Zia trovò i miei abiti nell’armadio. I jeans erano macchiati di sangue, quindi decidemmo di sostituirli con dei pantaloni verdi da sala operatoria, e lei me ne trovò un paio in uno stanzino. Me li infilai con una smorfia di dolore per via delle costole incrinate, e strinsi il nastro in vita. Sarebbe stata una fuga lenta. Zia guardò fuori dalla porta per accertarsi che il campo fosse libero. Aveva preparato un piano alternativo, nel caso i federali mi tenessero d’occhio. Un medico suo amico, David Beck, era rimasto coinvolto qualche anno prima in una complessa indagine federale e in quella circostanza aveva conosciuto Tickner. Beck quel giorno era in servizio e, se necessario, avrebbe intercettato lui e soci in fondo al corridoio cercando di trattenerli con la storia di quell’inchiesta.
Ma non ci fu bisogno di Beck. Uscimmo tranquillamente senza che nessuno ci facesse domande, attraversammo il padiglione Harkness e sbucammo nel cortile sul lato nord di Fort Washington Avenue. Zia aveva lasciato l’auto nel parcheggio all’angolo tra la Centosessantacinquesima e Fort Washington Avenue. Camminavo con circospezione, ero indolenzito ma tutto sommato stavo bene. Potevo scordarmi maratona e sollevamento pesi, ma il dolore era sopportabile e riuscivo a muovermi con relativa facilità. Zia mi aveva trovato un flacone di calmanti in confezione da cinquanta milligrammi, cioè il dosaggio più alto. Un ottimo prodotto: faceva effetto senza dare sonnolenza.
«Se qualcuno me lo chiede» mi spiegò lei «dirò che ho usato i mezzi pubblici e ho lasciato a casa l’auto. Per un po’ dovresti essere a posto.»
«Grazie. Possiamo scambiarci anche i cellulari?»
«Certo. Perché?»
«Potrebbero tentare di localizzarmi attraverso le chiamate fatte dal mio telefono.»
«Addirittura?»
«Non lo so, ma può darsi.»
Lei tirò fuori il suo cellulare, grande come uno specchietto. «Pensi davvero che Tara sia viva?»
«Non lo so.»
Salimmo in fretta i gradini di cemento del parcheggio. Per le scale c’era puzza di urina, come sempre.
«È una follia» disse ancora Zia. «Lo sai, vero?»
«Sì.»
«Se hai bisogno di metterti in contatto con me chiamami sul cercapersone.»
«Lo farò.»
Ci fermammo accanto alla sua auto e lei mi porse le chiavi.
«Che cosa c’è?» le chiesi.
«Sei terribilmente presuntuoso, Marc.»
«Li incoraggi sempre così gli amici?»
«Non ti far schiacciare dal tuo ego, ho bisogno di te.»
L’abbracciai e salii sull’auto, poi misi in moto, imboccai la Henry Hudson in direzione nord e composi sul cellulare il numero di Rachel. La notte era chiara e silenziosa, le luci del ponte avevano trasformato l’acqua scura in un cielo stellato. Udii due squilli, poi Rachel rispose ma rimase in silenzio. Capii il motivo, non aveva riconosciuto il numero apparso sul suo display.
«Sono io, sto usando il cellulare di Zia» dissi.
«Dove sei?»
«Sulla Hudson.»
«Prosegui in direzione nord fino al Tappan Zee Bridge, attraversalo e punta verso ovest.»
«Tu dove sei?»
«Dalle parti del Palisades Mall, quel grosso centro commerciale.»
«A Nyack.»
«Esatto. Teniamoci in contatto, troveremo un posto dove incontrarci.»
«Arrivo.»
Tickner stava aggiornando al telefono O’Malley quando Regan entrò di corsa nella sala medici. «Seidman non è più nella sua stanza.»
L’agente federale sembrò seccato. «Come sarebbe a dire che non è più nella sua stanza?»
«Secondo te cosa può voler dire?»
«Magari è sceso a fare le radiografie, o roba del genere.»
«No, secondo l’infermiera.»
«Maledizione. Quest’ospedale avrà delle telecamere a circuito chiuso, immagino.»
«Non in tutte le stanze.»
«Ma alle uscite sì, voglio sperare.»
«Ci saranno una decina di uscite, è ora che ci facciamo dare i nastri e li guardiamo…»
«Sì, sì, sì.» Tickner ci pensò su, poi riaccostò il cellulare all’orecchio. «O’Malley?»
«Sono qui.»
«Hai sentito?»
«Certo.»
«Quanto ci vuole per avere i tabulati delle chiamate di Seidman dal telefono della sua stanza e dal cellulare?»
«Le ultime telefonate?»
«Diciamo quelle dell’ultimo quarto d’ora.»
«Mi dia cinque minuti.»
Tickner premette il pulsante rosso per chiudere la comunicazione. «Dov’è l’avvocato di Seidman?»
«Non lo so, mi sembra che abbia detto che se ne stava andando.»
«Forse dovremmo dargli un colpo di telefono.»
«Non mi ha dato l’impressione di voler collaborare» osservò Regan.
«È vero, ma finora abbiamo considerato il suo cliente un duplice assassino. Adesso invece è un innocente in pericolo di vita, quindi l’avvocato dovrebbe darci una mano.» E Tickner porse a Regan il biglietto da visita che Lenny gli aveva dato.
«Vale la pena tentare» disse il poliziotto, e compose il numero.
M’incontrai con Rachel a Ramsey, cittadina al confine tra lo stato di New York e il New Jersey. Ci eravamo dati appuntamento al parcheggio del Fair Motel, sulla Route 17, a Ramsey, nel New Jersey. Il motel era di quelli frequentati da amanti e coppiette e su un cartello si leggeva TV A COLORI! (come se i motel in genere avessero il televisore in bianco e nero): e le lettere della scritta e il punto esclamativo erano in colori tutti diversi, casomai qualcuno non conoscesse il significato della parola “colore”. Mi è sempre piaciuto il nome di quel motel, Fair, cioè onesto. Non siamo grandi né maestosi, sembrava dire, ma onesti. Un esempio di buona pubblicità.
Mi fermai al parcheggio. Ero spaventato. Avrei voluto fare a Rachel un milione di domande, che però a ben vedere non erano altro che variazioni sullo stesso tema. Volevo saperne di più sulla morte di suo marito, certo, ma soprattutto volevo chiarire la storia di quelle maledette foto scattate dall’investigatore privato.
Il parcheggio era buio, le uniche luci venivano dall’autostrada. Il furgoncino della Manutenzione spazi verdi che aveva rubato era fermo accanto al distributore della Pepsi-Cola, sulla destra. Accostai. Non la vidi scendere dal furgone, ma all’improvviso me la trovai seduta accanto.
«Comincia a muoverti» disse.
Mi voltai per dirle qualcosa, ma vedendo il suo volto mi bloccai. «Gesù, ma stai bene?»
L’occhio destro era gonfio come quello di un pugile al termine di un incontro, sul collo si notavano dei lividi giallo-violetti e sulle guance spiccavano delle grosse macchie rossastre. Vidi i segni scarlatti lasciati dalle dita del suo assalitore, le unghie avevano addirittura inciso la pelle. Temetti che le ferite fossero più gravi di quanto sembrasse, che il pugno all’occhio potesse averle fratturato qualche osso, ma poi pensai che un colpo del genere l’avrebbe fatta finire in ospedale: dovevano essere quindi soltanto lesioni superficiali, ma ero ugualmente meravigliato che lei si reggesse in piedi.
«Che diavolo è successo?» le chiesi.
Teneva in mano il palmare, che emetteva un chiarore quasi abbacinante nel buio dell’auto. Lei lo fissò. «Prendi la 17 in direzione sud e corri, non voglio perderli.»
Feci marcia indietro e ripresi l’autostrada, poi m’infilai la mano in tasca e tirai fuori il flacone di calmanti. «Questi dovrebbero calmarti il dolore.»
Tolse il coperchio. «Quante ne devo prendere?»
«Una.»
Tirò fuori una compressa, senza staccare gli occhi dal palmare, la ingoiò e mi ringraziò.
«Dimmi che ti è successo» ripetei.
«Prima tu.»
Glielo raccontai meglio che potei. Rimanemmo sulla Route 17, superando le uscite per Allendale e Ridgewood. Le strade erano deserte, i negozi — e sa Dio quanti erano, questi negozi, sembrava di percorrere uno di quei viali dei centri commerciali — erano tutti chiusi. Rachel mi ascoltò senza interrompermi e io ogni tanto le lanciavo un’occhiata. Sembrava sofferente.
«Sei sicuro che non ci fosse Tara dentro quell’auto?» mi chiese quando ebbi terminato.
«Sì.»
«Ho ritelefonato a quello del DNA e i campioni corrispondono ancora. Non so che cosa pensare.»
«Nemmeno io. A te che è successo?»
«Qualcuno mi è saltato addosso. Ti stavo osservando con i visori notturni, ti ho visto mettere a terra la sacca con i soldi e riprendere a camminare. Dietro i cespugli c’era una donna, l’hai vista?»
«No.»
«Aveva una pistola, penso che volesse ucciderti.»
«Una donna?»
«Sì.»
Non sapevo cosa dire. «Ma l’hai vista bene?»
«No. Stavo per avvertirti del pericolo quando questo mostro mi ha afferrato alle spalle. Era forte come un toro, mi ha sollevato da terra tenendomi per la testa, temevo che me la staccasse dal collo.»
«Gesù!»
«In quel momento è passata un’auto della polizia e l’uomo è stato preso dal panico. Mi ha tirato un pugno» e indicò l’occhio gonfio «e sono svenuta. Non so quanto sono rimasta senza conoscenza, so solo che quando ho ripreso i sensi quel posto era pieno di poliziotti. Ero rannicchiata in un angolo, al buio, probabilmente non mi hanno visto o mi hanno scambiato per un barbone addormentato. Appena ho potuto ho attivato il palmare, e ho visto che i soldi erano in viaggio.»
«In quale direzione?»
«Sud, chi li aveva presi si stava muovendo a piedi sulla Centosessantottesima Strada. Poi d’improvviso si è fermato. Questo aggeggio» e indicò lo schermo «funziona in due modi. Se adopero lo zoom posso avvicinarmi fino a quattrocento metri, se invece, come adesso, mi tengo a distanza il palmare mi dà una localizzazione di massima, non un indirizzo preciso. In questo momento, a giudicare dalla velocità, direi che si trovano una decina di chilometri più avanti, sempre sulla Route 17.»
«Ma la prima volta che li hai localizzati erano sulla Centosessantottesima?»
«Sì. Poi si sono spostati velocemente verso il centro città.»
Ci pensai su. «La metropolitana» dissi poi. «Devono aver preso il treno della linea A alla fermata della Centosessantottesima.»
«È quello che ho pensato anch’io. Comunque, ho rubato il furgone e mi sono diretta in centro anch’io. Ero tra l’Ottantesima e la Settantesima quando all’improvviso hanno preso verso est, questa volta facendo una sosta ogni tanto.»
«Si fermavano ai semafori, evidentemente hanno proseguito in auto.»
«Esatto. Hanno percorso Franklin Delano Roosevelt Drive e poi Harlem River Drive. Ho tentato di attraversare la città, ma ci ho impiegato un sacco di tempo e la distanza è diventata otto-dieci chilometri. Il resto lo conosci.»
Fummo costretti a rallentare per via di alcuni lavori in corso, vicino all’intersezione con la Route 4, e la strada passò da tre corsie a una. La guardai e vidi di nuovo i lividi, l’occhio gonfio, le enormi impronte delle mani sulle guance. Anche lei mi guardò, ma non aprì bocca. Allungai una mano e le carezzai il volto con la maggiore delicatezza possibile. Lei chiuse gli occhi, evidentemente emozionata da quel gesto tenero, e tutt’e due capimmo che cosa ci stava succedendo, a dispetto delle circostanze. Dentro di me sentii agitarsi un’emozione antica, ormai sopita. Tenni gli occhi fissi su quel volto incantevole, perfetto. Le scostai i capelli dal viso. Una lacrima fece capolino dall’occhio scendendo poi lungo la guancia. Lei mi mise una mano sul polso, trasmettendomi un calore che mi si diffuse per tutto il corpo.
Una parte di me, e so bene che effetto faranno queste parole, voleva dimenticare questa storia. Il sequestro era stato un imbroglio. Mia figlia era scomparsa. Mia moglie era morta. Qualcuno stava tentando di uccidermi. Era il momento di ricominciare, di concedersi un’altra occasione, un nuovo modo di vivere, di fare la cosa giusta, questa volta. Avrei voluto girare l’auto e imboccare la direzione contraria. Volevo guidare, guidare e basta, senza chiederle del marito ucciso e di quelle foto nel CD. Potevo dimenticare tutto, sapevo di poterlo fare. La mia vita era fatta di interventi chirurgici che modificavano la superficie, che aiutavano i pazienti a ricominciare lasciandosi alle spalle il passato, a migliorare ciò che era visibile e in tal modo anche ciò che non lo era. Una cosa del genere poteva succedere anche nel mio caso. Un semplice lifting facciale, avrei praticato la prima incisione al giorno precedente quella maledetta festa al college, per poi tirare il lembo su quattordici anni e suturarlo all’oggi. Un unico punto di sutura per quei due momenti. Un intervento di chirurgia plastica per far sparire quei quattordici anni, come se non fossero mai trascorsi.
Rachel aprì gli occhi e mi resi conto che stava pensando più o meno quello che pensavo io, che sperava che tornassi indietro. Ma non era possibile, ovviamente. Ci scambiammo una rapida occhiata, i lavori in corso erano ormai alle nostre spalle, lei mi tolse la mano dal polso. Le diedi un altro rapido sguardo. No, non avevamo più vent’anni, ma non aveva importanza. Ora lo capivo. L’amavo ancora. Per quanto ciò potesse essere irrazionale, sbagliato, stupido, ingenuo e tutto quello che volete l’amavo ancora. In quegli anni forse mi ero convinto del contrario, ma non avevo mai smesso di amarla. Era così terribilmente bella, così maledettamente perfetta: e i miei dubbi idioti svanirono al pensiero di quanto lei fosse stata vicina alla morte, al pensiero di quelle mani gigantesche che le toglievano il respiro. Non sarebbero scomparsi, quei dubbi, fino a quando non avessi scoperto la verità: ma non mi avrebbero scoraggiato, di qualunque verità si trattasse.
«Rachel?»
Ma lei si raddrizzò all’improvviso sul sedile, sempre con gli occhi fissi sul palmare.
«Che c’è?» le chiesi.
«Si sono fermati. Li raggiungeremo fra tre chilometri.»