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Everett Yow guidava una Buick nera con l'adesivo della De Paul University sul lunotto posteriore. Il suo peso sbilanciava un po' la Buick sulla sinistra mentre Clarice Starling lo seguiva fuori Baltimora, sotto la

pioggia. Era quasi buio. La giornata di Clarice dedicata all'indagine era

quasi passata, e non ne aveva a disposizione un'altra. Cercava di dominare l'impazienza tamburellando sul volante al ritmo del movimento dei tergicristalli mentre il traffico avanzava lentamente sulla Strada 301.

Yow era intelligente, grasso, e aveva difficoltà a respirare. Clarice pensava che dovesse avere una sessantina d'anni. Finora era stato accomodante. La giornata persa non era colpa sua; l'avvocato di Baltimora era tornato nel tardo pomeriggio da un viaggio d'una settimana a Chicago, ed era andato direttamente dall'aeroporto in ufficio per incontrarsi con lei.

La Packard classica di Raspail era stata messa in magazzino molto tempo prima della sua morte, spiegò Yow. Non aveva la targa e non era mai stata usata. L'avvocato l'aveva vista una volta, coperta e nel capannone, per confermarne l'esistenza per l'inventario che aveva compilato poco dopo l'assassinio del suo cliente. Se l'agente Starling avesse accettato di "rivelare subito e francamente" tutto ciò che avrebbe scoperto e che avrebbe potuto essere dannoso per la reputazione del defunto, disse, le avrebbe mostrato l'automobile senza bisogno di un mandato e di altre seccature.

Clarice Starling si godeva, per quel giorno, l'uso di una Plymouth del parco macchine dell'FBI con tanto di radiotelefono; e aveva un tesserino nuovo fornito da Crawford. Diceva semplicemente INVESTIGATORE FEDERALE... e scadeva di lì a una settimana.

La loro destinazione era lo Split City Mini-Storage, circa sette chilometri fuori dai confini della città. Mentre avanzava adagio a causa del traffico, Clarice si servì del radiotelefono per scoprire qualcosa di più sul magazzino. Prima ancora di avvistare l'insegna arancione, SPLIT CITY MINI-STORAGE - LA CHIAVE LA TENETE VOI, aveva imparato qualche particolare.

Lo Split City aveva una licenza della Commissione Interstatale per il Commercio, intestata a Bernard Gary. Un gran giurì federale non era riuscito, tre anni prima, a incriminare Gary per trasporto interstatale di merci rubate, e la sua licenza era in corso di revisione.

Yow svoltò sotto l'insegna e mostrò le sue chiavi a un giovanotto in uniforme che stava di guardia al cancello. Il giovane annotò i numeri di targa, aprì e accennò di passare con un gesto impaziente, come se avesse cose molto più importanti da fare.

Split City è un posto squallido e ventoso. Come il volo domenicale dei divorzi dall'aeroporto La Guardia a Juarez, rappresenta un servizio per l'irrazionale moto browniano della nostra popolazione; quasi tutto ciò che vi viene custodito è il frutto delle spartizioni che seguono i divorzi. I suoi capannoni sono pieni di mobili da soggiorno, tinelli, materassi macchiati, giocattoli e fotografie di legami che non hanno funzionato. I dipendenti dell'ufficio dello sceriffo della Contea di Baltimora sono convinti, inoltre, che Split City nasconda parecchia roba di valore sottratta ai tribunali fallimentari.

Somiglia a un'installazione militare: dieci ettari di lunghi capannoni, suddivisi da muri antincendio in unità grandi come spaziosi garage singoli, ognuna con la saracinesca. Le tariffe sono ragionevoli e parte del materiale è lì da anni. Il servizio di sicurezza è efficiente. Il deposito è circondato da due recinzioni, e nello spazio intermedio si aggirano i cani da guardia, ven-tiquattr'ore su ventiquattro.

Uno strato di quindici centimetri di foglie fradice, bicchieri di carta e altri rifiuti s'era ammucchiato alla base della porta dell'unità di Raspail, la numero 31. Un robusto lucchetto bloccava la porta da ogni lato. Su quello di sinistra c'era un sigillo. Everett Yow si chinò con un movimento rigido. Nell'oscurità appena discesa, Clarice reggeva un ombrello e una lampada tascabile.

«Sembra non sia stata aperta da quando sono venuto qui cinque anni fa» disse. «Vede? Nella plastica è impresso il mio sigillo notarile. A quell'epoca non immaginavo che i patenti fossero tanto litigiosi e che l'approvazione del testamento si sarebbe trascinata per tanto tempo.»

Yow prese la lampada tascabile e l'ombrello mentre Clarice fotografava il lucchetto e il sigillo.

«Il signor Raspail aveva un ufficio-studio in città, e l'ho chiuso per evitare che l'asse ereditario dovesse pagare l'affitto» disse. «Ho fatto portare qui i mobili e li ho sistemati con la macchina e le altre cose che c'erano già. Ci abbiamo portato un pianoforte verticale, libri e musica, e anche un letto, a quanto ricordo.»

Yow provò una chiave. «Forse le serrature sono bloccate. Questa, almeno, è molto dura.» Per lui era difficile piegarsi e respirare nello stesso tempo. Quando cercò di accosciarsi, le sue ginocchia scricchiolarono.

Clarice notò con soddisfazione che i lucchetti, grossi e cromati, erano American Standard. Sembravano formidabili: ma sapeva che avrebbe potuto far saltare facilmente i cilindri con una vite metallica e un martello con la coda appuntita... quand'era bambina, suo padre le aveva mostrato il sistema usato dagli scassinatori. Il problema sarebbe stato trovare il martello e la vite; ora non aveva a disposizione il ciarpame che era sempre a bordo della Pinto.

Frugò nella borsa e trovò la bomboletta di spray che usava per le serrature della sua macchina.

«Vuole riposarsi un momento, signor Yow? Perché non si scalda per qualche minuto in auto mentre provo io? Prenda l'ombrello. Ormai è soltanto un'acquerugiola.»

Clarice avvicinò la Plymouth dell'FBI alla porta, per sfruttare la luce dei fari. Prese l'oliatore e fece sgocciolare un po' d'olio nelle serrature dei lucchetti, quindi spruzzò lo spray per diluirlo. Il signor Yow, che era risalito sulla sua macchina, annuì e le sorrise. Era una fortuna che fosse un uomo intelligente: avrebbe potuto svolgere il suo lavoro senza alienarselo.

Ormai era completamente buio, e Clarice si sentiva esposta nella luce dei fari della Plymouth. Sentiva la cinghia della ventola che cigolava, mentre il motore era al mimmo. Aveva chiuso a chiave la portiera. Il signor Yow sembrava del tutto innocuo; ma non c'era motivo di correre il rischio di finire schiacciata contro la porta.

Il lucchetto le sobbalzò nella mano come una rana e si aprì, pesante e unto. L'altra serratura, che aveva avuto il tempo di lubrificarsi, fu più facile.

La porta a bilanciere non voleva saperne di alzarsi. Clarice tirò la maniglia fino a quando vide macchie luminose che le danzavano davanti agli occhi. Yow venne ad aiutarla, ma la maniglia era troppo piccola, e lui soffriva d'ernia: il suo intervento non servì a molto.

«Potremmo tornare la settimana prossima con mio figlio o qualche operaio» propose il signor Yow. «Vorrei tanto poter andare presto a casa.»

Clarice non era affatto sicura che avrebbe potuto ritornare lì. Per Cra-wford sarebbe stato più semplice prendere il telefono e dare l'incarico all'ufficio di Baltimora. «Signor Yow, cercherò di sbrigarmi. Ha un cric in macchina?»

Piazzò il cric sotto la maniglia e usò tutte le sue forze per azionare la leva. La porta emise un cigolio terribile e si alzò di un centimetro. Sembrava che s'incurvasse verso l'alto in centro. La porta si sollevò di altri due centimetri, poi di altri due, fino a quando Clarice poté infilarvi sotto la ruota di scorta, per tenerla bloccata mentre spostava il cric del signor Yow e quello della Plymouth ai lati della soglia e li metteva sotto il bordo, vicino alle guide.

Azionò i cric, prima da una parte e poi dall'altra, e riuscì a far alzare la porta di circa mezzo metro; poi s'incastrò completamente e Clarice non riuscì a smuoverla per quanto usasse tutte le sue forze nell'azionare ancora i cric.

Il signor Yow venne a sbirciare sotto la porta. Non poteva stare curvo per più di qualche secondo.

«C'è odore di topi, là dentro» disse. «Mi avevano assicurato che usavano il veleno. Mi pare che sia precisato nel contratto. I roditori sono quasi sconosciuti, mi avevano detto. Però io li sento... lei no?»

«Li sento» disse Clarice Starling. La luce della torcia elettrica le mostrava alcuni scatoloni e un grande pneumatico con la fascia bianca sotto il bordo di un telone. La gomma era sgonfia.

Fece indietreggiare la Plymouth fino a quando una parte della luce dei fari passò sotto la porta, e tirò fuori uno dei tappetini di gomma.

«Ha intenzione di entrare, agente Starling?»

«Devo dare un'occhiata, signor Yow.»

L'avvocato tirò fuori il fazzoletto. «Le consiglio di annodare i calzoni alle caviglie. Per evitare che i topi si arrampichino.»

«Grazie, è un'ottima idea. Signor Yow, se la porta si abbassasse, ah, ah,

o se succedesse qualcosa d'altro, mi farebbe la cortesia di telefonare a questo numero? È il nostro ufficio di Baltimora. Sanno che in questo momento sono qui con lei e si allarmeranno se non mi farò viva tra poco. Capisce?»

«Sì, certo, capisco benissimo.» Yow le porse la chiave della Packard.

Clarice mise il tappetino sul terreno bagnato davanti alla porta, vi si sdraiò. Con una mano teneva un pacco di sacchetti di plastica per raccogliere le prove stretto contro l'obiettivo della macchina fotografica, e si era legata i pantaloni alle caviglie con il suo fazzoletto e con quello che le aveva dato Yow. La pioggerella le bagnava il viso, e l'odore di topi e di muffa le assaliva le narici. Quella che le venne in mente fu, per un caso assurdo, una frase latina.

Il suo insegnante di medicina legale l'aveva scritta sulla lavagna il giorno della prima lezione, ed era il motto dei medici romani: Primum non no-cere. Per prima cosa, non nuocere.

Ma non l'aveva detto in un garage pieno di stramaledetti topi.

E all'improvviso risuonò la voce di suo padre. Le parlava tenendo la mano sulla spalla di suo fratello. «Se non sei capace di giocare senza strillare, Clarice, torna in casa.»

Abbottonò il colletto della blusa, alzò le spalle intorno al collo e scivolò sotto la porta.

Era sotto la parte posteriore della Packard. Là macchina era parcheggiata sul lato sinistro del magazzino e quasi toccava il muro. Sul lato destro c'era una catasta di scatoloni che riempiva lo spazio accanto alla macchina. Clarice continuò a strisciare sul dorso fino a quando sporse la testa nello stretto varco tra la Packard e le scatole. Puntò il fascio di luce verso l'alto. Parecchi ragni avevano tessuto le tele in quello spàzio limitato. Erano quasi tutte ragnatele rotonde, costellate da minuscole carcasse raggrinzite e avvolte in bozzoli.

Bene, l'unico ragno che può far paura è quello bruno, e non fa tele all'aperto, si disse Clarice. Gli altri sono quasi innocui.

C'era abbastanza spazio per alzarsi dietro il paraurti posteriore. Clarice si girò fino a quando uscì da sotto là macchina, con la faccia vicina alla gomma dalla fascia bianca. Era tutta scrostata, ma vi si leggeva ancora la scritta GOODYEAR DOUBLE EAGLE. Clarice stette attenta a non urtare la testa, si alzò nello spazio stretto tenendo la mano davanti al viso per rompere le ragnatele. Era quella l'impressione, che si provava quando si portava un velo?

Dall'esterno le arrivò la voce del signor Yow. «Tutto bene, signorina Starling?»

«Tutto bene» rispose lei. Al suono della sua voce vi furono minuscoli fruscii, e qualcosa, all'interno di un pianoforte, fece udire alcune note alte.

I fari della Plymouth le illuminavano le gambe fino al polpaccio.

«Ha trovato il piano, agente Starling» disse il signor Yow.

«Non ero io.»

«Oh.»

La macchina era grande, alta e lunga. Una berlina Packard del 1938, secondo l'inventario di Yow. Era coperta da un tappeto, con il pelo all'interno. Clarice vi fece scorrere sopra la luce della lampada tascabile.

«È stato lei a mettere il tappeto, signor Yow?»

«Ho trovato la macchina così e non l'ho mai scoperta» rispose l'avvocato attraverso la porta. «Non potrei spostare un tappeto impolverato. Era stato Raspail a sistemare tutto. Io mi sono limitato ad assicurarmi che la macchina ci fosse. I miei traslocatori hanno messo il piano contro il muro, l'hanno coperto, hanno ammucchiato altri scatolom accanto alla macchina e se ne sono andati. Li pagavo un tanto all'ora. Gli scatoloni contengono soprattutto fogli di musica e libri.»

Il tappeto era pesante; e quando Clarice Starling lo tirò, una nube di polvere si alzò nel fascio di luce della lampada, facendola starnutire due volte. Si alzò in punta di piedi per sollevare il tappeto sulla fiancata della vecchia automobile. Le tendine dei finestrini posteriori erano tirate. La maniglia della portiera era coperta di polvere. Dovette sporgersi al di sopra degli scatoloni per toccarla. Riuscì ad arrivare all'estremità e cercò di abbassarla: era chiusa a chiave, e non c'era una serratura nella portiera posteriore. Avrebbe dovuto spostare parecchi scatoloni per raggiungere la portiera anteriore e c'era pochissimo spazio per sistemarli. Scorse un piccolo varco fra la tendina e la cornice del finestrino posteriore.

Clarice si protese sopra le scatole per accostare l'occhio al vetro e fece filtrare il fascio di luce nella fenditura. Riuscì a scorgere solo la propria immagine riflessa, fino a quando coprì con la mano la parte superiore della lampada. Un filo di luce, diffuso dal vetro polveroso, si mosse sul sedile. C'era un album aperto. I colori erano fiochi nella poca luce, ma Clarice scorse i biglietti incollati sulle pagine. Erano vecchi biglietti di san Valentino, ornati di pizzi di carta.

«Mille grazie, dottor Lecter.» Quando parlò, il suo alito sollevò la polvere sul bordo del finestrino e appannò il vetro. Non voleva pulirlo, e dovette attendere che tornasse a schiarirsi. La luce continuò a muoversi, su un plaid caduto sopra il tappetino della macchina e sul luccichio polveroso di un paio di scarpe di vernice da uomo. Un paio di scarpe da sera. Sopra le scarpe, calzini neri, e sopra i calzini c'erano i pantaloni da smoking, con due gambe dentro.

Nessunoèentratoquidacinque anni... Calma, calma, piccola.

«Oh, signor Yow! Mi sente, signor Yow?»

«Sì, agente Starling?»

«Signor Yow, sembra che in macchina sia seduto qualcuno.»

«Oh, santo cielo! È meglio che venga fuori, signorina Starling.»

«Non subito. Lei mi aspetti lì, per favore.»

Adesso è importante pensare. E molto più importante dì tutte le sciocchezze che confiderai al tuo cuscino per il resto della tua vita. Respira profondamente e non sbagliare. Non voglio distruggere le prove. Ho bisogno d'aiuto. Ma soprattutto non voglio dare un falso allarme. Se chiamo l'ufficio dì Baltimora e i poliziotti corrono qui per niente, sono fregata. Ho visto qualcosa che sembra un paio di gambe. Il signor Yow non mi avrebbe condotta qui se avesse saputo che c'era uno stecchito in macchina. Clarice riuscì a sorridere. "Stecchito"... era una spavalderia. Nessuno è stato più qui dopo l'ultima visita di Yow. D'accordo, significa che gli scatoloni sono stati portati dopo quello che c'è dentro alla macchina. E questo vuol dire che posso spostare le scatole senza perdere niente d'importante.

«Tutto a posto, signor Yow?»

«Sì. Dobbiamo chiamare la polizia oppure basta lei, agente Starling?»

«Questo dovrò scoprirlo. Continui ad aspettare lì, per favore.»

Il problema degli scatoloni era esasperante quanto il cubo di Rubik. Clarice cercò di lavorare tenendo la torcia elettrica sotto il braccio, la fece cadere due volte e alla fine la piazzò sopra la macchina. Doveva mettere gli scatoloni alle sue spalle, e alcuni dei più piccoli, quelli con i libri, poteva infilarli sotto l'automobile. Un morso di ragno o forse una scheggia le faceva dolere il pollice.

Adesso riusciva a vedere attraverso il vetro polveroso del finestrino anteriore, dalla parte del passeggero. Un ragno aveva intessuto la tela tra il grande volante e la leva del cambio. Il vetro divisorio tra la parte anteriore e quella posteriore era chiuso.

Clarice si rammaricava di non aver pensato a oliare la chiave della Packard prima di passare sotto la porta: ma quando la inserì nella serratura, funzionò.

C'era spazio soltanto per aprire la portiera per circa un terzo, nello stretto varco: batté contro gli scatoloni con un tonfo che fece fuggire i topi e strappò altre note al pianoforte. Un odore stantio di putredine e di sostanze chimiche uscì dalla macchina e colpì la memoria di Clarice, evocando un luogo che non avrebbe saputo nominare.

Si sporse all'interno, aprì il divisorio dietro il sedile dello chauffeur e puntò il fascio di luce della torcia elettrica nel compartimento posteriore.

La luce inquadrò per prima cosa una camicia con i bottoni lucidi, salì verso la faccia che non c'era, ridiscese, sui bottoni della camicia e i risvolti di raso, fino ai calzoni con la lampo aperta, risalì alla cravatta a farfalla e al colletto dal quale emergeva il collo bianco di un manichino. Ma sopra il collo qualcosa d'altro rifletteva la poca luce. Era un cappuccio di stoffa nera al posto della testa, grande come se coprisse una gabbia per pappagalli. Velluto, pensò Clarice Starling. Era appoggiato su un ripiano di compensato che si estendeva dal lunotto fin sopra il collo del manichino.

Clarice scattò diverse fotografie dal sedile anteriore, scegliendo le inquadrature con la torcia elettrica e chiudendo gli occhi per non restare abbagliata dal flash. Si raddrizzò, ritraendosi dalla macchina. E così, al buio, infradiciata e coperta di ragnatele, pensò a ciò che doveva fare.

Non avrebbe chiamato l'agente speciale responsabile dell'ufficio di Baltimora per mostrargli un manichino con i calzoni aperti e un album di biglietti di san Valentino.

Quando ebbe deciso di infilarsi sul sedile posteriore e di togliere il cappuccio, preferì non stare a pensare a lungo. Tese il braccio attraverso il divisorio, sbloccò la portiera posteriore, spostò qualche scatolone per poterla aprire. Le sembrò che la manovra richiedesse molto tempo. L'odore che usciva dal compartimento posteriore divenne molto più forte, quando aprì. Si sporse, sollevò cautamente per gli angoli l'album dei biglietti, lo posò su uno dei sacchetti per raccogliere le prove che aveva messo sul tettuccio della macchina. Aprì un altro sacchetto sul sedile.

Le molle della macchina cigolarono quando salì, e il manichino si spostò leggermente. La mano destra inguantata di bianco scivolò dalla coscia e ricadde sul sedile. Clarice toccò il guanto con l'indice. La mano, all'interno, era dura. Scostò delicatamente il guanto dal polso. E il polso era di un materiale sintetico bianco. Nei calzoni c'era una protuberanza che per un momento assurdo le ricordò certi avvenimenti dei tempi in cui frequentava le superiori.

Un fruscio leggero veniva da sotto il sedile.

La sua mano toccò il cappuccio in un gesto leggero come una carezza. La stoffa si mosse senza difficoltà sopra qualcosa di duro e levigato. Quando Clarice sentì il pomolo rotondo in alto, comprese. Era un grande recipiente per esemplari da laboratorio. E sapeva che cosa vi avrebbe trovato. Con un certo timore ma senza il minimo dubbio, tolse il cappuccio.

La testa nel recipiente era stata tagliata di netto sotto la mascella. Era rivolta verso di lei, e gli occhi erano stati bruciati e resi lattiginosi dall'alcol che l'aveva conservata. La bocca era aperta e la lingua grigia sporgeva leggermente. Con gli anni l'alcol era evaporato al punto che la testa poggiava sul fondo del recipiente, e la sommità affiorava dalla superficie del liquido in una calotta di putredine. Era girata ad angolo rispetto al corpo, come la testa di un gufo, e fissava stupidamente Clarice Starling. Era muta e morta persino nel gioco di luce sui lineamenti.

In quel momento Clarice Starling pensò a se stessa. Era soddisfatta. Era euforica. Per un secondo si chiese se erano sentimenti degni di lei. In quel momento, seduta a bordo di una vecchia automobile in compagnia di una testa mozza e di diversi topi, riusciva a riflettere chiaramente, e ne era orgogliosa.

«Bene, Toto» disse «non siamo più nel Kansas.» Aveva sempre desiderato dire quella frase in un momento di tensione: ma ora che l'aveva fatto si sentiva fasulla, ed era contenta che nessuno avesse sentito. C'era del lavoro da fare.

Si assestò sul sedile e si guardò intorno.

Era un ambiente scelto e creato da qualcuno, lontano mille anni luce, nel pensiero, dal traffico che procedeva molto lentamente sulla Strada 301.

I fiori secchi penzolavano dai vasetti di cristallo intagliato fìssati all'interno della macchina. Il tavolo pieghevole era abbassato e coperto da una tovaglietta di lino. Sopra c'era una bottiglia per liquori che scintillava nonostante un velo di polvere. Un ragno aveva intessuto la tela tra la bottiglia e il piccolo candeliere che le stava accanto.

Clarice cercò d'immaginare Lecter o qualcun altro che seduto lì con il suo attuale compagno, beveva qualcosa e gli mostrava i biglietti di san Valentino. E che altro? Con movimenti cauti per spostare il meno possibile il manichino, lo perquisì cercando qualcosa che portasse a un'identificazione. Non c'era nulla. In una tasca della giacca trovò le strisce di stoffa che erano avanzate quando qualcuno aveva accorciato i pantaloni... lo smoking era probabilmente nuovo quando era stato messo indosso al manichino.

Clarice Starling toccò la protuberanza nei calzoni. Troppo dura persino per le scuole superiori, pensò. Allargò l'apertura con le dita e puntò la lampada su un pene artificiale di legno lucido e intarsiato. E bello grosso, anche. Si chiese se era una depravata, per caso.

Girò piano piano il recipiente ed esaminò i lati della testa e l'occipite, cercando qualche ferita. Non ne vide. Sul vetro era impresso il nome di un'azienda che vendeva materiale per laboratori.

Osservò di nuovo la faccia e pensò di aver imparato qualcosa che poteva esserle utile: guardare la faccia con la lingua che cambiava colore dove toccava il vetro non era orribile come il pensiero di Miggs che inghiottiva la lingua nei suoi sogni. Si rendeva conto che poteva guardare qualunque cosa, se poteva fare qualcosa di positivo al riguardo. Clarice Starling era giovane.

In dieci secondi, dopo che la sua unità mobile della WPIK-TV si fu fermata, Jonetta Johnson mise gli orecchini, s'incipriò il bel viso bruno e valutò la situazione. Lei e la sua troupe del telegiornale, dato che avevano ascoltato la radio della polizia della Contea di Baltimora, erano arrivati a Split City precedendo addirittura le auto di pattuglia.

Tutto ciò che la troupe vide inquadrato nella luce dei fari fu Clarice Star-ling, ritta davanti alla porta del garage con la torcia elettrica e il tesserino di plastica rigida e i capelli incollati alla testa dalla pioggerella.

Jonetta Johnson era in grado di riconoscere una recluta novellina al primo colpo d'occhio. Scese, seguita dalla troupe, e si avvicinò a Clarice. I riflettori si accesero.

Il signor Yow si acquattò nella sua Buick. Soltanto il cappello rimase visibile attraverso il finestrino.

«Jonetta Johnson, telegiornale della WPIK, è stata lei a segnalare un omicidio?»

Clarice non aveva molto l'aria della rappresentante della legge e se ne rendeva conto. «Sono un agente federale, e questa è la scena di un delitto. Devo sorvegliarla finché le autorità di Baltimora...»

L'assistente del cameraman aveva afferrato la porta del garage e stava cercando di sollevarla.

«Fermo» ordinò Clarice Starling. «Sto parlando con lei, signore. Fermo. Indietro, per favore. Non sto scherzando. Mi aiuti.» Rimpiangeva di non avere un distintivo, un'uniforme... qualcosa, insomma.

«Va bene, Harry» disse la giornalista. «Ah, agente, noi intendiamo collaborare in tutti i modi. Francamente, questa troupe costa un pozzo di quattrini e io voglio solo sapere se vale la pena di tenerla qui fino all'arrivo degli altri tutori della legge. Vuol dirmi se c'è un cadavere, là dentro? La telecamera non è in funzione, resterà fra noi. Me lo dica, e aspettiamo. Faremo i bravi, glielo prometto. D'accordo?»

«Se fossi al suo posto, aspetterei» disse Clarice.

«Grazie, non se ne pentirà» disse Jonetta Johnson. «Vede, ho certe informazioni sullo Split City Mini-Storage che forse potrebbero servirle.

Vuole puntare la torcia elettrica sulla cartelletta? Vediamo se riesco a trovarle.»

«L'unità mobile della WEYE è appena entrata dal cancello, Joney» annunciò l'uomo che si chiamava Harry.

«Vediamo se riesco a trovarle, agente... ecco qui. Ci fu uno scandalo un paio d'anni fa quando cercarono di provare che l'azienda trasportava e immagazzinava... erano fuochi artificiali, mi sembra...» Jonetta Johnson lanciò un'occhiata al di là della spalla di Clarice, una volta di troppo.

Clarice si voltò e vide il cameraman sdraiato supino, con la testa e le spalle all'interno del garage; l'assistente era accovacciato accanto a lui, pronto a passargli la minicamera sotto la porta.

«Ehi!» gridò Clarice. Si lasciò cadere in ginocchio sul terreno bagnato e tirò l'uomo per la camicia. «Non può entrare! Ehi! Le ho detto di non farlo.»

Gli uomini continuavano a parlarle, gentilmente. «Non toccheremo niente. Siamo professionisti, non deve preoccuparsi. I poliziotti, tanto, ci lasceranno entrare. È tutto a posto, tesoro.»

Quei modi suadenti da seduttori le fecero perdere la pazienza.

Corse a uno dei cric da un lato della porta e azionò la leva. La porta si abbassò di cinque centimetri con uno stridore metallico. Clarice azionò la leva una seconda volta: adesso la porta toccava il petto dell'uomo. Quando vide che non si decideva a uscire, estrasse la leva e la portò accanto al cameraman. Adesso c'erano altri riflettori accesi: e in quel bagliore Clarice batté con forza la leva contro la porta facendo cadere sull'uomo una pioggia di polvere e di ruggine.

«Stia a sentire» disse. «Non vuole ascoltarmi, vero? Esca di lì. Immediatamente. O fra un secondo l'arresterò per aver ostacolato il corso della giustizia.»

«Calma, calma» disse l'assistente, tendendo la mano verso di lei per toccarla. Clarice si voltò di scatto. Al di là delle luci accecanti qualcuno gridò qualcosa. Poi si sentirono le sirene.

«Giù le mani e indietro, amico.» Clarice montò sulla caviglia del cameraman e fronteggiò l'assistente con la leva del cric abbandonata lungo il fianco. Non l'alzò. E fu meglio. Già così sembrava terribile in televisione.

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