Un rumore mi bloccò. Mi voltai a destra perché mi sembrava fosse venuto da lì, dal livello della strada. Tentai di distinguere qualcosa, ma avevo gli occhi ancora semiabbagliati dal raggio della torcia elettrica. E poi gli alberi mi impedivano la visuale. Attesi di sentire qualche altro rumore, ma inutilmente. E comunque non aveva importanza, alla fine del sentiero mi attendeva Tara: solo questo contava, tutto il resto non m’interessava.
Concentrati, mi dissi. Tara, la fine del sentiero. Il resto non ti riguarda.
Mi rimisi in movimento, senza nemmeno voltarmi a vedere che fine aveva fatto la sacca con i due milioni di dollari. Anche la sacca era priva d’importanza, come tutto il resto, a parte Tara. Cercai di richiamare quell’immagine nell’ombra, la sagoma che si era stagliata contro il raggio della torcia. Continuai ad andare avanti arrancando. Mia figlia poteva essere lì, ancora pochi passi e l’avrei rivista. Mi avevano dato un’altra possibilità di riprendermela. Concentrati, dividi in compartimenti, nulla deve fermarti.
Come agente federale Rachel aveva ricevuto un ottimo addestramento all’uso delle armi e al combattimento a mani nude. Aveva imparato molto, in quei quattro mesi passati a Quantico. Sapeva che un vero combattimento non ha nulla in comune con quelli che si vedono in televisione. Mai, per esempio, commettere la fesseria di sollevare la gamba per tirare un calcio in faccia al nemico. Mai fare un movimento che ti porti a volgergli le spalle, mai ruotare su te stesso, o saltare.
È piuttosto semplice avere la meglio in un combattimento a mani nude, basta colpire le parti del corpo più vulnerabili. Il naso, per esempio, se lo colpisci gli occhi del tuo avversario si riempiono di lacrime. Anche gli occhi, naturalmente. E la gola: chi ha preso un colpo in gola sa bene che fa passare subito la voglia di battersi. Il basso ventre, ovvio. Ma è un bersaglio difficile, anche perché l’uomo è istintivamente portato a proteggerlo. È consigliabile quindi fingere di mirare al basso ventre, per poi colpire un’altra parte del corpo.
E ci sono altre zone come il plesso solare, il collo del piede, il ginocchio. Ma queste tecniche hanno pur sempre un limite. Nei film succede spesso che il più piccolo di due contendenti riesca a battere il più grosso, e tutto sommato può accadere anche nella realtà. Ma se la donna è piccola come Rachel e l’uomo è grosso come il suo avversario in quel momento, ci sono scarse probabilità che la donna ne esca vittoriosa. Se poi chi attacca sa il fatto suo, le probabilità più che scarse sono nulle.
L’altro problema per una donna, in una situazione del genere, è che i combattimenti non si svolgono mai come nei film. Pensate un attimo a qualche scazzottata alla quale avete assistito in un bar, o allo stadio, o su un campo di gioco: i due finiscono di solito avvinghiati a terra. In televisione o su un ring i contendenti rimangono in piedi a prendersi a pugni, certo. Ma nella vita uno dei due si china afferrandosi all’altro, e poi continuano a lottare a terra. Per quanto fosse allenata, se le cose si fossero messe in quel modo Rachel non avrebbe avuto alcuna possibilità di battere un avversario grande e grosso come quello.
Rachel aveva fatto pratica di combattimento a mani nude, si era allenata, aveva preso parte a simulazioni di situazioni pericolose — a Quantico avevano persino costruito a questo scopo una “finta città” — ma non era mai rimasta coinvolta fisicamente in una vera lotta. Non era quindi preparata al panico che ti prende in quei casi, a quella specie di pizzicore alle gambe, improvvisamente insensibili, per l’adrenalina che, mescolata alla paura, ti toglie le forze.
Non riusciva a respirare. Colta del tutto alla sprovvista, reagì nel modo sbagliato a quella mano che le premeva sulla bocca. Invece di scalciare subito all’indietro, cercando di colpire il ginocchio o il collo del piede del suo assalitore, agì d’istinto e tentò con entrambe le mani di liberarsi la bocca. Ma inutilmente.
In pochi secondi lo sconosciuto le appoggiò l’altra mano sulla nuca, stringendola in una morsa. Sentiva le dita dell’uomo scavarle le gengive, premerle sui denti, quelle mani erano così forti da farle temere che da un momento all’altro potessero fracassarle il cranio come fosse un guscio d’uovo. Ma non fu quello che accadde. L’uomo la sollevò letteralmente da terra e fu il collo ad avere la peggio: sembrava che le si dovesse staccare da un momento all’altro. La mano che le copriva la bocca e il naso frattanto le impediva di respirare. Lui continuò a tenerla sollevata. Rachel allora gli afferrò i polsi cercando di allentare la presa sul collo.
Ma le mancava l’aria.
Sentiva nelle orecchie una specie di ruggito, i polmoni le bruciavano. Allora prese a scalciare, ma i suoi calci erano così deboli che lui non si curò nemmeno di pararli. Teneva il viso accanto al suo, e lei si sentiva addosso l’alito umido dello sconosciuto. I visori notturni erano finiti di traverso ma non erano caduti, e ora le impedivano di vedere.
La pressione alla testa era insopportabile. Cercando di mettere in pratica ciò che aveva imparato durante l’addestramento, Rachel piantò le unghie nelle mani dell’uomo, subito dietro i pollici. Effetto, zero. Scalciò più forte. Nulla. Aveva bisogno di respirare, si sentiva come un pesce preso all’amo che tenta disperatamente di divincolarsi prima di morire. E subentrò il panico.
La pistola.
Ci arrivava, ad afferrarla. Se solo fosse riuscita a riprendere il controllo per un momento, se avesse trovato il coraggio di lasciar ricadere la mano, avrebbe potuto infilarla in tasca, estrarre la pistola e sparare. Era la sua unica possibilità. Il cervello le si stava annebbiando, e di lì a poco avrebbe perso conoscenza.
Nel giro di pochi secondi la testa le sarebbe esplosa. Lasciò allora cadere la mano sinistra, rendendosi conto che il collo, sottoposto a quella trazione, stava per spezzarsi come un elastico. La mano trovò la fondina, le dita toccarono la pistola.
Ma l’uomo se ne accorse e le assestò una ginocchiata nella schiena, mentre lei era sempre sospesa per aria come una bambola di pezza. Il dolore esplose in un lampo rosso, gli occhi le si rovesciarono all’indietro. Ma lei strinse i denti e tentò di tirare fuori la pistola, e l’uomo a quel punto fu costretto a rimetterla a terra.
Aria.
La trachea era finalmente libera. Lei cercò di non respirare troppo in fretta, ma i suoi polmoni la pensavano diversamente. E non riuscì a controllarli.
Il suo sollievo fu comunque di breve durata. Con una mano l’uomo le impedì di estrarre la pistola e con l’altra le assestò un colpo micidiale alla gola. Rachel si sentì soffocare e cadde a terra. L’uomo afferrò la pistola e la gettò via, poi le fu sopra schiacciandola con il corpo e quel poco di aria che lei era riuscita a immagazzinare uscì di getto. Lui le si mise a cavalcioni sul petto e fece per stringerle la gola con le mani.
In quel momento passò veloce un’auto della polizia.
L’uomo si raddrizzò di scatto. Rachel tentò di approfittarne, ma quello era decisamente troppo grosso. Lui tirò fuori di tasca un cellulare e se lo portò alla bocca. «La polizia! Scappiamo!» bisbigliò con il suo vocione roco.
Lei tentò di muoversi, di fare qualcosa, ma ormai c’era ben poco da fare. Sollevò lo sguardo in tempo per vedere l’omone serrare la mano a pugno in direzione del suo viso. Allora cercò di spostare la testa, ma non c’era proprio spazio.
Il pugno la mandò a sbattere contro l’acciottolato. Poi l’oscurità l’avvolse.
Quando Marc le passò davanti, Lydia uscì dal cespuglio puntandogli la pistola alla nuca, con il dito sul grilletto. E il grido «La polizia! Scappiamo!» le giunse all’auricolare facendola trasalire, al punto che quasi fece fuoco. Ma il suo cervello lavorava in fretta. Seidman si stava allontanando lungo il sentiero e a Lydia fu subito chiaro ciò che doveva fare. Gettò via la pistola. Senza l’arma nessuno avrebbe potuto accusarla, non poteva essere collegata a lei se non ce l’aveva addosso. Come molte armi, non era identificabile. E lei aveva messo i guanti, naturalmente, quindi niente impronte digitali.
Tuttavia, e il suo cervello si mosse ancora più in fretta, che cosa le impediva di prendere la sacca con i soldi?
In fondo lei era solo una donna che faceva una passeggiata nel parco e aveva trovato per caso la sacca. Se la polizia l’avesse fermata, lei avrebbe sempre potuto fare la parte della buona samaritana che stava per portarla alla polizia. Nessun reato. Nessun rischio.
Soprattutto, considerando quei due milioni di dollari.
Valutò velocemente i pro e i contro. Era semplice, a pensarci bene. Prendi i soldi, e se poi ti beccano niente paura. Non c’è assolutamente nulla che possa collegarti all’affare Seidman, la pistola l’hai gettata via e così anche il cellulare. Certo, qualcuno avrebbe potuto trovarli, ma né la pistola né il telefono erano riconducibili a lei o a Heshy.
Udì un rumore. Marc Seidman, che la precedeva di quasi cinque metri, si mise a correre. Bene, nessun problema. Lydia scattò in direzione dei soldi, dietro l’angolo apparve Heshy e lei gli andò incontro, poi, senza un attimo d’esitazione, raccolse da terra la sacca.
Subito dopo, entrambi scomparvero nelle tenebre.
Continuai ad avanzare a tentoni, inciampando. Gli occhi cominciavano a mettere a fuoco qualcosa, ma solo dopo diversi minuti tornai a vederci normalmente. Il sentiero aveva preso a scendere, c’erano dei sassi e cercai di evitarli. La discesa adesso era più ripida e mi lasciai trasportare dalla forza d’inerzia, in modo da muovermi più velocemente, senza però correre.
Alla mia destra potevo vedere il pendio al termine del quale iniziava il Bronx, le cui luci brillavano in lontananza.
Udii il pianto sommesso di un bambino.
Mi bloccai. Anche se quasi impercettibile, era inequivocabilmente il pianto di un bambino. Sentii un fruscio e il bimbo pianse di nuovo, ma questa volta il suono era più lontano. Il fruscio ora era scomparso, sostituito dallo scalpiccio di passi. Qualcuno stava correndo. Correva via con un bambino o una bambina. Correva lontano da me.
No!
Mi misi a correre anch’io. Le luci in lontananza fornivano un’illuminazione sufficiente a permettermi di seguire il sentiero. Più avanti vidi la recinzione di rete metallica e, avvicinatomi, mi accorsi che qualcuno vi aveva praticato un varco con le cesoie. Lo superai e mi ritrovai sul sentiero. Guardai a sinistra, in direzione del parco.
Nessuno.
Maledizione, che cos’era andato storto? Tentai di riflettere, di mettere a fuoco la situazione. Allora, se fossi stato io a scappare, da che parte sarei andato? Semplice, a destra. I sentieri erano tortuosi, c’era buio, tirava vento, era facile nascondersi tra la vegetazione. Io avrei fatto questo, al posto dei rapitori. Mi fermai un istante, sperando di sentire ancora il pianto del bambino, ma non l’udii. Sentii invece qualcuno esclamare: «Ehi!» in tono sorpreso.
Drizzai la testa. Quella voce proveniva effettivamente da destra. Bene. Mi misi nuovamente a correre, sperando di vedere una camicia a scacchi. Niente. Continuai a scendere di corsa, ma per poco non inciampai. Ricordai, che quando abitavo in zona c’erano dei barboni che si rifugiavano nei piccoli anfratti che si aprivano nei pendii troppo ripidi per gli escursionisti e ricoprivano l’ingresso con delle foghe. Ogni tanto vicino a quelle tane si udiva un fruscio troppo forte per essere stato provocato da uno scoiattolo. E allora all’improvviso ti trovavi davanti uno di questi barboni, con i capelli lunghi e la barba incolta, che emanava un olezzo terribile. Non lontano da lì c’era una zona dove lavoravano i marchettari, a beneficio degli impiegati che scendevano dai treni della linea A. Andavo a fare jogging da quelle parti, a tarda sera, e il sentiero era spesso cosparso di bustine vuote di preservativi.
Continuai a correre, cercando di tenere le orecchie bene aperte. A un bivio mi fermai, imprecando e chiedendomi ancora una volta quale fosse la strada più tortuosa. Non lo sapevo e stavo per prendere quella a destra, quando udii un rumore.
Un fruscio tra la vegetazione.
Mi tuffai senza un attimo d’esitazione. C’erano due uomini: uno in giacca e cravatta e l’altro, molto più giovane, in jeans. Quest’ultimo era inginocchiato davanti al primo. Quello in giacca e cravatta mi lanciò un insulto, ma non me ne andai perché la sua voce l’avevo già sentita. Pochi attimi prima.
Era stato lui a gridare: “Ehi!”.
«Ha visto passare un uomo con una bambina?»
«Ma vai a…»
Gli tirai uno schiaffone. «Li ha visti?»
Mi sembrò più sorpreso che offeso. Indicò a sinistra. «Sono andati da quella parte, l’uomo la teneva in braccio.»
Tornai veloce sul sentiero. Giusto, stavano tornando verso il prato e, se non avessero cambiato direzione, sarebbero sbucati non lontano da dove avevo lasciato l’auto. Mi rimisi a correre, agitando le braccia. Passai di corsa davanti ai marchettari seduti sul muretto. Uno di loro, con un fazzoletto azzurro in testa, mi fece segno di rimanere sul sentiero. Lo ringraziai con un cenno del capo. In lontananza si vedevano le luci del parco e per un attimo vidi l’uomo con la camicia a scacchi che passava davanti a un lampione, con in braccio Tara.
«Fermo!» gridai. «Fermatelo!»
Ma erano già scomparsi.
Deglutii e mi rimisi a correre, sempre chiamando aiuto. Ma nessuno mi rispose. Raggiunto il belvedere dove gli innamorati si fermano a contemplare il panorama, vidi di nuovo la camicia a scacchi. Stava scavalcando il muretto per infilarsi tra gli alberi. Mi lanciai all’inseguimento ma, superato l’angolo, mi sentii intimare: «Fermo lì!».
Mi voltai a guardare. Era un poliziotto, con la pistola spianata.
«Fermo!»
«Ha la mia bambina! Da quella parte!»
«Dottor Seidman?»
Quella voce familiare veniva da destra. Era quella di Regan.
Ma che?… «Ascolti, venga con me.»
«Dove sono i soldi, dottor Seidman?»
«Ma non capisce? Hanno appena scavalcato quel muretto.»
«Chi?»
Capii dove voleva arrivare. Due agenti mi puntavano contro la pistola, mentre Regan mi fissava a braccia conserte. Alle sue spalle apparve Tickner.
«Parliamone, le va?»
Non mi andava. Non avrebbero sparato e, anche se l’avessero fatto, non m’importava. Quindi mi rimisi a correre, con loro dietro. Gli agenti erano giovani e sicuramente più in forma di me, ma io avevo una carta dalla mia: ero impazzito. Saltai la staccionata e ricaddi sul pendio. Gli agenti mi vennero dietro, ma si muovevano con maggiore cautela, temendo di cadere.
«Fermo!» gridò di nuovo uno di loro.
Ansimavo troppo per poter dare altre spiegazioni. Volevo che continuassero a corrermi dietro, ma senza raggiungermi.
Mi raggomitolai su me stesso e presi a rotolare lungo il pendio. Dei frammenti di vetro mi si attaccarono agli abiti e mi s’infilarono tra i capelli, e si sollevò un polverone. Soffocai un colpo di tosse. Proprio mentre prendevo velocità andai a sbattere con il torace contro un tronco d’albero e udii il rimbombo dell’impatto, che mi tolse quasi il fiato. Ma non mi diedi per vinto. Scivolando di lato mi ritrovai sul sentiero, e dietro di me vidi le torce dei poliziotti: non mi avevano perso, quindi, ma erano a distanza di sicurezza. Bene.
Guardai veloce a destra e a sinistra. Nessuna traccia della camicia a scacchi o di Tara. Cercai ancora d’indovinare che direzione potessero aver preso, ma senza successo. Mi fermai e gli agenti si fecero più vicini.
«Fermo!»
Avevo il cinquanta per cento di possibilità.
Stavo per scattare verso sinistra e tornare a immergermi nell’oscurità quando vidi il giovane con il fazzoletto azzurro in testa, quello che poco prima mi aveva indicato con il capo la direzione. Questa volta scosse la testa e puntò il dito alle mie spalle. «Grazie» gli dissi.
Se disse qualcosa non lo udii perché mi ero già allontanato, diretto verso la rete metanica che poco prima avevo superato in senso contrario. Udii un rumore di passi, ma erano troppo distanti. Sollevai lo sguardo e vidi di nuovo la camicia a scacchi, accanto alle luci della scala della metro. L’uomo sembrava stesse riprendendo fiato.
Mi misi a correre più forte.
Lo stesso fece lui.
Ci separavano una cinquantina di metri, ma lui doveva portarsi dietro la bambina, quindi avrei potuto raggiungerlo. Il poliziotto di prima gridò: «Alt!», forse per il gusto di cambiare. Speravo proprio che non gli venisse in mente di sparare.
«È tornato sulla strada!» gridai. «Ha con sé mia figlia!»
Non sapevo se mi avevano sentito. Arrivato alle scale, scesi tre gradini alla volta. Ero uscito dal parco e mi trovavo di nuovo in Fort Washington Avenue, all’altezza della rotonda Margaret Corbin. Nel campo giochi non vidi nulla, allora guardai lungo la strada e vidi qualcuno che correva davanti al liceo Madre Cabrini, vicino alla chiesa.
La mente fa strane associazioni, a volte. La chiesa Cabrini è uno dei luoghi più surreali di New York. Zia mi ci aveva trascinato a messa, una volta, per mostrarmi perché quella chiesa era una specie di attrazione turistica. Non tardai ad accorgermene. Madre Cabrini è morta nel 1901 e le sue spoglie imbalsamate riposano all’interno di una specie di blocco di plexiglas. Che fa da altare, nel senso che il sacerdote vi celebra la messa. No, non me lo sto inventando. L’imbalsamatore che ha lavorato sul corpo di Madre Cabrini è lo stesso che ha poi imbalsamato Lenin a Mosca. La chiesa è aperta al pubblico e c’è anche un negozio di souvenir.
Non mi fermai, nonostante mi sentissi le gambe pesanti. Non udivo più i poliziotti. Mi guardai velocemente alle spalle, ma le torce elettriche erano lontane.
«Qui! Vicino al liceo Cabrini!» gridai.
Scattai nuovamente e raggiunsi il portone della chiesa, ma era chiuso a chiave. Dell’uomo con la camicia a scacchi nemmeno l’ombra. Con gli occhi spalancati per il panico, guardai dappertutto, ma invano. Li avevo persi.
«Da questa parte!» gridai ancora, nella speranza di essere sentito dalla polizia o da Rachel, oppure da entrambi.
Ma la disperazione mi travolse. Mi ero lasciato sfuggire un’altra occasione, la mia bambina era nuovamente scomparsa e quel pensiero mi opprimeva come un peso che mi schiacciasse il petto. In quel momento sentii il rombo di un’auto che veniva messa in moto.
Voltai di scatto la testa a destra, e mi rimisi a correre. Un’auto si stava muovendo, a una diecina di metri da me, una Honda Accord. Mi fissai nella mente la targa, pur sapendo che sarebbe stato inutile. L’uomo alla guida stava ancora facendo manovra per uscire dal parcheggio e non riuscivo a vedere chi fosse. Ma non volevo lasciare nulla di intentato.
La Honda aveva appena girato attorno al paraurti dell’auto di fronte e stava per partire quando afferrai la maniglia dello sportello dalla parte del guidatore. Finalmente un po’ di fortuna, la sicura non era inserita. Non ne avevano avuto il tempo per la fretta, pensai.
Nel giro di pochi secondi successero diverse cose. Mentre stavo accanto allo sportello guardai attraverso il finestrino, ed ebbi la conferma che alla guida c’era l’uomo con la camicia a scacchi. Che reagì immediatamente, cercando di impedirmi di salire. Io tirai forte dall’altra parte, lo sportello si aprì di uno spiraglio e lui premette sull’acceleratore.
Tentai di correre di fianco all’auto, come fanno nei film. Il fatto, purtroppo, è che le auto sono più veloci degli uomini. Ma non mi arresi. Ogni tanto si sente di qualcuno che in certe circostanze diventa incredibilmente forte, di uomini normalissimi che riescono a sollevare un’auto per liberare la persona amata, rimasta sotto le ruote. Mi fanno sorridere queste storie, e forse fanno sorridere anche voi.
Io non sollevai l’auto, ma vi rimasi aggrappato serrando come una morsa le dita delle mani attorno al montante tra lo sportello anteriore e quello posteriore. Deciso a non staccarmene per nessuna ragione.
Se rimango attaccato mia figlia vive, se lascio la presa mia figlia muore.
Fregatene della concentrazione, della divisione in compartimenti. Quel pensiero, quell’equazione, era semplice come respirare.
L’uomo con la camicia a scacchi continuò a premere sull’acceleratore e l’auto stava prendendo velocità. Sollevai le gambe da terra, sempre correndo accanto all’auto, ma non c’era alcuna sporgenza sulla quale puntare i piedi, che scivolavano sullo sportello posteriore ricadendo al suolo. Sentii l’asfalto scorticarmi la pelle delle caviglie e tentai nuovamente di tenere i piedi sollevati, ma senza successo. Del dolore, anche se terribile, in quel momento non me ne importava niente.
Ma mi resi conto che quella situazione era insostenibile, che per quanto mi sforzassi di rimanere aggrappato non avrei potuto resistere ancora per molto. Dovevo fare qualcosa. Tentai di infilarmi dentro l’auto, ma non avevo abbastanza forza. Tenni le braccia tese e provai di nuovo a saltare: ora il mio corpo si trovava in posizione orizzontale, cioè parallela al suolo. La gamba destra trovò qualcosa e vi si aggrappò, era l’antenna sul cofano dell’auto. Avrebbe retto al mio peso? Temevo di no. Avevo il viso premuto contro il vetro dello sportello posteriore. Guardai sul sedile.
Era vuoto.
Ancora una volta fui preso dal panico, sentii che le mani stavano perdendo la presa. Avevamo percorso venti, forse trenta metri. Con il viso premuto contro il finestrino e il naso che sbatteva contro il vetro, il corpo e la faccia graffiati e contusi, guardai il piccolo seduto accanto al guidatore e un’atroce consapevolezza mi indusse a staccare le mani dal finestrino.
La mente, come dicevo, a volte funziona in modo strano. Il mio primo pensiero fu quello tipico del dottore: i bambini devono stare seduti dietro. La Honda Accord ha l’airbag anche per il passeggero, e i bambini sotto i dodici anni non dovrebbero sedere davanti. I bambini piccoli, poi, vanno tenuti negli appositi seggiolini. Questo prevede il codice. Se un bambino non è seduto sul seggiolino e sta sul sedile davanti è doppiamente pericoloso.
Un pensiero ridicolo, il mio. O forse naturale. Ma comunque non era stato quello a togliermi la volontà di combattere.
L’uomo con la camicia a scacchi sterzò bruscamente a destra, udii lo stridio degli pneumatici. L’auto sbandò e le mie dita lasciarono la presa. Volai via, letteralmente, e atterrai sull’asfalto rotolando come una pietra. Alle mie spalle udii le sirene della polizia, immaginai che avrebbero inseguito la Honda Accord. Ma non m’importava. Avevo avuto una visione fugace, ma sufficiente per conoscere la verità.
Il bambino nell’auto non era mia figlia.