33

Qualcosa non andava, proprio non andava.

Le strade si facevano via via più familiari e non le notavo quasi. Ero nervosissimo, eccitato, il dolore alle costole sembrava scomparso. Rachel era assorbita dal suo palmare, continuava ad armeggiare con lo stilo, piegava la testa da una parte per leggere meglio. Allungò una mano sul sedile posteriore e prese l’atlante mondiale di Zia. Poi, tenendo fra i denti lo stilo, cominciò a tracciare il nostro itinerario cercando forse di capirci qualcosa. Magari però, stava solo prendendo tempo, per evitare che le facessi un’inevitabile domanda.

La chiamai, piano. Lei mi guardò battendo le ciglia, poi riportò lo sguardo sulla carta stradale.

«Sapevi del CD-ROM prima di venire qui?» le chiesi.

«No.»

«Conteneva delle foto di te davanti all’ospedale dove lavoro.»

«Me l’hai detto.»

Puntò nuovamente lo stilo sul palmare.

«Sono vere quelle foto?»

«Vere?»

«Voglio dire, sono state alterate al computer, roba del genere… oppure eri proprio tu davanti a quell’ospedale due anni fa?»

Rachel rimase a capo chino ma con la coda dell’occhio notai che teneva le spalle curve. «Gira a destra» mi disse. «Lassù.»

Eravamo in Glen Avenue e la faccenda mi intrigava sempre più perché più in su, a sinistra, c’era il mio vecchio liceo. L’avevano ristrutturato quattro anni prima, aggiungendovi una piscina e una seconda palestra. La facciata era stata volutamente invecchiata, anche con l’aggiunta di rampicanti, conferendo all’edificio un aspetto austero, quasi a voler ricordare ai ragazzi di Kasselton ciò che i genitori si attendevano da loro.

«Rachel?»

«Quelle foto sono autentiche, Marc.»

La cosa non mi stupì, non so perché, forse cercavo di prendere tempo con me stesso. Mi stavo avventurando in acque pericolosissime, sapevo che le risposte avrebbero modificato nuovamente la situazione, avrebbero mandato tutto a gambe all’aria proprio quando speravo di rimettermi in carreggiata. «Credo di avere diritto a una spiegazione» dissi.

«Certo.» Chinò il capo sullo schermo del palmare. «Ma non adesso.»

«Proprio adesso, invece.»

«Dobbiamo concentrarci su ciò che ci aspetta.»

«Non mi sfottere, ti prego. Sto solo guidando e riesco a fare due cose contemporaneamente.»

«Io forse no» disse lei sottovoce.

«Che ci facevi davanti a quell’ospedale, Rachel?»

«Rallenta!»

«Perché?»

Eravamo in vista dei semafori di Kasselton Avenue, che a quell’ora di notte lampeggiavano. Mi voltai perplesso verso di lei. «Da che parte vado?»

«A destra.»

Mi si gelò il sangue nelle vene. «Non capisco.»

«L’auto si è fermata di nuovo.»

«Dove?»

Rachel finalmente sollevò gli occhi e incrociò il mio sguardo. «A meno che non stia leggendo male il segnale, sono a casa tua.»


Svoltai a destra, non avevo più bisogno delle indicazioni di Rachel, che teneva gli occhi fissi sul palmare. Eravamo a poco più di un chilometro di distanza, ormai. I miei genitori avevano percorso questa strada per andare in ospedale, il giorno in cui ero nato, e mi chiesi quante volte da quel giorno l’avessi percorsa io. Strano pensiero, ma la mente sa dove deve andare.

Girai a destra sulla Monroe, la casa dei miei era sulla sinistra. Le luci erano spente, tranne ovviamente quella del piano inferiore, regolata da un timer che l’accendeva alle sette del pomeriggio e la spegneva alle cinque del mattino. La lampadina era una di quelle a lunga durata e risparmio d’energia, che somigliano a uno sbaffo di gelato. Mamma si vantava della loro durata. Aveva letto da qualche parte che un altro efficace sistema per tenere i ladri alla larga era quello di lasciare la radio accesa, e il suo vecchio apparecchio era costantemente sintonizzato su una di quelle stazioni che trasmettono chiacchiere in continuazione. Ma purtroppo la radio di notte la teneva sveglia, e ora lei la regolava a un volume così basso che un ladro avrebbe dovuto premere l’orecchio contro l’apparecchio per convincersi a stare alla larga da casa nostra.

Stavo per svoltare in Darby Terrace quando Rachel mi disse di rallentare.

«Si stanno muovendo?» le chiesi.

«No, il segnale continua a venire da casa tua.»

Guardai in fondo all’isolato e cominciai a riflettere. «Per arrivare qui hanno seguito un percorso complicato» dissi poi.

«Lo so.»

«Forse hanno trovato la tua microspia.»

«È proprio quello che stavo pensando.»

L’auto si mosse lentamente. Eravamo davanti alla casa dei Citron, due prima della mia. Non si vedeva alcuna luce. Rachel si mordicchiò il labbro inferiore. Ora ci trovavamo davanti alla casa dei Kadison, appena prima della mia. Era tutto “troppo tranquillo”, come si suol dire, come se il mondo si fosse congelato, come se tutto ciò che si vede, perfino le cose animate, si stesse sforzando di rimanere in silenzio e immobile.

«Deve essere una trappola» disse.

Stavo per chiederle che cosa fare, se cioè fare marcia indietro oppure scendere e andare a piedi o ancora chiamare la polizia, quando la prima pallottola mandò in frantumi il parabrezza e mi sentii il viso frustato dai frammenti di vetro. Udii un breve grido. Senza riflettere razionalmente chinai il capo e alzai un braccio. Poi abbassai lo sguardo e vidi del sangue.

«Rachel!»

La seconda pallottola mi sibilò così vicina alla testa da sfiorarmi i capelli e si conficcò nel sedile con un rumore sordo. L’istinto prese di nuovo il sopravvento, ma questa volta avevo una missione, una vaga indicazione. Premetti sull’acceleratore e l’auto sembrò tuffarsi in avanti.

Il cervello umano è uno strumento stupefacente che nessun computer può eguagliare, è in grado in qualche centesimo di secondo di elaborare milioni di stimoli. Ed era probabilmente ciò che in quel momento stava facendo il mio. Ero chino al posto di guida e qualcuno mi stava sparando. D’istinto il mio cervello avrebbe voluto darsi alla fuga, ma qualcosa lungo il percorso evolutivo realizzò che forse forse ci sarebbe potuta essere una mossa migliore.

Il processo mentale si svolse, secondo una mia stima approssimativa, in meno di un decimo di secondo. Avevo il piede sull’acceleratore, le gomme fischiavano. Pensai a casa mia, al suo aspetto familiare, al punto da cui provenivano le pallottole. Sì, lo so che cosa state pensando. Forse il panico accelera le funzioni cerebrali, non so, ma realizzai che se a sparare fossi stato io e avessi atteso l’arrivo dell’auto, mi sarei nascosto dietro i cespugli che dividono il nostro giardino da quello dei nostri vicini, i Christie. Questi cespugli sono grossi e rigogliosi. Se avessi imboccato il vialetto, l’omicida avrebbe potuto farci fuori colpendo dalla parte del passeggero. Ma, dopo la mia esitazione, temette che facessi marcia indietro; era ancora in una buona posizione, anche se non proprio ideale, per spararci di fronte.

Quindi sterzai e puntai decisamente contro i cespugli.

Fu esploso un terzo colpo che, a giudicare dal suono, doveva avere colpito qualcosa di metallico come il radiatore. Lanciai una rapidissima occhiata a Rachel, una specie di istantanea visiva: si stava premendo una mano contro un lato del capo, che teneva basso, e tra le dita le colava del sangue. Mi sentii mancare, ma tenni l’acceleratore premuto muovendo la testa avanti e indietro, come se avessi potuto in tal modo disturbare la mira di chi stava sparando.

I fari dell’auto illuminarono i cespugli.

Vidi una camicia a scacchi.

Mi successe qualcosa. Come ho già detto, l’equilibrio mentale è una cordicella sottile e la mia si era già spezzata ma, in quel frangente, ero rimasto calmo. Questa volta invece mi sentii esplodere dentro come un ruggito di rabbia e paura. Premetti ancora di più sul pedale, quasi volessi conficcarlo nel pianale, e udii un grido di sorpresa. L’uomo con la camicia di flanella a scacchi tentò di saltare di lato.

Ma ero pronto.

Girai il volante verso di lui, come se ci trovassimo su un autoscontro. Vi fu uno schianto, ma il rumore risultò quasi attutito, e udii un grido. Il cespuglio s’impigliò nel paraurti. Cercai l’uomo con la camicia a scacchi.

Nulla. Avevo già la mano sulla maniglia, per aprire e corrergli dietro, ma Rachel mi bloccò. «No!»

Era viva!

Allungò una mano per inserire la marcia indietro. «Vai indietro!»

L’ascoltai. Non so prima a che cosa stessi pensando, quello era armato e io no. Nonostante l’impatto non avrei saputo dire se era morto, ferito o che cosa.

Feci marcia indietro. Notai che la via buia dove abitavo si era nel frattempo illuminata, spari e stridio di gomme non sono rumori abituali a Darby Terrace. La gente si era svegliata, aveva acceso la luce; in quel momento stavano sicuramente chiamando la polizia.

Rachel si raddrizzò sul sedile e io mi sentii immensamente sollevato. Aveva in mano una pistola e l’altra la teneva ancora premuta sulla ferita. «È l’orecchio» mi disse, e ancora una volta, per deformazione professionale, mi misi a pensare a come riparare il danno.

«Eccolo!» gridò.

Mi voltai di scatto. L’uomo dalla camicia a scacchi si trascinava lungo il vialetto, io girai la macchina per illuminarlo con i fari, ma quello scomparve dietro l’angolo. Guardai Rachel.

«Torna indietro, non sono sicura che sia solo.»

Eseguii. «E adesso?»

Lei si tolse la mano dalla ferita per portarla sulla maniglia dello sportello. «Rimani qui.»

«Sei matta?»

«Tieni il motore acceso e muoviti ogni tanto, facciamogli credere che siamo ancora in macchina. Io cerco di sorprenderli.»

E prima che potessi protestare era già scivolata fuori, con il sangue che le colava sul viso. Seguendo le sue istruzioni tenni il motore acceso e, sentendomi un perfetto idiota, avanzai con l’auto di un paio di metri per poi fare retromarcia.

Pochi secondi dopo Rachel scomparve alla mia vista.

Ancora qualche secondo e udii altri due spari.


Dal suo punto d’osservazione dietro la casa Lydia aveva seguito l’intera scena.

Pavel aveva sparato troppo presto, commettendo un errore. Nascosta dietro una catasta di legna, lei non era riuscita a vedere chi c’era nell’auto, ma quanto era successo l’aveva stupita: l’autista non solo aveva individuato Pavel, ma l’aveva anche ferito.

Pavel entrò nel suo campo visivo zoppicando, gli occhi di lei si erano così adattati all’oscurità che riusciva perfino a vedere il sangue che gli rigava il viso. Lydia sollevò un braccio, facendogli segno di avvicinarsi, lui cadde e cominciò a trascinarsi al suolo. La donna non perse d’occhio il retro della casa, ma l’auto sarebbe arrivata dalla strada di fronte. Dietro aveva una staccionata, in caso di fuga sarebbe passata dal cancelletto della villa alle sue spalle.

Pavel continuava a trascinarsi a terra e lei gli fece segno di sbrigarsi, continuando a tenere d’occhio la strada e chiedendosi che cosa avrebbe fatto quella ex federale. I vicini ormai si erano svegliati, cominciavano ad accendersi le luci, stava per arrivare la polizia.

Doveva sbrigarsi.

Pavel raggiunse la catasta di legna e rotolò accanto a lei, rimanendo per un momento sdraiato di schiena e respirando a fatica. Poi si mise in ginocchio accanto a Lydia, con gli occhi fissi nel buio. «Gamba rotta» disse con una smorfia di dolore.

«Ci penseremo dopo. Dov’è la tua pistola?»

«Sbarazzato.»

Impossibile risalire a loro dalla pistola, pensò lei, quindi nessun problema. «Ho un’altra arma da darti, tu continua a tenere d’occhio la strada» gli disse.

Lui annuì e con gli occhi cercò di penetrare l’oscurità.

«Allora?» disse Lydia, avvicinandosi.

«Non sicuro.»

Mentre Pavel continuava a tenere d’occhio la strada, lei gli poggiò la canna della pistola contro la parte morbida dietro l’orecchio sinistro e premette il grilletto, ficcandogli due proiettili nel cervello. L’uomo crollò al suolo come una marionetta alla quale abbiano tagliato i fili.

Poi rimase a osservarlo. Meglio così tutto sommato, pensò, il piano B era probabilmente migliore del piano A. Se Pavel avesse ucciso quella dorma, una ex agente federale, la polizia avrebbe intensificato le ricerche dell’uomo dalla camicia a scacchi e l’indagine sarebbe andata avanti per mesi. Così invece, con Pavel ucciso dalla stessa pistola usata un anno e mezzo prima nella sparatoria in casa Seidman, la polizia avrebbe concluso che dietro tutta la faccenda c’era proprio Seidman o quella Rachel o entrambi e li avrebbe arrestati. Le accuse non avrebbero retto a lungo, ma in ogni caso gli investigatori avrebbero smesso di cercare altri responsabili. E loro avrebbero potuto scomparire con i soldi.

Il caso era chiuso.

Lydia udì all’improvviso uno stridio di pneumatici e gettò la pistola nel giardino del vicino, evitando di lasciarla in vista sul posto, sarebbe sembrato troppo ovvio. Poi frugò in fretta nelle tasche di Pavel. C’era naturalmente il rotolo di banconote che lei gli aveva appena dato, e non lo prese: sarebbe stato un altro elemento che avrebbe avvalorato la messinscena.

Non aveva altro in tasca: non aveva portafogli, documenti d’identità, foglietti o altri elementi dai quali risalire a lei. Pavel aveva eseguito gli ordini. Altre finestre cominciavano a illuminarsi, le restava poco tempo. Si alzò in piedi.

«Polizia federale! Getta a terra la pistola!»

Maledizione! Una voce di donna. Lydia sparò nella direzione dalla quale le era sembrato che giungesse la voce e si lanciò al riparo dietro la catasta di legna mentre la federale rispondeva al fuoco. Lei era bloccata. E ora? Allungò un braccio alle sue spalle e sollevò il gancio del cancelletto del vicino.

«Va bene, mi arrendo!» gridò.

Poi saltò in piedi, puntando nel buio la semiautomatica e premendo il grilletto il più velocemente possibile. Le risuonò nelle orecchie il fischio dei proiettili, ma lei non capì se la donna stava rispondendo al fuoco. Probabilmente no. Ma non c’era tempo da perdere, il cancelletto era aperto e lei l’imboccò di corsa.

Corse per un centinaio di metri, Heshy l’attendeva nel giardino di una villetta e insieme, stando a capo chino, seguirono una specie di sentiero fiancheggiato da cespugli potati di recente. Era in gamba, Heshy: si preparava sempre al peggio. Aveva lasciato l’auto in un vicolo cieco due isolati più avanti.

«Stai bene?» le chiese, quando furono a distanza di sicurezza.

«Sì, orsacchiotto.» Lydia trasse un profondo respiro, chiuse gli occhi e si mise comoda sul sedile. «Proprio bene.»

Ma, arrivati all’autostrada, si chiese che fine avesse fatto il cellulare di Pavel.


La mia prima reazione era stata ovviamente di panico.

Aprii lo sportello per lanciarmi all’inseguimento, ma poi il cervello riprese il controllo delle operazioni e mi bloccò. Una cosa era il coraggio o anche la temerarietà, un’altra il suicidio. Non avevo una pistola, al contrario di Rachel e di chi le aveva sparato, e correre disarmato in suo soccorso sarebbe stato per lo meno inutile.

Ma non potevo restarmene lì a far niente.

Richiusi lo sportello e ancora una volta affondai il piede sul pedale dell’acceleratore. L’auto si tuffò in avanti. Sterzai nel giardinetto di casa mia, gli spari erano venuti dal retro e fu lì che puntai, facendo strage di cespugli e aiuole. Erano lì da talmente tanto tempo che mi fecero quasi pena.

I fari dell’auto danzavano nell’oscurità. Sterzai a destra, con l’intento di aggirare il grosso olmo ma dovetti rinunciare, era troppo vicino alla casa e l’auto non ce l’avrebbe fatta a passare. Ingranai la retromarcia e affondai nuovamente il piede sul pedale, con le ruote che facevano schizzare il terriccio umido del prato avendo difficoltà a fare presa. Invasi la proprietà dei Christie e investii il loro nuovo gazebo: Bill Christie si sarebbe incazzato a morte.

Ero sul retro, ora, e i fari illuminavano la staccionata dei Grossman. Sterzai a destra, vidi Rachel e inchiodai. Se ne stava accanto alla catasta di legna, che c’era già quando comprammo la casa, ma non l’avevamo mai usata e il legno ormai doveva essere marcio e pieno di tarli. I Grossman si erano lamentati, temendo che i tarli potessero attaccare anche la loro staccionata, e io avevo promesso che avrei fatto pulizia, senza però mantenere la promessa.

Rachel teneva la pistola puntata verso terra, l’uomo con la camicia a scacchi giaceva ai suoi piedi simile a un sacco d’immondizia. Non ebbi bisogno di abbassare un finestrino, quando ci avevano sparato contro il parabrezza si era sbriciolato. Tutto taceva. Rachel sollevò una mano, facendomi segno che non c’era pericolo. Uscii velocemente dall’auto.

«Gli hai sparato tu?» le chiesi, e mi sembrò una domanda retorica.

Era morto, e non serviva una laurea in Medicina per rendersene conto. La parte posteriore del cranio non c’era più e sulla legna si vedevano frammenti di materia cerebrale, bianco-rosea e coagulata. Non sono un esperto di balistica, ma a giudicare dall’effetto devastante doveva essersi trattato di un proiettile di grosso calibro, oppure esploso a bruciapelo.

«C’era qualcuno con lui» disse Rachel. «Gli hanno sparato e poi sono scappati.»

Abbassai gli occhi sul morto, sentendomi nuovamente ribollire di rabbia. «Chi è?»

«Gli ho frugato nelle tasche, c’è un rotolo di banconote ma niente documenti.»

Avrei voluto prenderlo a calci, scuoterlo per chiedergli che cosa avesse fatto a mia figlia. Lo guardai in viso, rovinato ma bello, chiedendomi che cosa avesse portato quell’uomo in quel posto, perché le nostre vite si fossero incrociate. E fu allora che notai qualcosa di strano.

Piegai il capo di lato.

«Che c’è, Marc?»

Mi accovacciai a guardare da vicino. Non mi facevano certo impressione la materia cerebrale, le schegge d’osso o i tessuti rossi di sangue, avevo visto traumi peggiori. Esaminai il naso dello sconosciuto ridotto in pratica a un ammasso di stucco: l’avevo già notato la volta precedente. Un pugile, pensai, o uno che aveva avuto un’esistenza particolarmente dura. Aveva il capo piegato in un’angolatura insolita, la bocca era spalancata. Era stata proprio quest’ultima ad attirare la mia attenzione.

Infilai le dita tra mascella e palato e cercai di aprirla ancora di più.

«Che diavolo stai facendo?» mi chiese Rachel.

«Hai una torcia elettrica?»

«No.»

Ma non aveva importanza. Gli sollevai il capo, girai la bocca verso l’auto e alla luce dei fari riuscii a vedere chiaramente.

«Marc?»

«Mi ero chiesto come mai si fosse presentato a viso scoperto.» Chinai il capo verso la sua bocca, cercando di non farmi ombra. «Avevano preso mille precauzioni per non farsi identificare, alterando la voce al telefono, applicando alla fiancata del camioncino un’insegna rubata, fondendo insieme due mezze targhe. E questo invece si lasciava vedere in faccia.»

«Di che stai parlando?»

«La prima volta che l’ho visto ho pensato che si fosse camuffato, e la cosa avrebbe avuto una sua logica. Ma ora sappiamo che non era così: perché allora non si è coperto la faccia?»

Si sorprese nel vedermi prendere l’iniziativa, ma lo stupore durò poco e Rachel cercò di seguire il mio ragionamento. «Perché non aveva precedenti penali.»

«Forse. Oppure…»

«Oppure che cosa, Marc? Non abbiamo molto tempo.»

«I denti.»

«In che senso, i denti?»

«Guarda i molari. Le capsule sono di alluminio.»

«Sono di che cosa?»

Sollevai il capo. «Guarda il molare superiore destro e la cuspide superiore sinistra. Noi adoperiamo capsule d’oro, sebbene oggi si usi molto anche la porcellana: il dentista ti prende l’impronta in modo da farti un lavoro il più preciso possibile. Queste invece sono capsule di alluminio, e non sono certo fatte su misura. Si mettono sui denti e si fissano con le pinze. All’estero ho partecipato a un paio di interventi ricostruttivi, e di bocche con dentro quella roba ne ho viste diverse. Le chiamano “barattoli di latta” e qui negli Stati Uniti non le usano, a parte forse in via provvisoria.»

Poggiò un ginocchio a terra accanto a me. «È straniero?»

«Direi dell’ex blocco sovietico, roba del genere. Probabilmente viene dai Balcani.»

«Avrebbe un senso. Nei nostri archivi e nei nostri computer non ci sarebbe traccia delle sue impronte digitali o dei dati somatici. La polizia impiegherebbe una vita per identificarlo, a meno che non li aiuti qualcuno.»

«Cosa che probabilmente non accadrà.»

«Mio Dio, per questo l’hanno ucciso, perché sanno che non potremo identificarlo.»

Udimmo il suono delle sirene che si avvicinavano, ci guardammo.

«Devi prendere una decisione, Marc. Se rimaniamo qui finiamo in carcere; quelli penseranno che l’abbiamo ucciso perché era un nostro complice e secondo me i rapitori lo sapevano. I vicini dichiareranno che era tutto tranquillo finché siamo arrivati noi, e che da quel momento hanno udito stridio di pneumatici e colpi di pistola. Alla fine riusciremo comunque a spiegare tutto…»

«Ma ci vorrà del tempo» dissi.

«Sì.»

«E anche se abbiamo fatto dei passi avanti, se passerà troppo tempo sarà stato tutto inutile. La polizia si muoverà a modo suo e anche se deciderà di aiutarci, anche se ci crederà, farà troppo rumore.»

«C’è un’altra cosa» osservò lei.

«Cioè?»

«I rapitori ci hanno teso una trappola, sapevano della microspia.»

«Questo l’avevamo immaginato.»

«Ora però, Marc, mi chiedo come hanno fatto a scoprirla.»

Pensai alla parte del messaggio in cui dicevano di avere un informatore all’interno della polizia. «C’è stata una soffiata?»

«A questo punto non l’escluderei.»

Scattammo entrambi verso l’auto. Appoggiai una mano sul braccio di Rachel, lei sanguinava ancora e aveva l’occhio talmente gonfio che le palpebre si erano quasi chiuse. La guardai e di nuovo in me ebbe il sopravvento qualcosa d’istintivo: il bisogno di proteggerla. «Se scappiamo ci crederanno colpevoli» le dissi. «A me non importa, non ho nulla da perdere. Ma tu?»

«Anch’io non ho nulla da perdere» rispose tranquilla.

«Hai bisogno di un dottore.»

Lei abbozzò un sorriso. «Tu non sei un dottore?»

«Anche questo è vero.»

Non avevamo tempo di vagliare tutti i pro e i contro, dovevamo muoverci. Salimmo in auto, e facendo un ampio giro tornammo indietro passando da Woodland Road. Nella mia mente cominciavano a farsi strada dei pensieri, pensieri chiari, razionali. E, quando considerai dove ci trovavamo e ciò che stavamo facendo, la realtà mi schiacciò al punto da farmi venire voglia di fermare l’auto.

Rachel se ne accorse.

«Che c’è?» mi chiese.

«Perché stiamo correndo?»

«Non capisco.»

«Speravamo di trovare mia figlia o, quanto meno, chi l’ha rapita. Avevamo detto che c’era una piccola possibilità.»

«Sì.»

«Ma non capisci? Questa possibilità, anche ammesso che vi fosse, ora non c’è più. Quel tipo è morto. Sappiamo che era straniero, e allora? Non sappiamo chi era, siamo in un vicolo cieco e non abbiamo alcuna traccia da seguire.»

Un’espressione maliziosa si disegnò all’improvviso sul volto di Rachel, che infilò una mano in tasca e ne estrasse qualcosa. Un cellulare. Non era mio e nemmeno suo. «Forse l’abbiamo, una traccia» disse.

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