A East Memphis, Tennessee, era tarda sera. Catherine Baker Martin e il suo ragazzo guardavano un film alla televisione nell'appartamento di lui e tiravano qualche boccata da una pipa caricata con l'hashish. Le interruzioni pubblicitarie diventavano sempre più lunghe e frequenti.
«Mi è venuta fame. Vuoi un po' di popcorn?» chiese Catherine.
«Vado a prenderlo io. Dammi le tue chiavi.»
«Rimani pure. Tanto, devo andare a vedere se ha telefonato mia madre.»
Catherine si alzò dal divano. Era una giovane donna alta, con l'ossatura solida, bene in carne, quasi pesante, con un bel viso e una gran massa di capelli lucenti. Mise le scarpe che erano finite sotto il tavolino e uscì.
La sera di febbraio era più rigida che fredda. Una nebbia leggera che saliva dal Mississippi aleggiava quasi ad altezza d'uomo sul grande parcheggio. Sopra di sé, Catherine scorgeva la luna morente, pallida e sottile come un amo di osso. Guardare in alto le dava un po' di vertigini. Si avviò attraverso il parcheggio, dirigendosi con passo sicuro verso la porta del suo appartamento, a un centinaio di metri di distanza.
Un furgoncino marrone era fermo vicino a casa sua, tra alcuni camper e barche sui carrelli per il rimorchio. Lo notò perché somigliava ai camioncini del servizio recapiti a domicilio che spesso le portavano i regali di sua
madre.
Mentre passava accanto al furgoncino, una lampada si accese nella nebbia. Era una lampada a stelo con tanto di paralume, e stava sull'asfalto dietro il veicolo. Sotto la lampada c'era una poltrona di cinz a fiorami rossi, e grandi fiori parevano sbocciare nella nebbia. I due oggetti sembravano messi in mostra come in un negozio d'arredamento.
Catherine Baker Martin batté un paio di volte le palpebre e continuò a camminare. Pensò che fosse qualcosa di surreale e l'attribuì all'effetto del-l'hashish. Ma no, era lucida. C'era qualcuno che traslocava: arrivava o andava via. Arrivava o andava via. C'era sempre qualcuno che andava o veniva, nelle Stonehinge Villas. Nel suo appartamento una tenda si mosse leggermente e Catherine vide il gatto che s'inarcava e si strusciava contro il vetro.
Aveva già in mano la chiave. Prima di usarla si voltò. Un uomo scese dalla parte posteriore del furgoncino. Nella luce della lampada vide che aveva una mano ingessata e il braccio al collo. Entrò e chiuse a chiave la porta.
Catherine Baker Martin sbirciò dalla tenda e vide che l'uomo stava cercando di issare la poltrona sul veicolo. La strinse con la mano illesa e tentò di sollevarla con il ginocchio. La poltrona cadde e si rovesciò. L'uomo la raddrizzò, si leccò l'indice e strofinò il punto dove il cinz s'era sporcato.
Catherine uscì.
«L'aiuto io.» Aveva il tono giusto... premuroso e gentile.
«Davvero mi farebbe questo piacere? Grazie.» La voce era strana, forzata. Non aveva l'accento locale.
La lampada gli illuminava il viso dal basso e gli alterava i lineamenti, ma Catherine poteva vedere chiaramente il resto della figura. L'uomo indossava un paio di calzoni kaki ben stirati e una specie di camicia di camoscio, sbottonata sul torace lentigginoso. Il mento e le guance erano glabri, lisci come quelli di una donna, e gli occhi erano soltanto punti scintillanti al di sopra degli zigomi, nelle ombre della lampada.
Anche l'uomo la guardava; e Catherine era sensibile a queste cose. Spesso gli uomini restavano sorpresi nel vederla così imponente quando si avvicinava; e alcuni lo nascondevano meglio di altri.
«Bene» disse lui.
Aveva un odore sgradevole, e Catherine notò con un senso di disgusto che la camicia di camoscio aveva ancora qualche pelo... peli arricciati sulle spalle e sotto le braccia.
Non fu difficile sollevare la poltrona sul pianale basso del furgoncino.
«Facciamola scivolare più avanti, le dispiace?» L'uomo salì e spostò alcuni recipienti grandi e piatti, di quelli che si mettono sotto un veicolo per cambiare l'olio, e un piccolo argano a mano, come quelli adoperati per le bare.
Spinsero la poltrona in avanti, finché venne sistemata dietro i sedili.
«È una quarantotto?» chiese l'uomo.
«Che cosa?»
«Le dispiace passarmi la corda? È lì ai suoi piedi.»
Quando Catherine si chinò per guardare, l'uomo la colpì all'occipite con l'ingessatura. Lei pensò di aver urtato la testa e alzò la mano per tastarla mentre l'ingessatura colpiva ancora, le schiacciava le dita contro il cranio, e poi di nuovo, stavolta dietro l'orecchio, in una successione dì colpi non troppo forti, mentre lei si accasciava sulla poltrona, scivolava sul pianale del furgoncino e restava immobile, sdraiata sul fianco.
L'uomo la fissò per un secondo, poi si tolse l'ingessatura e la fascia che reggeva il braccio. Caricò in fretta la lampada sul furgone e chiuse gli sportelli posteriori.
Scostò il colletto di Catherine e, con una lampada tascabile, lesse il numero di taglia della camicetta.
«Bene» disse.
Tagliò la camicetta sulla schiena con un paio di forbici per bende, la sfilò e le ammanettò le mani dietro la schiena. Stese sul pianale un telo imbottito da traslocatore e girò Catherine sul dorso.
Non portava il reggiseno. L'uomo le palpò i seni voluminosi con le dita per saggiarne il peso e la consistenza.
«Bene» disse.
C'era il segno rosso di un succhione sul seno sinistro. L'uomo si leccò l'indice per strofinarlo come aveva fatto con il cinz e annuì quando il livido sparì sotto la leggera pressione. La girò bocconi e controllò la cute, scostando con le dita i capelli folti.
Il gesso non l'aveva tagliata.
L'uomo controllò il battito del cuore premendo due dita sul lato del collo e si accorse che era forte.
«Beeene» disse. Aveva molta strada da percorrere prima di raggiungere la sua casa a due piani, e preferiva non doversi occupare di lei mentre era lì.
Il gatto di Catherine Baker Martin continuò a guardare dalla finestra mentre il furgone ripartiva e i fanalini rossi diventavano sempre più ravvicinati.
Dietro al gatto stava squillando il telefono. Rispose la segreteria telefonica in camera da letto. La spia rossa lampeggiava nell'oscurità.
Chi chiamava era la madre di Catherine, senatrice del Tennessee.