32

Steven Bacard rimise al suo posto il ricevitore del telefono.

Scivoli pian piano nel male, pensò. Superi per un solo momento quella linea di confine. Poi torni indietro, e la superi in senso contrario. Ti senti al sicuro. Hai cambiato le cose in meglio, o questo almeno è ciò che credi. Ma la linea è sempre lì. Intatta. Certo, ora c’è qualche sbavatura, ma la si vede ancora chiaramente. E la prossima volta che la superi forse la sbavatura sarà più estesa. Ma tu hai preso le coordinate e, qualsiasi cosa possa succedere a quella linea, ti ricorderai dove si trova.

Non è vero?

Sopra il fornitissimo bar dell’ufficio di Steven Bacard c’era uno specchio. L’architetto che glielo aveva arredato aveva insistito, convincendolo che ogni persona di prestigio deve avere un angolo nel quale brindare al proprio successo. Lui allora aveva ceduto, anche se non beveva. Si guardò in quello specchio, Steven Bacard, e non per la prima volta in vita sua pensò: “Mediocre”. Era sempre stato mediocre. Mediocri erano stati i suoi voti a scuola, i risultati dei suoi test di attitudine scolastica e di quelli per l’ammissione alla facoltà di Giurisprudenza, i voti degli esami universitari, quelli dell’esame di procuratore legale (l’aveva superato al terzo tentativo, questo esame). Se la vita fosse come una partita di calcio alla buona tra ragazzini dove i due capitani scelgono a turno i componenti della propria squadra, lui sarebbe venuto subito dopo quelli bravi e appena prima delle schiappe: nella cuspide, cioè, di quelli che non lasciano alcun segno.

Bacard aveva optato per la professione legale ritenendo che il titolo di dottore in Giurisprudenza gli avrebbe conferito un certo prestigio. Ma così non era stato. Non riusciva a trovare clienti. Aveva aperto uno squallido studio vicino al tribunale di Paterson e lo divideva con un garante di cauzioni per la libertà provvisoria. Era uno di quegli avvocati che si piazzano nei pronto soccorsi alla ricerca di clienti, ma anche in quel branco di mezze figure professionali non era riuscito a distinguersi. Aveva sposato una donna appena più in alto del suo status, e lei non perdeva occasione per ricordarglielo.

Dove invece Bacard si collocava al di sotto della media, ma molto al di sotto, era nel numero degli spermatozoi. Per quanto ci provasse, e alla moglie Dawn non facevano molto piacere questi suoi tentativi, non riusciva a ingravidarla. Dopo quattro anni ricorsero all’adozione, ma anche in quel campo Steven Bacard si dimostrò di una mediocrità abissale, e per lui si rivelò pressoché impossibile adottare una bambina bianca come sua moglie desiderava ardentemente. Lui e Dawn andarono in Romania, ma i soli bambini disponibili per l’adozione erano o troppo grandi o neonati già rovinati dalla droga trasmessa loro dalla madre durante la gravidanza.

Ma fu proprio in quel posto dimenticato da Dio che Steven Bacard ebbe un’idea che, dopo trentotto anni di mediocrità, lo issò idealmente su un piedistallo rispetto alla massa.

«Problemi, Steven?»

La voce lo fece trasalire. Si voltò dando le spalle alla sua immagine allo specchio: Lydia lo fissava nell’ombra.

«Guardarsi in quel modo allo specchio, dai» disse lei. «Narciso si è rovinato proprio così.»

Bacard cominciò a tremare, non poteva farci niente. Non soltanto per Lydia, anche se lei gli faceva spesso quell’effetto. La telefonata lo aveva agitato, e la ciliegina sulla torta era stata proprio Lydia, che era comparsa a sorpresa nel suo ufficio. Lui non aveva idea di come fosse entrata o di quanto tempo fosse rimasta a guardarlo. Voleva chiederle che cos’era successo quella sera, voleva conoscere i particolari. Ma non c’era tempo.

«In effetti abbiamo un problema» le disse.

«Raccontami.»

Gli occhi di lei lo gelarono. Erano grandi, luminosi e belli; pure, dietro quegli occhi si avvertiva il vuoto, un freddo abisso, erano come finestre di una casa da tempo abbandonata.

Ciò che Bacard aveva scoperto in Romania, ciò che lo aveva fatto librare al di sopra della media, era un metodo per battere il sistema. All’improvviso, per la prima volta in vita sua, aveva trovato il successo. Smise di attendere l’arrivo delle ambulanze, la gente cominciava a guardarlo dal basso in alto e non più viceversa. Veniva invitato alle cene per la raccolta di fondi. Divenne un oratore particolarmente ricercato. La moglie riprese a sorridergli e a chiedergli come fosse andata la giornata quando lui la sera tornava a casa. Fu anche ospite di un programma di News 12 New Jersey quando quell’emittente via cavo ebbe bisogno di un esperto legale. Ma diradò le sue apparizioni pubbliche quando un collega dall’altra parte dell’Atlantico gli ricordò i rischi dell’eccesso di esposizione. E poi, oltretutto, non aveva più bisogno di cercare clienti, erano loro a cercare lui: loro, cioè i genitori che speravano in un miracolo. Lo fanno sempre, i disperati, simili a piante che si allungano al buio per trovare uno spicchio di sole. E il loro sole era proprio lui, Steven Bacard.

Indicò il telefono. «Mi hanno appena chiamato» le disse.

«Ebbene?»

«C’era una microspia tra i soldi del riscatto.»

«Ma li abbiamo trasferiti in un’altra borsa.»

«Non era nella borsa, ma tra le banconote e non so esattamente come sia stata piazzata.»

Lydia si rabbuiò. «E la tua fonte non poteva dircelo prima?»

«La mia fonte l’ha appena saputo.»

Lydia parlò scandendo le parole. «In sostanza, mi stai dicendo che in questo momento la polizia sa dove ci troviamo?»

«No, la cimice non è stata piazzata dalla polizia o dai federali.»

Lei sembrò sorpresa, poi capì. «Il dottor Seidman.»

«Non esattamente. È aiutato da una donna, una certa Rachel Mills, un’ex agente federale.»

Lydia sorrise come se quanto aveva udito spiegasse qualcosa. «Ed è stata questa Rachel Mills, questa ex federale, a mettere la microspia?»

«Sì.»

«In questo momento ci sta seguendo?»

«Nessuno sa dove sia» le rispose Bacard «come nessuno sa dove sia Seidman.»

«Ah.»

«La polizia pensa che questa Rachel c’entri qualcosa.»

Lydia sollevò il mento. «C’entri qualcosa nel sequestro della bambina?»

«E nell’uccisione di Monica Seidman.»

Questo le fece piacere. Sorrise e Bacard sentì una specie di dito ghiacciato scivolargli lungo la schiena. «Era davvero coinvolta, Steven?»

Lui esitò. «Non saprei.»

«A volte è molto meglio non sapere, vero?»

Bacard non rispose.

«Ce l’hai la pistola?» gli chiese Lydia.

Lui s’irrigidì. «Che cosa?»

«La pistola di Seidman. Ce l’hai?»

Non gli piacque, quella domanda, si sentì sprofondare. Ebbe la tentazione di mentire, ma poi vide quegli occhi. «Sì.»

«Prendila. Che mi dici di Pavel? Hai sue notizie?»

«È preoccupato, vuole sapere che cosa sta succedendo.»

«Lo chiameremo dalla macchina.»

«Lo chiameremo? Anch’io, quindi?»

«Sì. Sbrighiamoci ora, Steven.»

«Vengo con te?»

«Certo.»

«Che cosa pensi di fare?»

Lydia si portò l’indice sulle labbra. «Shh, ho un piano.»


«Si sono mossi di nuovo» disse Rachel.

«Quanto tempo sono rimasti fermi?» le chiesi.

«Cinque minuti, forse. Potrebbero essersi visti con qualcuno e avere trasferito il denaro. O forse hanno soltanto fatto benzina. Gira a destra.»

Dalla Route 3 presero Centuro Road, in lontananza si intravedeva la mole del Giants Stadium. Circa un chilometro e mezzo più avanti, Rachel indicò un punto. «Sono lì da qualche parte.»

Sul cartello si leggeva METROVISTA e il parcheggio era una spianata apparentemente senza fine che scompariva al di là della palude. MetroVista era un complesso edilizio per uffici tipico del New Jersey, realizzato durante la grande espansione degli anni Ottanta. Centinaia di uffici freddi e impersonali, slanciati e metallici, con troppe finestre dai vetri oscurati che non lasciavano filtrare abbastanza sole. Si udiva il ronzio delle lampade alogene e si poteva immaginare, se non addirittura udire, quello delle api operaie.

«Non si sono fermati per fare benzina» bisbigliò Rachel.

«Che facciamo, allora?»

«Non abbiamo scelta. Continuiamo a seguire i soldi.»


Heshy e Lydia si mossero verso ovest in direzione della Garden State Parkway. Steve Bacard li seguiva su un’altra auto. La donna strappò le fascette di ogni mazzetta e impiegò dieci minuti per trovare la microspia. La tolse dal suo alloggiamento tra le banconote.

Poi la sollevò per farla vedere a Heshy. «Ingegnoso» commentò.

«Non sarà che siamo scarsi noi?»

«Non siamo mai stati perfetti, orsacchiotto.»

Heshy non replicò. Lydia abbassò il finestrino, mise fuori il braccio e fece segno a Bacard di seguirli. Lui fece a sua volta segno di avere capito. Quando rallentarono in vista del casello, Lydia diede un buffetto a Heshy e scese dall’auto, portandosi dietro i soldi, e lui rimase solo con la microspia. Se a quella Rachel fosse rimasta un po’ di energia o se la polizia si fosse accorta di ciò che stava succedendo, avrebbero fermato Heshy, ma lui prima si sarebbe sbarazzato della cimice gettandola dal finestrino. Quelli l’avrebbero trovata, certo, ma non avrebbero potuto dimostrare che era stata lanciata da quell’auto. E, anche in questo caso, avrebbero perquisito Heshy e l’auto senza trovare assolutamente nulla: non la bambina, non il biglietto con la richiesta di riscatto, non il riscatto. Era pulito.

Lydia corse sull’altra auto accanto a Steven Bacard. «Hai Pavel in linea?» gli chiese.

«Sì.»

Gli prese il telefono. Pavel cominciò a gridare nella sua lingua, lei attese e poi gli comunicò il luogo dell’appuntamento. Quando Bacard lo sentì si voltò di scatto verso di lei, che sorrise. Pavel non poteva ovviamente capire che cosa significasse quel posto particolare: e perché, poi, avrebbe dovuto capirlo? Continuò per un po’ a protestare, ma alla fine si calmò abbastanza per assicurarle che sarebbe stato della partita. Lei chiuse la comunicazione.

«Non farai sul serio» le disse Bacard.

«Shh.»

Il piano era tutto sommato semplice. Lydia e Bacard sarebbero arrivati per primi sul luogo dell’appuntamento mentre Heshy, sempre con la microspia in tasca, avrebbe preso tempo. Poi, una volta preparato tutto, Lydia avrebbe telefonato per farlo venire e allora, e solo allora, lui si sarebbe mosso. E la Mills, c’era da sperare, avrebbe seguito il segnale della microspia.

Lydia e Bacard arrivarono sul posto una ventina di minuti dopo e lei notò subito un’auto parcheggiata alla fine dell’isolato. Era una Toyota Celica. Immaginò che l’avesse rubata Pavel, e la cosa non le piacque. Le auto insolite parcheggiate in strade come quelle si notavano. Lanciò un’occhiata a Steven Bacard, pallido come un cencio e quasi estraniato, come sospeso in aria: stringeva freneticamente il volante e da lui emanavano vere e proprie ondate di paura. Non aveva il fegato per quelle cose, Bacard, e rappresentava quindi un punto debole.

«Puoi farmi scendere» gli disse.

«Voglio sapere che cos’hai intenzione di fare qui.»

Lei si limitò a guardarlo.

«Mio Dio!»

«Risparmiami l’indignazione.»

«Eravamo d’accordo di non fare del male a nessuno.»

«Come a Monica Seidman, intendi dire?»

«Noi non abbiamo avuto niente a che fare con lei.»

Lydia scosse il capo. «E la sorella di Seidman… come si chiamava, Stacy?»

Bacard aprì la bocca come per controbattere, poi chinò il capo. Lei sapeva che cosa stava per dire, che Stacy Seidman era una tossica e quindi sacrificabile, un rottame, un pericolo, e poi era già quasi morta: qualsiasi giustificazione gli fosse passata per la mente, insomma. I tipi come Bacard cercano sempre delle giustificazioni, lui era veramente convinto di aiutare la gente e non di vendere bambini. Così facendo si metteva in tasca un sacco di quattrini e violava la legge, ma correva anche tremendi rischi per fare felici dei genitori mancati. Non meritava quindi un adeguato compenso?

Ma Lydia non aveva alcun interesse a indagare nella sua psiche né ad ammorbidirla. In auto aveva contato i soldi. Era stato lui a cercarla e la parte di lei era di un milione di dollari, mentre l’altro milione l’intascava Bacard. Si mise in spalla la sacca di tela con i soldi suoi e di Heshy, poi scese dall’auto. Steven Bacard continuò a guardare fisso davanti a sé, ma non rifiutò il denaro, non la richiamò per dirle che di quella faccenda se ne lavava le mani. C’era un milione di dollari posato sul sedile accanto al suo e Bacard lo voleva. La sua famiglia adesso possedeva una grande villa ad Alpine, i suoi figli frequentavano una scuola privata. Quindi lui non si tirò indietro, ma tenne gli occhi fissi sul parabrezza e ingranò la marcia.

Quando si fu allontanato, Lydia chiamò Pavel, che se ne stava nascosto dietro i cespugli, in fondo all’isolato. Pavel portava ancora la camicia a scacchi e camminava con passo stanco. Aveva i denti rovinati dalle troppe sigarette e dalla scarsa igiene, il naso schiacciato per le continue risse. Era insomma un essere della peggior specie, uno che nella vita ne aveva viste tante. Ma non gli importava.

«Tu» le disse, riempiendo di disprezzo quelle due lettere. «Tu no detto me.»

Aveva ragione, lei no detto lui. In altre parole, lui non sapeva nulla. Uno che si esprimeva in maniera così rudimentale era l’uomo perfetto per il loro piano. Pavel era arrivato due anni prima dal Kosovo, portandosi dietro una donna incinta. In occasione della prima consegna del riscatto aveva ricevuto istruzioni precise, gli era stato detto di attendere che una certa auto si fermasse al parcheggio, di avvicinarsi al guidatore senza dire una parola, di farsi dare una borsa e risalire poi sul furgone. E, per complicare ulteriormente la faccenda, gli avevano detto di fingere di parlare a un cellulare.

Tutto qui.

Pavel non aveva idea di chi fosse Marc Seidman. Non sapeva che cosa contenesse la borsa, era all’oscuro del sequestro, del riscatto, di tutto insomma. Non si era messo i guanti, dal momento che le sue impronte digitali non comparivano negli archivi criminali americani, e non aveva documenti d’identità.

Alla fine gli avevano dato duemila dollari e l’avevano rispedito in Kosovo. Sulla scorta della generica descrizione fornita da Seidman, la polizia aveva tracciato e messo in circolazione l’identikit di un uomo impossibile a tutti gli effetti da individuare. Quando la banda aveva poi deciso di chiedere nuovamente il riscatto, era stato automatico rivolgersi ancora a Pavel. Si sarebbe vestito come la prima volta, avrebbe avuto lo stesso aspetto e questa volta, se Seidman avesse reagito, gli avrebbe riempito la faccia di pugni.

Era un tipo pratico, Pavel, e si sarebbe adeguato. In Kosovo vendeva le ragazze; la tratta delle bianche sotto la copertura dei locali di spogliarello era particolarmente redditizia, anche se Bacard aveva escogitato un altro sistema per sfruttare le donne. E Pavel, abituato ai cambiamenti improvvisi, avrebbe fatto ciò che andava fatto. All’inizio aveva manifestato un’aperta ostilità, ma gli era passata non appena Lydia gli aveva messo in mano un pacco di banconote per un totale di cinquemila dollari. Lydia gli diede poi una pistola, lui sapeva usarla.

Pavel si era appostato accanto al vialetto, tenendo accesa la ricetrasmittente. Lydia chiamò Heshy, per dirgli che erano pronti. Quindici minuti dopo passò davanti a loro l’auto di Heshy, che lanciò dal finestrino la microspia. Lydia l’afferrò al volo e gli lanciò un bacio, poi s’infilò in tasca la microspia, si portò sul retro dell’edificio, estrasse la pistola e attese.

L’aria della notte si stava trasformando in rugiada e Lydia cominciava ad avvertire nelle vene quel particolare formicolio indotto dall’emozione. Sapeva che Heshy non era distante, lui avrebbe voluto esserle al fianco, ma quella partita lei voleva giocarsela da sola. La strada era immersa nel silenzio, erano le quattro del mattino.

Cinque minuti dopo Lydia udì avvicinarsi l’auto.

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