«Fermi dove siete!»
«Sono un’agente dell’FBI» disse Rachel.
«Chiudi il becco.»
Sempre tenendoci con il viso nella polvere ci fece mettere le mani sulla testa con le dita intrecciate. Poi mi puntò un ginocchio contro la spina dorsale e feci una smorfia di dolore, quindi, facendo leva sul mio corpo, mi tirò indietro le braccia staccandomele quasi dalle spalle. I polsi mi furono legati a regola d’arte con una striscia di nylon flessibile, me li sentivo come quei giocattoli legati in maniera ridicolmente complicata per non farli rubare.
«Unisci i piedi.»
Un’altra manetta di plastica mi legò le caviglie. L’uomo si puntellò sulla mia schiena per sollevarsi in piedi e si rivolse a Rachel. Stavo per dire qualcosa di stupidamente cavalleresco come “Non la toccare!”, ma sapevo che nella migliore delle ipotesi sarebbe stato inutile. E me ne restai immobile.
«Sono un’agente federale» disse Rachel.
«L’avevo sentito anche la prima volta.»
Le puntò un ginocchio contro la schiena per unirle le mani e lei fece a sua volta una smorfia di dolore.
«Ehi!» gridai.
Quello m’ignorò. Allora mi voltai a guardarlo bene per la prima volta, e fu come tuffarsi nel passato prossimo. La Camaro era sua, indubbiamente. Aveva i capelli simili a quelli dei giocatori di hockey degli anni Ottanta, sembravano freschi di permanente ed erano di uno strano colore biondo-arancione portati dietro le orecchie con un taglio che l’ultima volta che avevo visto era stato in un video di Night Ranger. I baffi erano di un biondo quasi bianco e assomigliavano a una macchia di latte. Sulla T-shirt si leggeva UNIVERSITY OF SMITH AND WESSON. I jeans erano di un blu innaturalmente carico e sembravano rigidi.
«Alzati, signorina, io e te andiamo a fare due passi» disse, dopo avere legato i polsi a Rachel.
Lei cercò di dare alla sua voce un tono autorevole. «Lei non mi sta a sentire» disse, mentre i capelli le ricadevano davanti agli occhi. «Sono Rachel Mills…»
«E io sono Verne Dayton. Allora?»
«Sono un’agente federale.»
«Sul tesserino, veramente, si legge “in pensione”.» Verne Dayton sorrise. Non era sdentato, ma non avrebbe nemmeno potuto posare per la pubblicità di un dentifricio. L’incisivo destro era completamente piegato all’interno come una porta scardinata. «Piuttosto giovane per essere già in pensione, non trovi?»
«Continuo a occuparmi dei casi più importanti. All’FBI sanno che sono venuta qui.»
«Davvero? Non mi dire. Magari c’è un mucchio di agenti che ti aspettano nelle vicinanze e se fra tre minuti non ti vedranno tornare faranno irruzione qui dentro. È così, vero, Rachel?»
Le aveva visto il bluff e lei adesso non sapeva come uscirne.
«Alzati» le disse ancora, e questa volta la tirò su per le braccia.
Rachel si sollevò a fatica.
«Dove la stai portando?» gli chiesi.
Non mi rispose. Si diressero verso il fienile. «Ehi!» gridai, in tono autorevole. «Ehi, tornate qui!» Ma quelli non si fermarono. Rachel cercava di opporsi, ma aveva le mani legate dietro la schiena e ogni volta che si muoveva troppo lui gliele sollevava costringendola a piegarsi. Alla fine lei smise di resistere.
Avevo i nervi tesi per la paura. Cercai freneticamente qualcosa, qualsiasi cosa, per liberarmi. Le pistole? No, Verne se le era già prese e, anche in caso contrario, che cosa avrei potuto fare? Sparare con i denti? Pensai di muovermi rotolando sulla schiena, ma non sapevo bene a che cosa mi sarebbe servito. E allora? Presi a strisciare come un verme verso il trattore, cercando una lama o qualcosa del genere da usare per tagliare il nylon che mi serrava polsi e caviglie.
Udii in lontananza scricchiolare la porta del fienile e girai di scatto il capo, in tempo per vederli entrare. La porta si chiuse alle loro spalle e lo scricchiolio svanì nel silenzio. Frattanto era cessata anche la musica, doveva essere un CD o una cassetta. Tutto taceva e non vedevo più Rachel.
Dovevo liberarmi le mani.
Avanzai strisciando al suolo con il sedere sollevato e, facendo forza con le gambe, raggiunsi il trattore. Allora cercai una lama o un bordo tagliente. Nulla. Girai lo sguardo verso il fienile.
«Rachel!»
L’eco della mia voce nel silenzio fu l’unica risposta. Il mio cuore cominciò a fare capriole.
Oh Dio! E ora?
Mi voltai sulla schiena mettendomi a sedere e poi, facendo forza con le gambe, mi appoggiai al trattore. Ora vedevo bene il fienile, ma non avevo risolto un bel niente. Continuavo a non udire alcun rumore, alcun movimento. Cercai disperatamente con gli occhi qualcosa che potesse ridarmi la libertà di movimento, ma invano.
Mi venne l’idea di cercare nella Camaro. Uno fissato per le armi come quel Verne Dayton probabilmente andava in giro con due o tre pistole e magari ne teneva una nell’auto. Ma, anche se fossi arrivato in tempo alla Camaro, come avrei aperto lo sportello? Come avrei cercato la pistola? E, anche ammettendo che l’avessi trovata, come avrei sparato?
No, dovevo come prima cosa liberarmi di quelle manette.
Cercai per terra… non so nemmeno io che cosa. Un sasso affilato, una bottiglia di birra rotta. Qualcosa, insomma. Mi chiesi quanto tempo fosse passato da quando erano scomparsi alla mia vista, che cosa quello là stesse facendo a Rachel. Temevo che il cuore mi si fermasse da un momento all’altro.
«Rachel!»
Nell’eco di quell’invocazione c’era tutta la mia disperazione. Ero terrorizzato. Ma nemmeno quella volta ebbi una risposta.
Che cosa stava succedendo là dentro?
Cercai nuovamente qualche bordo affilato nel trattore, qualcosa da usare per liberarmi le mani. C’era della ruggine, molta ruggine. Era il caso di provare? Se avessi strofinato quelle rudimentali manette contro un angolo arrugginito sarei riuscito a spezzarle? Ne dubitavo, ma non avevo alternativa.
Riuscii a mettermi in ginocchio, poi portai i polsi a contatto con l’angolo arrugginito e cominciai a muoverli su e giù, come un orso che si gratta la schiena contro un albero. Ma non controllai il movimento e mi tagliai; sentii il dolore propagarsi per tutto il braccio. Mi voltai a guardare la stalla e drizzai le orecchie, ma continuai a non udire nulla.
Allora ripresi a strofinare i polsi contro il trattore.
Ma procedevo a naso poiché, anche girando al massimo la testa, non riuscivo a vedere i polsi. Stavo ottenendo qualche risultato? Non lo sapevo. Ma non avevo altre speranze e quindi continuai a fare su e giù con le braccia, come un Ercole che tenta di spezzare le catene in un film mitologico di second’ordine.
Non so per quanto tempo andai avanti così, forse non più di due o tre minuti, anche se mi sembrò una vita. Il legaccio che mi serrava i polsi non si era spezzato né allentato. Ma a fermarmi fu un rumore, quello della porta del fienile che si apriva. Per un momento non vidi nulla, poi apparve sulla porta il bifolco capellone. Da solo. E venne verso di me.
«Dov’è Rachel?»
Verne Dayton senza dire una parola si chinò a controllare il legaccio di plastica. Avvertivo la sua puzza, sapeva di erba secca e sudore. Lui mi stava controllando le mani. Girando lo sguardo vidi a terra una macchia di sangue, era sicuramente il mio. E mi venne all’improvviso un’idea.
Spostai indietro il capo e gli assestai una testata sulla faccia.
So che effetti devastanti può avere un simile colpo, avevo operato dei volti presi a testate.
Ma questa volta le conseguenze furono meno gravi.
Perché ero in una posizione precaria, avevo mani e piedi legati e mi trovavo in ginocchio. Non riuscii a colpirgli il naso e nemmeno altre parti molli del viso, ma la fronte. Si udì un rumore sordo e Verne Dayton barcollò all’indietro imprecando. E io mi trovai completamente sbilanciato in caduta libera, potendo attutire l’impatto soltanto con la faccia. Atterrai sulla guancia destra e battei i denti, ma ormai non avvertivo più il dolore. Voltai gli occhi e lo vidi, se ne stava seduto cercando di schiarirsi le idee: sulla fronte aveva una ferita.
Ora o mai più.
Legato com’ero mi gettai contro di lui, ma non abbastanza velocemente.
Verne Dayton indietreggiò sollevando uno scarpone e, quando fui a distanza utile, me lo schiacciò sulla faccia come se stesse spegnendo i resti di un falò. Caddi all’indietro, lui indietreggiò a distanza di sicurezza e afferrò il fucile.
«Non ti muovere!» Si passò le dita sul taglio in fronte, poi guardò incredulo il sangue. «Ti sei ammattito?»
Ero caduto di schiena e ansavo come una vaporiera. Non mi sembrava di avere qualcosa di rotto ma, ancora una volta, non me ne importava più di tanto. Lui si avvicinò e mi tirò un calcio nelle costole facendomi rotolare sulla pancia. Poi mi afferrò per le braccia e prese a trascinarmi. Tentai di puntare i piedi, ma quello era forte come un bestione e non rallentò nemmeno per salire i gradini della villetta. Mi trascinò su, aprì la porta con una spallata e mi sbatté dentro come un sacco di patate. Poi entrò e chiuse la porta.
Mi guardai attorno e metà di quello che vidi me l’aspettavo, ma non certo il resto. Mi aspettavo di vedere i fucili appesi alla rastrelliera, i moschetti antichi, la doppietta da caccia. C’era anche l’immancabile testa di cervo, una targa incorniciata della National Rifle Association intestata a Verne Dayton e una bandiera americana trapunta. Non mi aspettavo invece di trovarmi in un posto così pulito e arredato con un certo gusto. In un angolo notai un box per bambini, ma i giocattoli non erano sparsi alla rinfusa bensì infilati in uno di quegli armadi in fibra di vetro con i cassetti di diversi colori. E ogni cassetto aveva la sua brava etichetta.
Si sedette e mi guardò, ero a terra bocconi. Lui, con le mani, si mise a posto i capelli, portandoli indietro e tirandoli sopra le orecchie. Aveva il volto affilato. Era proprio il perfetto contadinaccio.
«Sei stato tu a conciarla così?» mi chiese.
Per un attimo non capii di che cosa stesse parlando, poi mi resi conto che si riferiva alle ecchimosi di Rachel. «No.»
«Ti eccita pestare le donne, vero?»
«Tu che cosa le hai fatto?»
Estrasse un revolver, aprì il tamburo e vi infilò una pallottola. Poi lo richiuse, lo fece ruotare e mi puntò l’arma contro la gamba. «Chi ti ha mandato?»
«Nessuno.»
«Vuoi che ti faccia saltare il ginocchio?»
Ne avevo abbastanza. Rotolai sulla schiena, aspettando che premesse il grilletto. Ma lui non sparò e mi lasciò muovere, sempre tenendomi la rivoltella puntata contro. Mi sollevai a sedere, lo guardai fisso e la cosa sembrò sorprenderlo. Fece un passo indietro.
«Dov’è mia figlia?» gli chiesi.
«Che cosa?» Piegò il capo di lato. «Credi di essere divertente?»
Lo guardai negli occhi e capii. Non stava fingendo, non capiva proprio di che cosa stessi parlando.
«Arrivate qui armati» mi disse, arrossendo. «Volevate uccidere me? Mia moglie? I miei bambini?» Sollevò il fucile puntandomelo in faccia. «Spiegami perché non dovrei farvi fuori entrambi e seppellirvi tra gli alberi.»
Bambini. Aveva detto bambini. Qualcosa cominciava a chiarirsi in questo rompicapo. Decisi di azzardare una mossa. «Stammi a sentire» gli dissi. «Mi chiamo Marc Seidman, diciotto mesi fa hanno assassinato mia moglie e rapito mia figlia.»
«Ma di che vai cianciando?»
«Lasciami spiegare, per favore.»
«Aspetta un momento.» Verne si massaggiò il mento, pensieroso. «Mi ricordo di te, ti ho visto in televisione. Ti avevano anche sparato, giusto?»
«Sì.»
«Perché allora ti vuoi fregare i miei fucili?»
Chiusi gli occhi. «Se sono venuto qui non è per fregarti le armi. Sono qui…» ma non sapevo come dirglielo «… sono qui per ritrovare mia figlia.»
Ci impiegò un secondo ad assimilare le mie parole, poi spalancò la bocca. «E tu credi che io abbia qualcosa a che fare con questa storia?»
«Non lo so.»
«Allora è meglio se sputi il rospo.»
Gli spiegai, gli dissi tutto. Anche alle mie orecchie quel racconto sembrava folle, ma Verne stette ad ascoltare dedicandomi la sua completa attenzione. «L’uomo che ha fatto tutto questo, o che è in qualche modo coinvolto, non lo so nemmeno io» dissi alla fine «ha ricevuto sul suo cellulare, che è in mano nostra, una sola telefonata. E veniva da qui, quella chiamata.»
Verne ci rifletté un attimo sopra. «Come si chiama, quest’uomo?»
«Non lo sappiamo.»
«Io telefono a un sacco di gente, Marc.»
«Sappiamo che la telefonata è stata fatta questa notte.»
Verne scosse il capo. «No, lo escludo.»
«Come sarebbe a dire?»
«Non ero a casa, ero in giro a fare consegne e sono tornato circa mezz’ora prima che arrivaste voi. Mi sono accorto che eravate entrati quando Munch, il mio cane, si è messo a ringhiare. Quando abbaia non mi preoccupo, ma se ringhia capisco che c’è qualcuno.»
«Aspetta un momento. Mi stai dicendo che in casa tua nelle ultime ore non c’era nessuno?»
«No, c’erano mia moglie e i bambini, che hanno però sei e tre anni e non credo che abbiano telefonato a qualcuno. E poi conosco Kat, non è il tipo da mettersi a telefonare di notte.»
«Kat?»
«Mia moglie, Kat è il diminutivo di Katarina. È serba.»
«Vuoi una birra, Marc?»
«Con molto piacere, Verne» mi sorpresi a rispondergli.
Verne Dayton mi aveva tagliato il legaccio di plastica e mi stavo massaggiando i polsi. C’era Rachel accanto a me, lui non le aveva fatto del male. Aveva solo voluto separarci, anche perché secondo lui l’avevo ammazzata di botte per costringerla ad aiutarmi. Verne aveva una notevole collezione di armi da fuoco, molte delle quali ancora funzionanti, e c’erano persone un po’ troppo interessate ad averle. Ci aveva quindi scambiato per ladri di armi.
«Una Bud va bene?»
«Certo.»
«E tu, Rachel?»
«No, grazie.»
«Una bibita? Un bicchiere di acqua ghiacciata?»
«L’acqua va benissimo, grazie.»
Verne sorrise, il che non era precisamente un bello spettacolo. «Arriva subito.» Io ripresi a massaggiarmi i polsi, lui se ne accorse e fece un sorriso furbo. «Li usavamo durante la guerra del Golfo, quei legacci di plastica, e ti assicuro che con quelli riuscivamo a tenere a bada gli iracheni.»
Scomparve in cucina e guardai Rachel, che si strinse nelle spalle. Verne tornò con due birre Bud e un bicchiere d’acqua. Distribuì il tutto, sollevò la sua bottiglia facendo cin cin con la mia e si sedette.
«Ho due maschietti, Verne Junior e Perry. Se dovesse succedergli qualcosa…» Fece un fischio e scosse il capo. «Non so come faccia tu la mattina ad alzarti dal letto.»
«Penso a come ritrovare la mia bambina.»
Verne annuì energicamente. «Posso immaginarlo, certo. Ma non bisogna prendersi in giro, non so se mi spiego.» Guardò Rachel. «Sei proprio certa che quel numero di telefono fosse il mio?»
Rachel tirò fuori il cellulare, premette alcuni tasti e poi gli mostrò il piccolo schermo, mentre lui con la bocca tirava fuori dal pacchetto di Winston una sigaretta. Dopo avere letto il numero, Verne scosse il capo. «Non riesco a capire.»
«Speriamo che tua moglie possa esserci utile.»
Annuì lentamente. «Mi ha lasciato un biglietto per farmi sapere che era andata a comprare da mangiare, le piace fare la spesa nelle primissime ore della giornata, di solito va a quell’A P che resta aperto ventiquattro ore su ventiquattro.» S’interruppe e mi accorsi che era tormentato, non gli andava l’idea che sua moglie potesse avere telefonato a uno sconosciuto a mezzanotte. Sollevò la testa. «Ti cambio la medicazione, Rachel?»
«Sto bene, non ce n’è bisogno.»
«Sicura?»
«Davvero grazie.» Rachel sollevò con entrambe le mani il bicchiere d’acqua. «Posso chiederti, Verne, come vi siete conosciuti tu e Katarina?»
«Su Internet, in uno di quei siti dove si trovano mogli straniere, sai. Si chiama Cherry Orchid, una volta funzionava per posta, ma ora credo che l’abbiano chiuso. Si entrava nel sito dove c’erano foto di donne di tutto il mondo, dell’Europa orientale, russe, filippine. Ogni foto era accompagnata dalle misure della ragazza, da una breve biografia, da ciò che le piaceva e ciò che non le piaceva, roba del genere insomma. Quando ne trovavi una che faceva al caso tuo, compravi il suo indirizzo, c’erano anche offerte speciali di un pacchetto di indirizzi.»
Rachel e io ci scambiammo una veloce occhiata. «Quanto tempo fa vi siete conosciuti?»
«Sette anni. Abbiamo cominciato mandandoci delle e-mail, Kat viveva in una fattoria in Serbia, i suoi genitori erano poverissimi tanto che lei per potere usare un computer doveva farsi oltre sei chilometri a piedi. Avrei voluto telefonarle, ma non avevano nemmeno il telefono ed era lei a chiamarmi da una cabina. Poi un giorno mi ha detto che veniva in America per conoscermi.»
Verne sollevò le mani, quasi volesse bloccare un’eventuale interruzione. «A questo punto di solito le ragazze come lei ti chiedono soldi per il biglietto aereo e il resto, e io ero pronto a mandarglieli. Lei invece no, è venuta con i suoi mezzi. Sono andato a prenderla a New York e tre settimane dopo ci siamo sposati. Dopo un anno è nato Verne Junior, dopo quattro Perry.»
Bevve un lungo sorso di birra e lo imitai. Era meraviglioso sentirla scendere fredda in gola.
«Ascoltate, lo so che cosa state pensando» riprese Verne. «Ma vi sbagliate. Io e Kat siamo veramente felici. Prima di conoscerla sono stato sposato a una spaccapalle americana di primissima categoria, una che non faceva che lagnarsi e brontolare perché non guadagnavo abbastanza. Passava le giornate in casa a non fare niente, se le chiedevo di caricare e accendere la lavatrice andava su tutte le furie e mi assaliva con le sue frescacce nazi-femministe, mi criticava in continuazione, diceva che ero un fallito. Con Kat è diverso. Tiene la casa in ordine e pulita, e per me è importante. Se lavoro in giardino e fa caldo, lei senza che glielo chieda mi porta una birra e non mi fa una conferenza sul femminismo. C’è forse qualcosa di male in tutto questo?»
Io e Rachel rimanemmo in silenzio.
«Pensateci un po’ su. Perché due persone si sentono attratte reciprocamente? C’entra la bellezza? I soldi? Un lavoro importante? Ci si mette insieme perché ciascuno cerca qualcosa nell’altra persona, è un sistema di dare e avere. Io volevo una donna che mi amasse e allevasse con me i nostri figli, volevo anche una compagna, una che fosse carina con me, roba del genere. E l’ho trovata. Kat voleva lasciarsi alle spalle quella terribile vita, erano così poveri che per loro la sporcizia era un lusso. Io e lei viviamo bene insieme, a gennaio abbiamo portato i bambini a Disney World. Ci piace fare escursioni, andare in canoa. Verne Junior e Perry sono due bravi bambini. Sentite, forse sono un tipo semplice, anzi sono decisamente un tipo semplice. Mi piacciono le armi, mi piace andare a caccia e a pesca… e mi piace soprattutto la mia famiglia.»
Verne abbassò il capo e i capelli gli ricaddero sul viso come il sipario di un teatro. Si mise a staccare l’etichetta dalla bottiglia di birra. «Da certe parti… o in molte parti, non so, i matrimoni sono combinati. È sempre stato così, i genitori decidono e costringono un ragazzo e una ragazza a sposarsi. Ma nessuno ha costretto me e Kate, lei se ne poteva andare quando voleva e lo stesso io. Ma ormai sono passati sette anni, io mi sento felice e anche lei.»
Si strinse nelle spalle. «O, almeno, credevo che fosse felice.»
Bevemmo in silenzio.
«Verne?» gli dissi.
«Sì?»
«Sei un uomo interessante.»
Rise, ma si vedeva che aveva paura e per nasconderla mandò giù un sorso di birra. Si era ritagliato la sua vita, una vita che gli piaceva. È strano, io non so giudicare le persone, la mia prima impressione di solito è sbagliata. Che giudizio avrei mai potuto dare di quel cafone contadino pazzo per le armi, con quei capelli, quegli adesivi sul retro dell’auto, quell’auto mostruosa? E invece, più lo stavo ad ascoltare più mi piaceva. Io dovevo essergli sembrato altrettanto alieno, dal momento che praticamente gli ero entrato in casa armato: ma ciò nonostante, appena avevo cominciato a raccontargli la mia storia, mi era stato ad ascoltare e aveva capito che gli stavo dicendo la verità.
Sentimmo arrivare un’auto e Verne andò alla finestra a guardare. Sul suo viso si dipinse un sorriso triste. C’era la sua famiglia, in quell’auto, la famiglia alla quale voleva tanto bene, che aveva appena protetto dall’invasione di due sconosciuti armati. E ora io, nel tentativo di ricomporre la mia famiglia, stavo probabilmente disgregando la sua.
«Guardate! Papà è in casa!»
Doveva essere Katarina. L’accento era inequivocabilmente straniero, del ceppo balcanico o dell’Europa orientale o russo, non sono un linguista e non saprei quindi dire con esattezza quale. Udii i gridolini felici dei bambini e il sorriso di Verne si fece meno triste. Uscì per andare loro incontro e io e Rachel rimanemmo dov’eravamo. Udivamo il suono veloce di passi sui gradini. I saluti durarono un paio di minuti, io mi guardai le mani mentre Verne diceva qualcosa a proposito di regali nel camioncino e i bambini scattavano per andarseli a prendere.
La porta si aprì e Verne entrò tenendo la moglie allacciata per la vita.
«Marc, Rachel, vi presento mia moglie Kat.»
Era bella. Aveva lunghi capelli lisci, pelle bianchissima, occhi azzurro ghiaccio e il prendisole le lasciava le spalle scoperte. In lei c’era un qualcosa che faceva capire, anche se non l’avessi saputo, che era straniera. O forse lo pensavo proprio perché lo sapevo. Tentai di darle un’età, a prima vista avrei detto sui venticinque anni, ma dalle rughe attorno agli occhi capii che doveva averne una decina di più.
«Salve» dissi.
Mi alzai insieme a Rachel per stringerle la mano, una mano delicata ma dalla stretta più che energica. Katarina mantenne quel suo sorriso da perfetta padrona di casa, ma le costò fatica. Non riusciva a staccare gli occhi da Rachel e dalle sue contusioni ed ecchimosi. Dovevano fare impressione, ma io ormai mi ci ero abituato.
Sempre sorridendo lei guardò il marito come per fargli una domanda. «Sto cercando di aiutarli» disse Verne.
«Aiutarli?» ripeté lei.
I bambini avevano trovato i regali e strillavano felici, ma sembrava che Verne e Katarina non li udissero nemmeno, si guardavano negli occhi e lui le teneva una mano. «A quest’uomo» e mi indicò con il mento «hanno assassinato la moglie e rapito la bambina.»
Lei si portò una mano alla bocca.
«Sono venuto qui per cercare la bambina.»
Katarina non si mosse e il marito fece segno a Rachel di andare avanti al posto suo.
«Ha fatto una telefonata questa notte, signora Dayton?» le chiese Rachel.
La donna sollevò di scatto la testa, allarmata. Guardò prima me come si guarda un fenomeno da baraccone, poi spostò la sua attenzione su Rachel. «Non capisco.»
«Ci risulta che a mezzanotte da questa casa è stata fatta una telefonata a un certo cellulare, e secondo noi a telefonare è stata lei.»
«No, non è possibile.» Gli occhi di Katarina si mossero veloci a destra e a sinistra, come se stesse cercando una via di fuga. Verne, che le teneva ancora la mano, cercò d’intercettare il suo sguardo, ma lei gli sfuggì. «Un momento» disse poi. «Forse ho capito.»
Rimanemmo in attesa.
«Questa notte, mentre dormivo, è squillato il telefono.» Tentò nuovamente di sorridere, ma con notevole difficoltà. «Non so che ora fosse, molto tardi comunque. Pensavo fossi tu, Verne.» Lo guardò e questa volta il sorriso resse e lui glielo restituì. «Ma quando ho risposto non ho sentito nessuno. Allora ho ricordato qualcosa che avevo visto alla televisione, che cioè per richiamare un numero che ci ha appena chiamato bisogna comporre asterisco, sei e nove, È quello che ho fatto, ha risposto un uomo ma non era Verne e allora ho attaccato.»
Ci guardò speranzosa. Io e Rachel ci scambiammo un’occhiata. Verne sorrideva ancora, ma teneva le spalle curve. Le lasciò la mano e crollò quasi sul divano.
Katarina si diresse verso la cucina. «Vuoi un’altra birra, Verne?»
«No, tesoro, voglio che ti sieda qui accanto a me.»
I bambini continuavano a gridare felici e, anche se so che è banale, non c’è nulla di più bello del riso spontaneo dei bambini. Katarina guardò il marito con un’intensità che mi costrinse quasi a distogliere lo sguardo.
«Lo sai, cara, quanto vogliamo bene ai nostri bambini, vero?»
Lei fece segno di sì con il capo.
«Prova a immaginare se qualcuno ce li portasse via, pensa se qualcosa del genere fosse successa più di un anno fa, pensaci. Immagina se per esempio qualcuno più di un anno fa si fosse portato via Perry e noi non sapessimo ancora dove si trova.» Mi indicò con il dito. «Quest’uomo non sa che fine ha fatto la sua bambina.»
Gli occhi di Katarina brillavano di lacrime.
«Dobbiamo aiutarlo, Kat. Devi dire tutto quello che sai, quello che hai fatto. A me non importa, se ci sono segreti devi dirli ora, metteremo una pietra sopra il passato. Posso perdonare quasi tutto, ma credo che non potrei mai perdonarti se non aiuterai quest’uomo e la sua bambina.»
Lei chinò il capo e rimase zitta.
Rachel tornò alla carica. «Se sta tentando di proteggere l’uomo al quale ha telefonato, non deve preoccuparsi. Qualcuno l’ha ucciso poche ore dopo la sua chiamata, signora.»
Katarina rimase a capo chino. Io mi alzai e presi a camminare su e giù. Da fuori giunse un altro scoppio di risa, mi avvicinai alla finestra. Verne Junior, capii che era lui perché dimostrava circa sei anni, gridò: «Pronto o non pronto, ora arrivo!». I due fratelli stavano giocando a nascondino e non era difficile capire dove si era nascosto Perry, la cui risata giungeva da dietro la Camaro. Verne Junior finse di guardare da un’altra parte, ma all’improvviso scattò verso l’automobile e urlò: «Tana!».
Perry, sempre ridendo, schizzò fuori e si mise a correre. E quando vidi il suo viso sentii il mio mondo, già traballante, accusare un altro duro colpo. Perché l’avevo riconosciuto, Perry.
Era il bambino.che avevo visto poche ore prima dentro l’auto.