Gli agenti Pembry e Boyle erano uomini esperti, fatti venire appositamente dalla Prigione Statale di Brushy Mountain per sorvegliare il dottor Lecter. Erano calmi e guardinghi, e non ritenevano affatto che il dottor Chilton gli dovesse spiegare come svolgere il loro lavoro.
Erano arrivati a Memphis prima di Lecter e avevano esaminato minuziosamente la cella. Quando il dottor Lecter era stato condotto nel vecchio tribunale, avevano controllato anche lui. Un infermiere lo aveva sottoposto a una perquisizione interna mentre era ancora immobilizzato. I suoi indumenti erano stati frugati e le cuciture erano state passate con un rivelatore di metalli.
Boyle e Pembry erano arrivati a un'intesa con lui, gli avevano parlato all'orecchio in tono sommesso e civile mentre veniva controllato.
«Dottor Lecter, possiamo andare perfettamente d'accordo. La tratteremo come lei tratterà noi. Si comporti da gentiluomo e avrà la torta gelata. Ma non ci lasceremo spaventare, amico. Provi a mordere e si ritroverà senza denti. Sembra che abbia la possibilità di passarsela abbastanza bene. Non vorrà rovinare tutto, vero?»
Il dottor Lecter aveva socchiuso le palpebre in un'espressione amichevole. Se avesse avuto voglia di rispondere, non avrebbe potuto farlo, perché glielo impediva il piolo di legno tra i molari, mentre l'infermiera gli controllava la bocca con una torcia elettrica e gli passava un indice inguantato all'interno delle guance.
Il rivelatore di metalli suonò quando glielo accostarono alle guance.
«Che cos'è?» chiese l'infermiere.
«Le otturazioni» disse Pembry. «Solleva un po' il labbro. Ci sono parecchie otturazioni nei denti là dietro, no, Doc?»
«Per me ha l'aria di uno spompato» confidò Boyle a Pembry dopo che avevano messo al sicuro nella cella il dottor Lecter. «Non ci darà guai, a meno che crepi.»
La cella era sicura e robusta, ma non aveva un vassoio scorrevole per passare il cibo. All'ora di pranzo, nell'atmosfera di tensione che aveva seguito la visita di Clarice Starling, il dottor Chilton causò fastidi a tutti. Costrinse Boyle e Pembry a mettere in atto una lunga procedura: infilare l'arrendevole prigioniero nella camicia di forza e nei gambali mentre stava con la schiena rivolta verso le sbarre e Chilton si teneva pronto con il Ma-ce, prima che fosse possibile aprire la porta per introdurre il vassoio.
Chilton si rifiutava di chiamare Boyle e Pembry per nome, sebbene lo portassero bene in vista sulle targhette appuntate al petto, e si rivolgeva a loro dicendo indiscriminatamente «Ehi, tu!»
Da parte loro, dopo essere venuti a sapere che Chilton non era laureato in medicina, Boyle e Pembry conclusero che era soltanto "una specie di stramaledetto maestro di scuola".
Una volta Pembry aveva cercato di spiegare a Chilton che la visita di Clarice Starling non era stata approvata da loro bensì dal sergente piazzato all'ingresso, ma si accorsero che Chilton era troppo furioso per fare distinzioni.
Il dottor Chilton era assente all'ora di cena e, con la collaborazione un po' perplessa del dottor Lecter, Boyle e Pembry adottarono un loro metodo per portargli il vassoio. Funzionò benissimo.
«Dottor Lecter, stasera non ha bisogno di tante cerimonie» disse Pembry. «Si metta seduto sul pavimento e si sposti all'indietro fino a quando potrà infilare le mani attraverso le sbarre, con le braccia tese all'indietro. Ecco. Si sposti ancora un po' e le tenda di più, con i gomiti diritti.» Pembry lo ammanettò all'esterno, con una sbarra fra le braccia e una traversa bassa al di sopra. «Non fa molto male, vero? Lo so, comunque è questione di un minuto, e risparmia un sacco di seccature a tutti quanti.»
Il dottor Lecter non poteva alzarsi, e neppure mettersi accovacciato. E con le gambe allungate sul pavimento non poteva tirare calci.
Dopo averlo ammanettato, Pembry tornò alla scrivania per prendere la chiave della porta della cella. Agganciò il manganello alla cintura, si mise una bombola di Mace in tasca e tornò alla porta. L'aprì mentre Boyle portava dentro il vassoio. Quando la porta fu richiusa, Pembry portò di nuovo la chiave alla scrivania prima di togliere le manette al dottor Lecter. Non si avvicinava mai alle sbarre con la chiave mentre il prigioniero era libero nella cella.
«È stato facile, no?» disse Pembry.
«Molto pratico, grazie, agente» disse il dottor Lecter. «Sa, sto cercando di tirare avanti meglio che posso.»
«Come tutti, fratello» disse Pembry.
Il dottor Lecter si gingillò con il cibo mentre scriveva, disegnava e scarabocchiava sul blocco con un pennarello. Girò la cassetta del mangianastri incatenato alla gamba del tavolo e premette il tasto. Glenn Gould suonava le Variazioni Goldberg di Bach al pianoforte. La musica bellissima trascendeva le sofferenze e il tempo, riempiva la gabbia bianca e la stanza dei guardiani.
Per il dottor Lecter, seduto immobile al tavolo, il tempo rallentò e si dilatò come avviene sempre durante un'azione. Per lui le note della musica si distanziarono l'una dall'altra senza perdere il ritmo. Persino i guizzi argentei di Bach erano note discrete che, scintillavano sull'acciaio intorno a lui. Il dottor Lecter si alzò con un'espressione assorta e guardò il tovagliolo di carta che gli scivolava sulle cosce e cadeva sul pavimento. Il tovagliolo rimase a lungo nell'aria: sfiorò la gamba del tavolo, svolazzò, s'inclinò, rallentò ancora e girò prima di posarsi sul pavimento. Lecter non cercò di raccoglierlo: attraversò la cella, passò dietro il paravento di carta e sedette sull'asse del gabinetto, l'unico posto dove poteva restare veramente solo. Continuò ad ascoltare la musica, si appoggiò al lavabo tenendosi il mento con la mano e socchiuse gli strani occhi marrone. Le Variazioni Goldberg
lo interessavano strutturalmente. Ecco che ritornava: la progressione delle note basse della sarabanda si ripeteva, si ripeteva ancora. Lecter annuiva e passava la lingua sui denti, lungo tutta l'arcata superiore, lungo tutta quella inferiore. Era un'escursione lunga e interessante per la sua lingua, come una bella passeggiata sulle Alpi.
Passò alle gengive, facendo scorrere la lingua in alto, nell'interstizio tra gengiva e guancia, la mosse lentamente come fanno alcuni quando rimuginano. Le gengive erano più fresche della lingua. Era fresco, nell'interstizio. Quando la lingua arrivò al minuscolo tubicino metallico si fermò.
Tra le note della musica sentì lo sferragliare dell'ascensore che incominciava a salire. Dopo molte altre note della musica, la porta dell'ascensore si aprì e una voce che non conosceva disse: «Sono venuto a ritirare il vassoio».
Il dottor Lecter sentì che l'agente più piccolo si avvicinava. Pembry. Lo vedeva attraverso la fessura tra i pannelli del paravento. Pembry era arrivato alle sbarre.
«Dottor Lecter, venga a sedersi sul pavimento con la schiena contro le sbarre, come abbiamo fatto prima.»
«Agente Pembry, le dispiacerebbe lasciarmi finire? Purtroppo il viaggio mi ha messo sottosopra la digestione.» Lecter impiegò moltissimo tempo a pronunciare quella frase.
«D'accordo.» Pembry si voltò. «Chiameremo noi quando avremo ritirato il vassoio.»
«Posso vederlo?»
«Chiameremo noi.»
Di nuovo l'ascensore, e poi soltanto la musica.
Il dottor Lecter si tolse il tubicino dalla bocca e lo asciugò con un pezzo di carta igienica. Le sue mani erano sicure, le palme non sudavano.
Durante gli anni di detenzione, grazie alla sua infinita curiosità il dottor Lecter aveva imparato molte delle arti segrete del carcere. Negli anni trascorsi da quando aveva straziato l'infermiera del manicomio di Baltimora, c'erano state due sole manchevolezze nel sistema di sicurezza che lo circondava... e tutte e due le volte nei giorni di riposo di Barney. Una volta uno psichiatra gli aveva prestato una biro e se ne era dimenticato. Prima ancora che lo psichiatra fosse uscito dal reparto, il dottor Lecter aveva spezzato la parte in plastica della penna e l'aveva buttata nel gabinetto. Il tubicino metallico dell'inchiostro era finito nell'orlo arrotolato del suo materasso.
L'unica cosa tagliente nella sua cella del manicomio era un difetto nella testa di un bullone che fissava al muro la branda. Era abbastanza. Il dottor Lecter aveva strofinato per due mesi e aveva praticato due incisioni parallele, lunghe sei millimetri, che partivano dall'estremità aperta del tubicino. Quindi aveva tagliato il tubicino in due pezzi, a due centimetri e mezzo dall'estremità aperta, e aveva gettato nel gabinetto la parte più lunga. Bar-ney non aveva notato i calli che gli erano spuntati sulle dita in tutte quelle notti passate a sfregare.
Sei mesi dopo, un inserviente aveva lasciato un fermaglietto su alcuni documenti che il dottor Lecter aveva ricevuto dal suo avvocato. Due centimetri e mezzo del fermaglio d'acciaio erano finiti dentro al tubicino; il resto era stato buttato nel gabinetto. Il tubicino, corto e liscio, poteva essere facilmente celato nelle cuciture degli indumenti, tra guancia e gengiva, nel
retto.
Adesso, al riparo del paravento di carta, il dottor Lecter batté sull'unghia del pollice il tubicino metallico fino a farne uscire il pezzetto di fermaglio. Il pezzettino era un utensile, e quella era la parte più difficile. Lecter lo inserì per metà nel tubicino e con infinita attenzione lo usò come una leva per piegare la striscia di metallo fra le due incisioni. A volte, il metallo si spezza. Cautamente, con le mani poderose, piegò il metallo e lo sentì cedere. Ecco. La minuscola striscia era perpendicolare al tubicino. Adesso aveva una chiave per le manette.
Il dottor Lecter tese le mani dietro di sé e passò la chiave dall'una all'altra per quindici volte. Poi la rimise in bocca, si lavò le mani e le asciugò meticolosamente. Con la lingua nascose la chiave tra le dita della mano destra; sapeva che Pembry avrebbe fissato la sua strana mano sinistra, quando lui l'avrebbe messa dietro la schiena.
«Sono pronto, agente Pembry» disse. Sedette sul pavimento della cella e tese le braccia all'indietro, con le mani e i polsi tra le sbarre.
«Grazie per avermi aspettato.» Sembrava un discorso molto lungo, ma era accompagnato dalla musica.
Sentì Pembry dietro di lui. Pembry gli tastò il polso per controllare se l'aveva insaponato. Quindi tastò anche l'altro polso. Gli mise le manette. Tornò alla scrivania a prendere la chiave della cella. Tra le note del piano, il dottor Lecter sentì il tintinnio del portachiavi quando Pembry lo tolse dal cassetto. Ora stava tornando: camminava tra le note, fendeva l'aria che brulicava di note cristalline. Questa volta Boyle venne con lui. Il dottore sentiva gli squarci che formavano negli echi della musica.
Pembry controllò le manette per la seconda volta. Il dottor Lecter sentì l'odore dell'alito del poliziotto. Pembry girò la chiave nella serratura e spalancò la porta. Boyle entrò. Il dottor Lecter girò la testa, e la cella si mosse nella sua visuale con lentezza e con i dettagli meravigliosamente nitidi... Boyle era al tavolo e radunava i piatti sul vassoio con movimenti bruschi, irritato dal disordine. Il mangianastri in funzione, il tovagliolo sul pavimento accanto alla gamba imbullonata del tavolo. Attraverso le sbarre, il dottor Lecter vide con la coda dell'occhio la parte posteriore del ginocchio di Pembry, l'estremità del manganello che gli pendeva dalla cintura mentre stava all'esterno della cella e teneva aperta la porta.
Il dottor Lecter trovò la serratura della manetta sinistra, inserì la chiave e la girò. Sentì la manetta che si apriva di scatto. Passò la chiave nella mano sinistra, trovò l'altra serratura, infilò la chiave, la girò per la seconda volta.
Boyle si chinò per raccogliere il tovagliolo dal pavimento. Fulminea come il morso di una tartaruga azzannatrice, la manetta si chiuse sul polso di Boyle; e quando questi girò gli occhi verso Lecter, l'altra manetta si chiuse con uno scatto intorno alla gamba imbullonata del tavolo. Il dottor Lecter balzò in piedi e si slanciò verso la porta. Pembry tentò di muoversi, ma la spallata di Lecter gli sbattè addosso la porta. Pembry stava cercando di prendere il Mace che portava alla cintura, ma l'urto gli sbattè il braccio contro il corpo. Lecter afferrò l'estremità del manganello e lo sollevò. Mentre il movimento stringeva la cintura intorno alla vita di Pembry, lo colpì alla gola con il gomito e gli affondò i denti nella faccia. Pembry tentò di difendersi a unghiate, ma il naso e il labbro superiore erano stretti nel morso. Lecter scosse la testa come un cane che uccide un ratto e strappò il manganello dalla cintura di Pembry. Nella cella, Boyle urlava seduto sul pavimento, e si frugava disperatamente nella tasca per cercare la chiave delle manette; la trovò, la lasciò cadere, la ritrovò. Lecter piantò l'estremità del manganello nello stomaco e nella gola di Pembry, facendolo cadere in ginocchio. Boyle infilò la chiave in una delle serrature delle manette, urlando. Lecter avanzò verso di lui, lo ridusse al silenzio con il Mace e mentre Boyle ansimava gli spezzò il braccio proteso, con due colpi di manganello. Boyle cercò di ripararsi sotto il tavolo: ma accecato dal Mace strisciò nella direzione sbagliata e con cinque colpi ben assestati non fu difficile ucciderlo.
Pembry era riuscito a sollevarsi a sedere. Gridava. Il dottor Lecter lo guardò con il suo sorriso rosso. «Io sono pronto, agente Pembry» disse.
Il manganello descrisse un arco nell'aria e colpì alla nuca Pembry che si allungò sussultando come un pesce centrato da una mazzata.
Le pulsazioni del dottor Lecter erano salite a più di cento, ma rallentarono subito e tornarono alla normalità. Spense il mangianastri e ascoltò.
Andò alla scala e ascoltò di nuovo. Vuotò le tasche di Pembry, prese la chiave della scrivania e aprì tutti i cassetti. Nell'ultimo c'erano le armi di Boyle e di Pembry, un paio di pistole .38 Special. E c'era di meglio: nella tasca di Boyle trovò un coltello a serramanico.