Ho bevuto.
Non sono un gran bevitore, quando ero più giovane era l’erba il mio elisir preferito, ma avevo trovato una vecchia bottiglia di gin in uno stipetto sopra il lavandino. Nel frigo c’era dell’acqua tonica e il freezer ha una macchina automatica per fare il ghiaccio. Fate voi due più due.
Vivevo sempre nella vecchia casa dei Levinsky. È troppo grande per me, ma mi si spezzerebbe il cuore lasciarla. Ormai la sento come una specie di portale, una cima di salvataggio (sottile ormai) che mi unisce a mia figlia. Sì, lo so che effetto vi faccio, ma vendere quella casa ora equivarrebbe a sbatterle la porta in faccia. Non posso farlo.
Zia voleva rimanere con me, ma le chiesi di andarsene. E lei non insistette. Mi sono messo a pensare a quella smielata canzone di Dan Fogelberg (non Dan Vattelappesca), quella in cui gli innamorati che si ritrovano parlano fino a quando non gli si stanca la lingua. Ho pensato a Humphrey Bogart che chiede agli dèi perché, tra tanti locali dove Ingrid Bergman poteva capitare, l’avevano fatta finire proprio in quella specie di spaccio di gin che era il suo night. Dopo che lei era partita Bogie aveva cominciato a bere, e sembrava che questo lo tirasse su. Forse avrebbe risollevato anche me.
Il fatto che Rachel potesse mandarmi ancora tanto in bambola mi faceva imbestialire. Era davvero stupido e infantile. Ci eravamo conosciuti durante le vacanze estive, prima del mio terzo anno al college. Lei veniva da Middlebury, nel Vermont, e pare fosse una lontana cugina di Cheryl, anche se nessuno era in grado di stabilirne con certezza il rapporto di parentela. Quell’estate, un’estate con la E maiuscola, Rachel era andata ad abitare dalla famiglia di Cheryl perché i suoi genitori erano nel bel mezzo di un divorzio traumatico. Ci presentarono e, come dicevo, passò del tempo prima che l’autobus mi travolgesse. E forse fu proprio per questo che l’urto fu ancora più violento.
Cominciammo a frequentarci e spesso uscivamo in quattro con Cheryl e Lenny, e passavamo ogni fine settimana nella casa al mare di Lenny sulla costa del New Jersey. Fu effettivamente un’estate splendida, una di quelle che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita.
Se questo fosse un film ora partirebbero le scene della serie “Com’eravamo”. Io andai alla Tufts University mentre Rachel cominciò a frequentare il Boston College. Per la prima scena ci avrebbero probabilmente messi su una barca in mezzo al Charles, il fiume di Boston, io ai remi e Rachel con un ombrellino in mano e le labbra atteggiate a un sorriso prima esitante e poi beffardo. Lei mi schizzerebbe dell’acqua, io schizzerei lei e la barca s’inclinerebbe pericolosamente. Non è mai successo, ma l’atmosfera era quella. La scena seguente ci vedrebbe forse seduti sull’erba del campus per un picnic, poi noi due che studiamo in biblioteca, i nostri corpi avvinghiati su un divano, io che come ipnotizzato la guardo mentre legge una dispensa universitaria, con gli occhiali inforcati e un dito che tormenta un ricciolo dietro l’orecchio. La serie si chiuderebbe probabilmente su due corpi che si dibattono sotto lenzuola di raso bianco, anche se nessuno studente di college usa lenzuola di raso. Ma sto ragionando in termini cinematografici.
Ero innamorato.
Durante le vacanze di Natale andammo in una casa di riposo a trovare la nonna di Rachel, una chiacchierona patentata della vecchia scuola. Ci prese le mani tra le sue e disse: “Beshert”, parola yiddish che sta per “predestinato”.
Che successe, allora?
La nostra storia non finì diversamente da tante altre. Forse perché eravamo giovani. Durante il mio quarto e ultimo anno Rachel decise che voleva passare uno dei due semestri del college a Firenze. Avevo ventidue anni. Mi incazzai e, mentre lei era in Italia, andai a letto con un’altra, una storia di una notte con una scialba studentessa della Babson. Per me non ebbe alcun significato: capisco che questo particolare non costituisce un’attenuante, ma invece dovrebbe. Non so.
Comunque sia, a una festa qualcuno ne parlò a qualcun altro e alla fine la notizia arrivò a Rachel. Lei mi chiamò da Firenze e mise la parola fine alla nostra storia, in quattro e quattr’otto: una reazione eccessiva la sua, a mio modo di vedere. Eravamo giovani, come dicevo. All’inizio fui troppo orgoglioso (leggi: stupido) per chiederle di ripensarci e perdonarmi. Poi, quando cominciai a scontare le conseguenze di quella rottura, le telefonai, le scrissi, le mandai dei fiori. Rachel non rispose mai. Era finita, punto e basta.
Mi alzai e mi avvicinai semibarcollando alla scrivania. Presi da sotto la credenza la chiave che avevo assicurato con del nastro adesivo e aprii l’ultimo cassetto. Tirai fuori i vari incartamenti, sotto i quali avevo conservato del materiale segreto. No, non droga. Il passato. Le cose di Rachel. Trovai quella foto tanto familiare che cercavo e la esposi alla luce. Lenny e Cheryl hanno ancora questa foto nel tinello e la cosa aveva comprensibilmente infastidito Monica. Eravamo noi quattro — Lenny, Cheryl, Rachel e io — ripresi in una serata di gala durante il mio ultimo anno di college. Rachel indossava un abito nero con bretelline simili a spaghetti e ancora oggi il pensiero di come quell’abito le aderiva al corpo mi fa mancare il respiro.
È stato tanto tempo fa.
Dopo la fine della nostra relazione la vita andò avanti ugualmente, com’è ovvio. Come avevo da tempo pianificato, mi iscrissi alla facoltà di Medicina. Avevo sempre desiderato fare il medico, come d’altronde moltissimi medici che conosco. Una decisione del genere è raro che la si prenda al termine delle superiori.
E uscivo anche con le ragazze. Ebbi altre storie di una notte, come quella di Zia: ma, anche se può sembrarvi penoso, dopo tanti anni non passa giorno che io non pensi a Rachel, anche solo per un attimo. Sì, lo so che la sto buttando troppo sul romantico perdendo forse il senso della misura. Se non avessi commesso quell’errore idiota forse ora non vivrei in un beato universo alternativo, ancora avvinghiato al mio amato bene sul divano. Come Lenny mi fece notare una volta in un momento di assoluta sincerità, se la mia relazione con Rachel fosse stata davvero così importante lei sarebbe passata sopra a questo “incidente” che capita in ogni storia, alle corna di una notte.
Ve l’ho detto che non ho mai amato mia moglie? No. Credo, quanto meno, che la risposta sia no. Monica era bella, e la sua bellezza ti colpiva subito senza che per accorgertene dovesse passare del tempo, oltre che appassionata e sorprendente. Era anche ricca e affascinante. Cercavo di non fare paragoni, è terribile vivere facendo paragoni, ma non potevo non amare Monica nel mio mondo post-Rachel più angusto e meno luminoso. Magari sarebbe accaduta la stessa cosa se fossi rimasto con Rachel, ma avrebbe significato usare la logica: e quando c’è di mezzo il cuore, la logica non ha diritto di cittadinanza.
Con il passare degli anni Cheryl mi teneva informato, anche se controvoglia, su Rachel. Venni così a sapere che era diventata un’agente dell’FBI a Washington e non so se la notizia mi sorprese davvero. Tre anni fa Cheryl mi disse che Rachel si era sposata con un collega anziano. E, anche se erano ormai trascorsi undici anni dalla nostra rottura, fu come se qualcuno mi avesse scavato nelle viscere. In quel momento realizzai appieno quale fesseria avessi commesso undici anni prima. Ero vissuto fino ad allora nell’irrazionale convinzione che Rachel e io stessimo solo facendo passare del tempo, che vivessimo in uno stato di incoscienza, fino al giorno in cui avremmo ripreso i sensi e ci saremmo rimessi insieme. E ora lei aveva sposato un altro.
Cheryl notò la mia espressione e da quel giorno non mi parlò più di Rachel.
Rimasi a guardare la foto fin quando udii il rumore familiare di un fuoristrada che si fermava davanti a casa mia. Nessuna sorpresa, non mi preoccupai nemmeno di andare ad aprire. Lenny aveva la chiave e comunque non bussava mai, sapeva dov’ero. Misi via la foto mentre lui entrava con in mano due enormi bicchieroni di cartone di 7-Eleven dai colori vivaci.
Li soEevò entrambi. «Ciliegia o cola?»
«Ciliegia.»
Mi porse il bicchiere. Attesi.
«Zia ha telefonato a Cheryl» mi disse a titolo di spiegazione.
Me l’ero immaginato. «Non ne voglio parlare.»
Lenny fece un salto sul divano. «Nemmeno io.» S’infilò una mano in tasca e tirò fuori un fascio di carte. «Il testamento e le ultime carte sulle proprietà di Monica. Leggili quando vuoi.» Prese il telecomando e si mise a premere i pulsanti. «Non hai un porno?»
«No, mi dispiace.»
Si strinse nelle spalle, accontentandosi di un incontro di basket universitario sul canale ESPN. Rimanemmo per qualche minuto a guardare in silenzio, poi fui io a romperlo.
«Perché non mi hai detto che Rachel aveva divorziato?»
Lui fece una smorfia di dolore e sollevò le mani come se volesse fermare il traffico.
«Cosa vuol dire?» gli chiesi.
«Cervello congelato.» Gli passò subito. «Bevo sempre quella roba ghiacciata troppo in fretta.»
«Perché non me l’hai detto?»
«Pensavo che non dovessimo parlarne più.»
Lo guardai.
«Non è così semplice, Marc.»
«Che cosa non è così semplice?»
«Rachel ha attraversato dei brutti momenti.»
«Anch’io.»
Lenny guardava la partita con un po’ troppa attenzione.
«Che cosa le è successo, Lenny?»
«Non è affar mio.» Scosse il capo. «Da quanto non la vedi, quindici anni?»
Erano quattordici, per la precisione. «Qualcosa del genere.»
Girò con lo sguardo nella stanza, soffermandosi su una foto di Monica e Tara. Poi lo distolse e mandò giù una sorsata. «Devi smetterla di vivere nel passato, amico mio.»
Ci mettemmo entrambi comodi, fingendo di seguire la partita di basket. Smetterla di vivere nel passato, aveva detto. Guardai la foto di Tara e mi chiesi se Lenny si riferisse a qualcun altro oltre che a Rachel.
Edgar Portman sollevò il collare di cuoio del cane, facendo tintinnare il campanellino fissato a un’estremità: e Bruno, il suo mastino di razza purissima, corse a tutta velocità verso la fonte del suono. Bruno, sei anni prima, era stato campione di morfologia alla mostra canina di Westminster e, a detta di molti, aveva le carte in regola per assicurarsi il titolo assoluto, ma Edgar aveva invece deciso di ritirarlo dal concorso. Un cane da esposizione non sta mai a casa, ed Edgar invece lo voleva con sé.
Gli esseri umani ti deludono. I cani mai, pensava Edgar.
Bruno tirò fuori la lingua, scodinzolando, ed Edgar gli agganciò il guinzaglio al collare. Sarebbero rimasti fuori a passeggio un’ora. L’uomo abbassò lo sguardo sulla superficie lucida della scrivania, sulla quale spiccava un pacchetto di cartone identico a quello che aveva ricevuto diciotto mesi prima. Il cane uggiolò ed Edgar si chiese se quel lamento fosse d’impazienza oppure di paura, quasi che Bruno avesse percepito lo stato d’animo del padrone. Entrambe le cose, forse.
Edgar comunque aveva bisogno di aria.
Il pacchetto di diciotto mesi prima era stato sottoposto a ogni tipo di analisi da parte della polizia scientifica. Ma inutilmente. E ora Edgar era abbastanza certo, sulla scorta della precedente esperienza, che ancora una volta quegli incompetenti degli investigatori non avrebbero scoperto nulla. Diciotto mesi prima Marc non lo aveva ascoltato, ma quell’errore, sperava Edgar, non si sarebbe ripetuto.
Si diresse alla porta, preceduto da Bruno. L’aria aveva un buon sapore. Uscì e se ne riempì i polmoni. Questo non fu sufficiente a cambiare il suo stato d’animo, ma in parte lo migliorò. Edgar e Bruno si avviarono lungo il solito itinerario, ma qualcosa indusse l’uomo a deviare a destra. Il piccolo cimitero di famiglia. Ci passava accanto ogni giorno, così spesso da non vederlo nemmeno, e non andava mai a soffermarsi davanti alle lapidi. Ma quel giorno se ne sentì all’improvviso attratto. Bruno, sorpreso da quel cambiamento, lo seguì controvoglia.
Edgar scavalcò la bassa staccionata. La gamba gli pulsava. La vecchiaia. Quelle passeggiate cominciavano a pesargli. Aveva iniziato ad adoperare con sempre maggiore frequenza un bastone da passeggio, ne aveva comprato uno che si diceva fosse appartenuto a Dashiell Hammett colpito dalla tubercolosi, ma per qualche motivo non se ne serviva per le passeggiate con Bruno. Gli sembrava, chissà perché, fuori luogo.
Bruno esitò per poi scavalcare a sua volta la staccionata. Cane e padrone si fermarono davanti alle due lapidi più recenti. Edgar cercò di non riflettere sulla vita e la morte, sulla ricchezza e il suo rapporto con la felicità. Sofismi del genere preferiva lasciarli agli altri. In quel momento si rese conto che probabilmente non era stato un buon padre. Aveva imparato comunque dal padre, che a sua volta aveva imparato dal suo. E alla fine a salvarlo era stata forse la sua freddezza. Aveva amato profondamente i suoi figli, aveva preso parte alla loro vita e non sapeva com’era riuscito a sopravvivere alla loro morte.
Il cane riprese a uggiolare. Edgar abbassò lo sguardo sul compagno, fissandolo negli occhi. «È ora di muoverci, amico mio» disse piano. La porta d’ingresso della villa si aprì. Edgar si voltò e vide il fratello Carson che si dirigeva a passo veloce verso di lui, e notò la sua espressione.
«Mio Dio» gridò quasi Carson.
«Immagino tu abbia visto il pacchetto.»
«Sì, naturalmente. Hai telefonato a Marc?»
«No.»
«Bene. È uno scherzo di cattivo gusto, non può essere altrimenti.»
Edgar rimase in silenzio.
«Non sei d’accordo?» gli chiese Carson.
«Non lo so.»
«Non penserai certo che sia ancora viva.»
Edgar diede un leggero strattone al guinzaglio. «Meglio attendere i risultati delle analisi. Solo allora lo sapremo con certezza.»
Mi piace lavorare di notte, mi è sempre piaciuto. Mi sono scelto un bel lavoro. Mi piace quello che faccio, non è mai routine, non è mai faticoso, non è qualcosa che mi serve per mangiare. Io scompaio, nel mio lavoro. Come un atleta con un sacco di problemi, dimentico tutto quando il gioco ha inizio. Mi sento come drogato. Vado al massimo.
Ma quella sera, tre giorni dopo l’incontro con Rachel, ero fuori servizio. Sedevo tutto solo nel mio covo e saltavo da un canale all’altro. Come la maggior parte dei maschi della mia specie adopero troppo il telecomando. Riesco a guardare diverse ore di nulla. L’anno scorso Lenny e Cheryl mi hanno regalato un lettore di DVD, spiegandomi che il mio videoregistratore stava per entrare nella categoria “giurassici”. Detti un’occhiata all’ora segnata sul display. Le nove e qualche minuto: avrei potuto vedere un film ed essere a letto per le undici.
Avevo appena tolto dalla custodia il film noleggiato poco prima e stavo per infilarlo nel lettore — non hanno ancora inventato un telecomando in grado di compiere questa operazione — quando udii abbaiare un cane. Due case dopo la mia era andata ad abitare una nuova famiglia con quattro o cinque bambini, o qualcosa del genere. Difficile dirlo con precisione quando sono tanti, uno se li confonde. Non mi ero ancora presentato, ma avevo visto nel loro giardino un levriero irlandese più o meno delle dimensioni di un Ford Explorer. Doveva essere stato lui ad abbaiare.
Spostai di lato la tendina. Guardai da dietro i vetri e per qualche motivo, qualcosa che non riesco a descrivere adeguatamente, non rimasi sorpreso da ciò che vidi.
La donna si trovava nel punto esatto in cui l’avevo vista diciotto mesi prima. Il lungo soprabito, i lunghi capelli, le mani in tasca: non era cambiato assolutamente nulla.
Temevo di perderla di vista, ma al tempo stesso non volevo che mi vedesse. Caddi in ginocchio e scivolai di lato alla finestra, come fanno i superdetective. Poi, con schiena e guancia premuti contro la parete, cercai di prendere una decisione.
Anzitutto, in quel momento non la vedevo: il che significava che poteva andarsene senza che me ne accorgessi. Così non andava, dovevo azzardare un’occhiata. Quella era la prima cosa da fare.
Voltai il capo e diedi una fugace occhiata. Era ancora lì, ma si era avvicinata di qualche passo alla mia porta di casa. Non riuscivo a capire che cosa potesse significare esattamente. Che dovevo fare? Aprire la porta e affrontare la sconosciuta? Mi sembrò una buona idea, se fosse fuggita avrei potuto inseguirla.
Rischiai un’altra sbirciata, limitandomi a girare il capo, e mi accorsi subito che la donna stava guardando proprio in direzione della mia finestra. Mi ritrassi di scarto. Maledizione. Mi aveva visto. Poco ma sicuro. Le mie mani corsero al bordo inferiore della finestra, pronte a sollevarla, ma la donna si stava già allontanando in fretta.
No, non potevo farmela sfuggire anche questa volta.
Indossavo dei pantaloni verdi da sala operatoria, ogni dottore di mia conoscenza ne tiene in casa qualche paio, ed ero a piedi nudi. Mi precipitai a spalancare la porta. La donna era quasi alla fine dell’isolato. Quando mi vide stagliarmi sulla soglia, interruppe il passo affrettato e si mise a correre.
Le andai dietro. Al diavolo i piedi nudi! Una parte di me si sentiva ridicola. Non sono veloce su due gambe, e probabilmente nemmeno su una gamba sola, e in quel momento stavo dando la caccia a una sconosciuta solo perché si era fermata davanti a casa mia. Non so che cosa sperassi di scoprire. La donna stava probabilmente facendo una passeggiata e io l’avevo spaventata. Magari avrebbe chiamato la polizia e mi immaginavo già la reazione degli agenti; come se non bastasse, avevo fatto fuori la mia famiglia riuscendo a farla franca. E ora correvo dietro alle sconosciute che mi passavano davanti a casa.
Non mi fermai.
La donna svoltò in Phelps Road. Aveva un notevole vantaggio. Agitai le braccia tentando di imporre alle gambe di tenere lo stesso ritmo. Sembrava che i ciottoli volessero infilarsi sotto i miei piedi e cercai di rimanere sull’erba. La donna era ormai fuori vista e io ero fuori forma. Avevo percorso al massimo cento metri e già sentivo un sibilo nel mio respiro ansante. Cominciava anche a colarmi il naso.
Arrivato in fondo alla strada girai a destra.
Ma non c’era nessuno.
La via era lunga e dritta oltre che ben illuminata. In altre parole, la donna avrebbe dovuto essere ancora visibile. Per qualche stupido motivo guardai anche alle mie spalle. Ma lei non c’era. Corsi nella direzione che aveva preso. Guardai in fondo a Morningside Drive, ma non ne vidi traccia.
Era scomparsa.
Ma come?
Non poteva aver corso tanto in fretta, nemmeno Carl Lewis era così veloce. Mi fermai, appoggiando le mani sulle ginocchia e divorando quell’ossigeno del quale avevo tanto bisogno. Dovevo pensare. Magari abitava in una di queste case? Forse. E allora? Significava che quando l’avevo vista stava facendo una passeggiata nella sua zona. Aveva notato qualcosa che le era sembrato curioso e si era fermata a dare un’occhiata.
Come aveva fatto diciotto mesi prima?
Be’, anzitutto non sappiamo se si trattava della stessa donna.
Ma è plausibile che due donne si siano fermate, immobili come statue, davanti a casa tua?
Era possibile. O forse era la stessa donna. Magari le piaceva guardare le case. Forse lavorava nel ramo immobiliare, o qualcosa di simile.
Certo, amava guardare le case suburbane a livelli sfalsati degli anni Settanta. Ma se le sue intenzioni erano assolutamente innocenti, perché era fuggita?
Non lo so, Marc. Ma non è possibile che l’abbia fatto — è solo un’ipotesi a caso, ovvio — perché c’era un matto che la inseguiva?
Allontanai quella voce e mi rimisi a correre in cerca di non so che. Ma passando davanti a casa degli Zucker mi fermai.
Era mai possibile?
La donna era svanita nel nulla. Avevo controllato le strade alle due estremità e lei non c’era. Il che voleva dire: a) che abitava in una di quelle case, oppure b) che si era nascosta.
O ancora c) che aveva imboccato il sentiero degli Zucker che attraversava il boschetto.
Da ragazzino a volte passavo con gli amici per il prato dietro casa Zucker, dal quale partiva un sentiero che portava ai campi sportivi della scuola. Non era facile trovarlo, quel sentiero, e alla Vecchia Signora Zucker non faceva piacere che attraversassimo il suo prato. Non ci diceva niente, ma ogni volta la vedevamo dietro la finestra a fissarci torva, con quella sua acconciatura lucida come un dolce Krispy Kreme. Tanto che dopo qualche tempo smettemmo di usare quella scorciatoia.
Guardai a destra e a sinistra. Della donna non si vedeva traccia.
Possibile che conoscesse l’esistenza di quel sentiero?
Mi rimisi a correre attraversando nel buio il prato dietro casa Zucker. Mi aspettavo quasi di vedere al di là dei vetri della finestra lo sguardo torvo della Vecchia Signora Zucker, ma da qualche anno si era trasferita a Scottsdale. Non sapevo più chi abitava in quella casa, non sapevo nemmeno se il sentiero esisteva ancora.
Il prato era buio come la pece, nemmeno una luce brillava in casa. Cercai di ricordarmi con esattezza dove si trovava il sentiero. Ma non impiegai molto a trovarlo, certe cose si ricordano, è quasi automatico. Corsi alla sua imboccatura quando qualcosa mi colpì al capo, con un rumore secco. Caddi sulla schiena.
Mi girava la testa. Sollevai lo sguardo. Al debole chiarore della luna vidi un’altalena, una di quelle belle, di legno. Quando ero bambino non c’era quell’altalena, e al buio non l’avevo vista. Mi girava la testa, ma non potevo permettermi di perdere tempo. Mi risollevai troppo in fretta, tanto da barcollare indietreggiando.
Il sentiero c’era ancora.
Lo percorsi più velocemente che potei. I ramoscelli mi schiaffeggiavano il viso, ma non ci feci caso. Inciampai su una radice. Non era lungo il sentiero degli Zucker, una dozzina di metri, quindici al massimo. Sfociava in una spianata occupata da campi di calcio e diamanti da baseball. Ero stato piuttosto veloce. Se anche lei aveva percorso il sentiero avrei dovuto vederla in quello spazio aperto.
Notai quella specie di nebbiolina attorno alle luci al neon del parcheggio. Arrivai sempre correndo nella spianata e mi guardai velocemente attorno. Vidi diverse porte da calcio e la rete metallica dietro la postazione del ricevitore.
Ma nessuna donna.
Maledizione.
L’avevo persa. Ancora una volta. Maledizione. Avevo il morale a terra. Non so. Voglio dire, a pensarci bene, a che scopo? Quella faccenda era una stupidaggine, davvero. Abbassai lo sguardo sui piedi, che mi facevano un male da cani. Sotto quello destro avvertii qualcosa che doveva essere un rivolo di sangue. Mi sentivo un idiota. Un idiota sconfitto, se vogliamo dirla tutta. Feci per voltarmi…
Aspetta un momento.
In lontananza, sotto le luci del parcheggio, c’era un’auto. Isolata, per conto suo. Annuii seguendo il filo dei miei pensieri. Diciamo che quell’auto apparteneva a una donna. Perché no? In caso contrario, be’, nulla di perso e nulla di guadagnato. Ma se era così, se la sconosciuta aveva parcheggiato là, allora la cosa cominciava ad avere un senso. Lei parcheggia, attraversa il boschetto e va a mettersi di fronte a casa mia. Perché avrebbe dovuto fare tutto questo non riuscivo a immaginarlo. Ma per il momento decisi di regolarmi di conseguenza.
Allora, se le cose stavano così, se quella cioè era la sua auto, dovevo concludere che lei non se n’era ancora andata via. A me non la si fa. Che cos’era successo, quindi? Lei si accorge di essere stata vista, si mette a correre, imbocca il sentiero in senso opposto…
… e si rende conto che potrei seguirla.
Stavo quasi per schioccare le dita. La donna del mistero doveva sapere che ero cresciuto in zona e che quindi potevo ricordarmi del sentiero. In tal caso, se avessi previsto (come in effetti avevo fatto) che lei sarebbe passata di lì, l’avrei sorpresa nel piazzale. Lei allora in che modo avrebbe reagito?
Ci pensai su e la risposta giunse abbastanza in fretta.
Si sarebbe nascosta tra la vegetazione ai due lati del sentiero.
La donna misteriosa probabilmente in quel momento mi stava osservando.
Lo so bene che un ragionamento del genere poteva a malapena considerarsi un’esile congettura: ma sembrava giusto, giustissimo. Che fare, allora? Presi un respiro profondo e dissi ad alta voce: «Maledizione!». Poi incurvai le spalle come se mi fossi sgonfiato, cercando comunque di non esagerare, e mi trascinai stancamente lungo il sentiero in direzione di casa Zucker, a capo chino ma lanciando occhiate a destra e a sinistra. Camminai con cautela, con le orecchie tese a cogliere anche il minimo fruscio.
Ma la notte rimaneva silenziosa.
Al termine del sentiero continuai a camminare come per tornare a casa ma, quando l’oscurità tornò ad avvolgermi, mi buttai a terra e strisciando sotto l’altalena come un incursore tornai all’imboccatura del sentiero. E lì mi fermai in attesa.
Non so quanto tempo passò. Non più di due o tre minuti, forse. Stavo quasi per andarmene quando udii il rumore. Ero immobile, bocconi ma con il capo sollevato. La sagoma si sollevò dirigendosi verso il sentiero. Mi alzai in piedi, cercando di non fare rumore, ma era praticamente impossibile. La donna si voltò di scatto verso il punto da cui era venuto il rumore e mi vide.
«Aspetta» le gridai. «Voglio solo parlarti.»
Ma lei si era già messa a correre in direzione del boschetto, dove la vegetazione era particolarmente fitta e regnava l’oscurità. L’avrei potuta perdere di vista con facilità, e non volevo correre di nuovo quel rischio. Forse non l’avrei scorta, ma certo l’avrei sentita.
Mi lanciai in mezzo al boschetto e andai quasi subito a sbattere contro un albero. Vidi le stelle. Che mossa idiota era stata, ragazzi! Mi fermai ad ascoltare.
Silenzio.
Si era fermata, per nascondersi un’altra volta. E adesso?
Doveva essere vicina. Cercai di prendere una decisione, ma ci rinunciai subito. E mi tuffai nel punto dal quale mi era arrivato il rumore, a braccia e gambe spalancate per coprire il maggior spazio possibile. Atterrai su un cespuglio.
Ma con la mano sinistra toccai qualcos’altro.
Lei cercò di divincolarsi ma le mie dita si serrarono attorno alla sua caviglia. Con l’altra gamba la donna provò a scalciare ma io non mollai la presa, come un cane che serra le mandibole su un osso.
«Lasciami!» gridò.
Non riconobbi la voce, ma non le lasciai la caviglia.
«Ma cosa… Lasciami!»
No. Mi puntellai come potei al suolo e la tirai verso di me. Il buio era ancora fitto, ma i miei occhi cominciavano ad abituarsi all’oscurità. Detti un altro strattone e lei si girò sulla schiena. Ormai eravamo abbastanza vicini l’uno all’altra e finalmente avrei potuto guardarla in viso.
Impiegai qualche secondo per registrare quell’immagine. Il ricordo risaliva a tanto tempo prima, anzitutto. Il viso, o almeno la parte del viso che riuscivo a vedere, era cambiato. Sembrava diversa. Ma l’avevo riconosciuta dal modo in cui i capelli le erano caduti sul viso durante la colluttazione. Mi era quasi più familiare dei lineamenti della donna, quel particolare, quella vulnerabilità della posa che aveva assunto, il suo modo di evitare di incrociare i nostri sguardi. E com’è naturale, abitando la donna in quella casa che avevo sempre automaticamente associato a lei, la sua immagine era rimasta nelle primissime posizioni del mio archivio mnemonico.
La donna scosse il capo per allontanarsi i capelli dagli occhi e sollevò lo sguardo su di me. E io tornai con la memoria ai tempi della scuola, quell’edificio di mattoni lontano non più di un paio di centinaia di metri dal punto in cui ci trovavamo. Ora forse ciò che era successo cominciava ad avere una sua logica. La donna misteriosa se n’era stata davanti alla casa in cui un tempo aveva abitato.
Era Dina Levinsky la donna misteriosa.