romano. Sul mento si era lasciato crescere una brutta chiazza di peli: sembrava un insetto che si scava la tana. Visto così, assomigliava a un componente di un gruppo musicale strafatto di roba. Mi sorrise, ma senza alcun calore umano. «Sono il detective Bob Regan, del Dipartimento di polizia di Kasselton» si presentò. «Comprendo il suo attuale stato di confusione.»
«La mia famiglia…» cominciai.
«Ci arriveremo» m’interruppe. «Ora però ho bisogno di farle qualche domanda, d’accordo? Prima di entrare nei particolari sull’accaduto.»
Rimase in attesa della mia risposta e io mi sforzai di squarciare le ragnatele. «Okay.»
«Qual è l’ultima cosa che ricorda?»
Passai in rassegna i compartimenti della mia memoria. Mi ricordai di essermi svegliato, quella mattina, e poi vestito. Ricordai di essere andato a controllare Tara. Ricordai di avere girato la manopola del suo finto cellulare bianco e nero, dono di un collega che sosteneva che avrebbe aiutato la bimba a sviluppare le capacità cerebrali o qualcosa del genere. Il cellulare non si era mosso né aveva belato la sua canzoncina metallica, segno che le batterie erano scariche, e avevo preso mentalmente l’appunto di sostituirle. Poi ero sceso al piano terra.
«Stavo mangiando una barretta di müsli» dissi.
Regan annuì, come se si aspettasse quella risposta. «Si trovava in cucina?»
«Sì, accanto al lavandino.»
«E poi?»
Mi sforzai di ricordare, ma inutilmente. Scossi il capo. «Mi sono svegliato una volta, di notte. Ero qui, penso.»
«Nient’altro?»
Ci riprovai ancora, senza risultato. «No, nulla.»
Regan tirò fuori un taccuino. «Come ha detto la dottoressa, le hanno sparato due volte. Non ricorda di avere visto un’arma o di avere udito un colpo di pistola, nulla del genere?»
«No.»
«È comprensibile, direi. Era conciato davvero male, Marc, quelli dell’ambulanza l’avevano già dato per morto.»
Mi sentii di nuovo la gola secca. «Dove sono Tara e Monica?»
«Mi ascolti, Marc.» Regan teneva lo sguardo abbassato sul taccuino, non su di me, e sentii il terrore invadermi il petto. «Ha sentito una finestra andare in frantumi?»
Ero intontito. Cercai di leggere l’etichetta sulla flebo per capire con che cosa mi stavano sedando. Niente da fare. Un antidolorifico, come minimo. Forse morfina per via endovenosa. Cercai di reagire. «No» risposi.
«Ne è certo? Abbiamo trovato una finestra rotta sul retro della casa, probabilmente è così che si è introdotto l’autore del reato.»
«Non ricordo nessuna finestra in frantumi. Lo sapete chi…»
Regan m’interruppe. «Non ancora, no. Per questo le sto facendo queste domande, per scoprire chi è stato.» Sollevò gli occhi dal taccuino. «Ha dei nemici?»
Davvero me l’aveva chiesto? Cercai di sedermi, di sollevarmi per mettermi alla sua altezza, ma non ci fu verso. Non mi piace fare il paziente, trovarmi cioè dalla parte sbagliata del letto. Dicono che i dottori siano i peggiori pazienti, e la spiegazione sta forse in questa improvvisa inversione di ruolo.
«Voglio notizie di mia moglie e di mia figlia.»
«Capisco.» Il tono di voce di Regan fu per me come un dito gelido sul cuore. «Ma non si può distrarre proprio adesso, Marc, non ancora. Lei vuole aiutarmi, vero? Allora deve rispondere alle mie domande.» Riportò la sua attenzione sul taccuino. «Le chiedevo, quindi, se ha dei nemici.»
Discutere con lui mi sembrava inutile se non addirittura dannoso, quindi, anche se controvoglia, lo assecondai. «Qualcuno che avrebbe potuto spararmi?»
«Sì.»
«No, nessuno.»
«E sua moglie?» Teneva gli occhi fissi su di me. E mi tornò in mente l’immagine di Monica che mi piaceva di più, del suo viso che si illuminava di fronte alle cascate di Raymondkill e di quel suo gettarmi le braccia al collo fingendosi terrorizzata per l’acqua che ci scrosciava attorno. «Aveva dei nemici?»
Lo guardai. «Monica?»
Ruth Heller fece un passo avanti. «Credo che per oggi possa bastare.»
«Che cos’è successo a Monica?» chiesi a Regan.
La dottoressa Heller si avvicinò al detective Regan, mettendoglisi accanto, e i due mi fissarono. Lei ricominciò a protestare, ma io la bloccai.
«Mi risparmi questa stronzata dell’interesse del paziente» cercai di gridare, mentre la paura e la rabbia lottavano contro ciò che mi aveva ottenebrato il cervello. «Ditemi che cos’è successo a mia moglie.»
«È morta» disse il detective Regan, senza girarci troppo attorno. Morta. Mia moglie. Monica. Era come se non l’avessi sentito, quella parola non ce la faceva ad arrivarmi al cervello.
«Quando la polizia ha fatto irruzione in casa vostra, vi ha trovato entrambi stesi a terra. Qualcuno vi aveva sparato. Sono riusciti a salvare lei, dottor Seidman, ma per sua moglie era ormai troppo tardi. Mi dispiace.»
Mi passò davanti agli occhi un altro velocissimo flash. Questa volta eravamo a Martha’s Vineyard, sulla spiaggia, Monica portava quel costume marrone chiaro e mi rivolgeva uno dei suoi sorrisi affilati come un rasoio mentre i capelli neri le schiaffeggiavano il volto. Battei le palpebre per allontanare quell’immagine. «E Tara?»
«Sua figlia…» cominciò Regan, schiarendosi in fretta la voce. Riportò lo sguardo sul taccuino, ma non credo che avesse intenzione di prendere appunti. «Era a casa quella mattina, vero? Voglio dire, all’ora dell’incidente?»
«Sì, certo. Dov’è?»
Regan richiuse di scatto il taccuino. «Quando siamo arrivati non c’era.»
I miei polmoni si fecero di pietra. «Non capisco.»
«All’inizio abbiamo sperato che fosse stata affidata a un parente o a degli amici. Una baby-sitter, magari, ma…» La voce gli si spense.
«Mi sta dicendo che non sapete dove si trova Tara?»
Questa volta nella sua voce non c’era la minima esitazione. «Proprio così.»
Fu come se la mano di un gigante mi premesse sul petto. Strinsi le palpebre e ricaddi all’indietro. «Da quando?»
«Da quando è scomparsa?»
«Sì.»
La dottoressa Heller si mise a parlare un po’ troppo velocemente. «Deve capire, lei era gravemente ferito e non avevamo molte speranze di poterla salvare. Era attaccato a un respiratore, con un polmone distrutto e si era anche sviluppata un’infezione. Lei è un medico e non ho quindi bisogno di spiegarle la gravità della situazione. Abbiamo tentato di ridurre le dosi dei medicinali, di aiutarla a risvegliarsi…»
«Da quando?» chiesi di nuovo.
La dottoressa e Regan si scambiarono un’altra occhiata, poi la Heller disse qualcosa che mi svuotò ancora una volta i polmoni di tutta l’aria. «Lei è rimasto senza conoscenza dodici giorni.»