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Non so che cosa mi aspettassi dall’ufficio dell’MVD. Una porta con il vetro smerigliato, forse, come quella dell’ufficio di Sam Spade o di Philip Marlowe. Uno sporco edificio di mattoni sbiaditi, sicuramente senza ascensore. Una segretaria pettoruta con un colore di capelli orribile.

Invece, nell’ufficio dell’MVD non trovai nulla di tutto questo. L’edificio era elegante e luminoso, essendo rientrato nel programma di “rinnovo urbano” di Newark. Sento sempre parlare del rinascimento di Newark, ma non ne vedo traccia. Sì, ci sono diversi begli edifici come questo e un magnifico Performing Arts Center, realizzato in una parte della città che consente a quelli che si possono permettere di assistere agli spettacoli (cioè a quelli che non abitano a Newark) di arrivarci senza dovere attraversare la città. Ma questi edifici sono come fiori tra le erbacce, stelle isolate in un cielo altrimenti buio. Non cambiano il colore di fondo, non si integrano né si diffondono, rimangono entità a sé stanti. La loro sterile bellezza non è contagiosa.

Uscimmo dall’ascensore, io stringevo ancora la sacca di tela con i due milioni di dollari e aveva uno strano effetto sulla mia mano. Dietro una vetrata si vedevano tre receptionist, ciascuna con il suo bravo telefono a cuffia, sedute dietro un’alta scrivania. Demmo i nostri nomi parlando da un interfono. Rachel mostrò una tessera dalla quale risultava il suo status di ex agente dell’FBI. La porta si aprì con un ronzio.

Rachel entrò per prima, io la seguii. Mi sentivo vuoto, ma operativo. L’orrore di quanto era accaduto, quel telefono che mi avevano sbattuto in faccia, era così grande che mi aveva fatto superare la paralisi per passare a uno strano stato di lucidità. Ancora una volta ricorro al paragone con la sala operatoria: varco quella soglia, entro in quella sala e dimentico il mondo. Una volta stavo eseguendo un intervento di routine su un ragazzino di sei anni affetto da palatoschisi, e all’improvviso i suoi parametri vitali calarono di colpo e il cuore si fermò. Non cedetti al panico, rimasi lucido proprio come adesso. Il ragazzino si salvò.

Sempre ostentando le sue credenziali, Rachel spiegò che volevamo vedere uno dei responsabili. La receptionist sorrise e annuì come fa di solito chi non ti sta a sentire, senza mai togliersi la cuffia del telefono. Premette alcuni tasti e apparve un’altra donna, che ci precedette lungo il corridoio facendoci infine entrare in un ufficio.

Per un attimo non riuscii a capire se ci trovavamo in presenza di un uomo o di una donna. Sulla targhetta di bronzo sulla scrivania si leggeva CONRAD DOREMAN: un uomo, quindi. Si alzò con mossa studiata, era troppo magro per quel suo abito blu a righe larghe più adatto a un personaggio di Bulli e pupe, così stretto in vita che la parte inferiore della giacca sembrava quasi una minigonna. Aveva mani sottili da pianista, portava i capelli lisci appiccicati alla testa come Julie Andrews in Victor/Victoria e la sua faccia aveva la levigatezza che di solito si associa alle grosse ditte di cosmetici.

«Prego» disse con voce eccessivamente affettata. «Mi chiamo Conrad Dorfman e sono il vicepresidente esecutivo dell’MVD.» Ci stringemmo la mano, lui la trattenne un secondo di troppo coprendola con l’altra e fissandoci attentamente. Poi ci invitò a sedere e ci chiese se avremmo gradito una tazza di tè. Rachel prese in mano la situazione e rispose di sì.

Dopo qualche altro minuto di convenevoli, Conrad chiese a Rachel dei suoi anni nell’FBI. Lei si tenne sul vago, ma gli lasciò intendere che tutto sommato anche lei operava nel ramo delle investigazioni private, era quindi una collega e in quanto tale aveva diritto a una qualche forma di favore professionale. Io rimasi in silenzio, affidandomi a lei. Si udì bussare alla porta, poi la donna che ci aveva accompagnato entrò spingendo un carrello con un vassoio d’argento. Conrad cominciò a versare il tè e Rachel arrivò al punto.

«Siamo venuti nella speranza che lei possa aiutarci» cominciò. «La moglie del dottor Seidman era una sua cliente.»

Conrad Dorfman concentrò la sua attenzione sul tè, e lo versò lentamente filtrandolo con uno di quei nuovi colini che oggi vanno tanto di moda.

«Le avevate dato un CD protetto e noi abbiamo bisogno di leggerne il contenuto.»

Conrad porse una tazza di tè prima a lei e poi a me. Quindi si mise comodo nella poltrona e fece un lungo sorso. «Mi dispiace di non potervi aiutare» disse. «Sono i clienti che scelgono la password.»

«La cliente è morta.»

Conrad Dorfman non batté ciglio. «Questo non cambia minimamente le cose.»

«Il qui presente marito è il parente più stretto, il CD quindi è diventato suo.»

«Non saprei» obiettò lui «non sono un esperto di diritto di successione. Noi comunque non abbiamo voce in capitolo sulle decisioni dei clienti e, come le ho appena detto, sono i clienti a scegliersi la password. Forse abbiamo dato alla signora il CD, allo stato attuale delle cose non posso confermarlo né smentirlo, ma non abbiamo la minima idea di quali numeri o lettere abbia scelto per la sua password.»

Rachel rimase a fissare Conrad Dorfman per qualche secondo. Lui ricambiò lo sguardo ma fu il primo ad abbassare gli occhi, per prendere la tazza di tè e berne un altro sorso. «Possiamo sapere anzitutto perché la signora si era rivolta a voi?»

«Senza un ordine del giudice? No, direi di no.»

«A quel CD si può accedere in un altro modo.»

«Scusi?»

«Lo fa ogni società, per non perdere le informazioni contenute. Si inserisce una propria password in modo da poterlo aprire quando serve.»

«Non so di che cosa sta parlando.»

«Sono stata un’agente dell’FBI, signor Dorfman.»

«E allora?»

«E quindi so come vanno queste cose. Non offenda la mia intelligenza, la prego.»

«Non era mia intenzione, signora Mills. Solo che non posso aiutarvi.»

Guardai Rachel, che sembrava stesse valutando i pro e i contro della situazione. «Ho ancora amici nel Dipartimento, signor Dorfman» disse poi. «Possiamo chiedere in giro, mettere il naso in certe faccende. Ai federali non vanno a genio gli investigatori privati, questo lei lo sa. Non voglio mettere nessuno nei guai, mi basta sapere che cosa c’è in quel CD.»

Dorfman posò la tazza e fece schioccare le dita. Si udì bussare alla porta e apparve la donna di prima, che fece un cenno a Conrad Dorfman. Lui si alzò, ancora una volta con eccessiva affettazione, e coprì in pratica con un balzo la distanza che lo separava dalla porta. «Scusatemi un momento.»

Quando fu uscito, guardai Rachel, che però non si voltò verso di me. «Rachel?»

«Stiamo a vedere come va a finire, Marc.»

Finì molto presto. Conrad tornò nel suo ufficio e andò a piazzarsi davanti a Rachel, in attesa che sollevasse lo sguardo. Ma lei non gli diede questa soddisfazione.

«Anche il nostro presidente Malcom Deward è un ex agente federale. Lo sapeva?»

Rachel rimase in silenzio.

«Mentre noi eravamo qui a chiacchierare, il presidente ha fatto qualche telefonata.» Conrad rimase in attesa. «Signora Mills?» Lei finalmente alzò gli occhi. «Le sue minacce sono ridicole. Lei non ha amici nell’FBI mentre il signor Deward, per sua sfortuna, sì. Uscite dal mio ufficio. Subito.»

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