8

Il telefono aveva squillato a lungo, prima che Matt afferrasse la più vicina delle quattro sveglie che aveva appoggiato sempre più lontano dal letto. Con la sveglia spenta premuta al petto, si stava sistemando in una posizione fetale quando si rese conto che lo scampanellio continuava.

«Pronto?»

«Dottor Rutledge, sono Jeannie Putnam del pronto soccorso.»

«Che bello.»

«Dottor Rutledge, è sveglio?»

«Sono sveglio. Sono sveglio. Da quanto tempo lavora all’ospedale, Jeannie?»

«Da tre mesi, perché?»

«Non mi creda quando dico che sono sveglio.»

«Ma ora lo è?»

«Sì.» Matt accese la lampada sul comodino. «Solo che non sono di guardia.»

«Lo so, ma è appena arrivato qui, al pronto soccorso, un uomo che sostiene che suo fratello continua a svenire. È fuori nel suo camion, ma non vuole entrare, a meno che non sia lei a visitarlo. Quello che è entrato ha detto che non occorre che le dica il nome, lei avrebbe capito chi sono… Dottor Rutledge?»

Matt pose la sveglia sotto la lampada. Le tre e un quarto. Gemette e si stirò. Una dozzina di punti doloranti del suo corpo protestarono. Aveva terminato i giri di visita alle sette di sera, quindi era corso in palestra per il campionato C A di pallacanestro, dove C A stava per contusioni e abrasioni. Aveva avuto un minuto per il riscaldamento, prima di iniziare, con un gruppo di ultratrentenni, due ore e mezzo di battaglia a tutto campo. Aveva conservato un po’ dell’abilità di quando era stato capitano della squadra del liceo, ma la maggior parte dei contendenti aveva perso qualsiasi finezza avesse mai avuto e l’aveva sostituita con un miscuglio di forza bruta e goffaggine legata all’età. Non fosse stato per i cosiddetti arbitri che s’intromettevano, ogni lunedì e giovedì avrebbero invaso il pronto soccorso.

«Sono sveglio, sono sveglio», ripeté. «Solo sbalordito. Quegli uomini saranno probabilmente due dei fratelli Slocumb.»

«Oh, mio Dio.»

«A quanto pare ha già sentito parlare di loro.»

«Un po’. Vengo da Filadelfia e pensavo che questa storia ‘appalachiana’ fosse stata inventata per scioccarmi. Quanti fratelli sono?»

«Quattro. Può vedere quello che è entrato al pronto soccorso?»

«No. È tornato al camion. Dottor Rutledge, ha un odore tremendo.»

«Non per lui, forse. Ricorda se ha qualche dente?»

«Cosa?»

«Denti. Ne ha?»

«Solo un paio davanti, credo.»

«Allora dovrebbe essere Lewis. Gli dica di portare suo fratello nel pronto soccorso e di lasciarglielo visitare o io, appena arrivo, volterò la moto e tornerò a casa. Sia risoluta. I fratelli Slocumb sono uno più testardo dell’altro. L’unica possibilità che ha è esserlo più di loro. Rispettano chiunque abbia fegato.»

«Oh, quello non mi manca», replicò Jeannie. «Ciò che mi preoccupa è la perdita permanente del senso dell’olfatto.»

«Gli prenda per favore la pressione sanguigna da sdraiato, seduto e, se le pare possa farcela, in piedi.»

«D’accordo.»

«Elettrocardiogramma ed esami di routine se riesce a indurlo a lasciarseli fare. Prelevi inoltre tre unità per la tipizzazione dei gruppi sanguigni, faccia una prova incrociata di compatibilità e si tenga pronta a eseguirne un’altra su altre tre unità.»

«Ritiene abbia una emorragia?»

«Non ne ho idea. Ma non sarebbero mai venuti al pronto soccorso se la faccenda non fosse molto grave. Distillano liquori in una orrenda baracca dietro casa loro. Mi chiedo se il whisky non gli abbia corroso il rivestimento dello stomaco.»

«Mi metto subito al lavoro. Lei è sveglio, vero?»

«Le probabilità sono a favore», ribatté Matt, tirandosi giù dal letto. «Sarò lì tra quindici minuti.»

Il martellio dietro gli occhi lo spinse a cercare di ricordare quante birre avesse ingollato con gli amici dopo la partita. Non così tante, decise, dato che si era svegliato facilmente, di certo non sufficienti per affrontare lo Slocumb accasciato sul sedile anteriore del camion.

I fratelli Slocumb, Kyle, Lyle, Lewis e Frank, erano tutti sulla cinquantina o appena passata la sessantina. Vivevano insieme dalla nascita nella fattoria che fungeva anche da deposito di robivecchi, un centinaio di acri situati a una decina circa di aspri e boschivi chilometri a nord della città. La madre, deceduta da decenni, era forse l’unica donna che avesse mai messo piede in quella fattoria. Da quando Matt li conosceva, ed era passato molto tempo, gli Slocumb non avevano mai menzionato il padre.

Matt aveva sentito parlare dei «Fratelli Strani» fin dalla prima infanzia. Su di loro circolavano le più disparate dicerie: che erano stravaganti, perversi e addirittura spaventosi. Come la maggior parte dei bambini della zona, a Matt era stato vietato avvicinarsi alla loro casa. Aveva dieci anni, quando uno dei ragazzi più grandi l’aveva sfidato a cercare di ottenere da loro un contributo per la squadra di baseball.

Nessuno dei ragazzi era disposto a oltrepassare la pista sterrata che portava alla fattoria diramandosi dalla stretta strada principale. Uno di loro aveva detto a Matt che la casa si trovava poco più in su. Di fatto, era a più di cinque chilometri. Matt li aveva percorsi un po’ in bicicletta, un po’ a piedi. Davanti alla porta di quella casa sgangherata, aveva esitato, stringendo la lattina per la donazione con tanta forza che aveva temuto d’averla schiacciata. Per calmarsi, aveva poi tratto quel profondo respiro che un giorno avrebbe usato prima di infilare un ago di grosso calibro nel torace di un giovane minatore, e aveva bussato.

Venti minuti dopo era tornato sulla strada sterrata. Nel cestino aveva un sandwich al salame con pane fatto in casa. Al polso un braccialetto creato con chiodi per ferri da cavallo piegati. E nella lattina vi erano due banconote spiegazzate e unte da un dollaro. Prima della fine della giornata, tutto il paese conosceva una o due versioni della storia e suo padre gli aveva tolto per due settimane la paglietta per disobbedienza e gli aveva proibito di avvicinarsi di nuovo a quel luogo. Da quel momento, Matt aveva tenuto segrete le sue visite mensili alla fattoria. Da quando era tornato a Belinda alla fine dell’internato, andava spesso lassù per qualche trattamento medico o semplicemente per chiacchierare. Gli piaceva tutto, o quasi tutto, di ciò che aveva appreso sui quattro uomini nel corso degli anni, anche se nessuno di loro aveva i requisiti necessari per vincere un premio come gran conversatore. Sapeva inoltre che ora vi era un’intera nuova generazione di bambini cui i genitori avevano vietato di avvicinarsi ai Fratelli Strani. E gli Slocumb ne erano ben contenti.

Matt s’infilò un paio di jeans, una camicia a scacchi e gli stivali. Non sarebbe di certo tornato a casa, prima che fosse iniziata la giornata lavorativa.

La busta era sul pavimento accanto alla porta d’entrata. Matt l’aveva calpestata prima di notarla. Era una semplice busta bianca, macchiata qua e là di grasso e sporco. A stampatello e in matita era stato scritto faticosamente «Dr rutlege». Per come si era sentito dopo la partita di pallacanestro e il post-mortem alla Woody’s Tavern, la busta era forse già lì quando era tornato a casa. Accese la luce in soggiorno e l’aprì.


Dottor rutlege

Ai ragione.

C’è veleno sepolto in Monti.

Trovalo atraverso Tunel nel Crepacio.

dà loro la Ricompensa come dovuto.

Firmato

un Amigo premuroso.


Il biglietto ricordava la scrittura di molti montanari, un miscuglio di lettere maiuscole e minuscole, ortografia fonetica e nessuna attenzione alla punteggiatura. Chi l’avesse scritto non importava, di certo importava il fatto che fosse chiaramente dalla parte giusta, dalla sua parte. Con il cuore che gli batteva forte, Matt ripose il biglietto nella busta che infilò nella tasca dei jeans. Con ogni probabilità, questa era l’occasione per cui aveva lavorato tanto.

Il tunnel nel crepaccio.

Matt aveva vissuto in quella zona per buona parte della sua vita, ma non aveva alcuna idea del luogo cui si riferiva il biglietto. Chiunque l’aveva scritto, però, lo conosceva, e di certo lo conoscevano altri. Incoraggiato dalla svolta degli eventi, saltò sulla Harley e si lanciò giù per la collina verso l’ospedale.

Arrestò la motocicletta all’entrata illuminata del pronto soccorso e abbassò il cavalletto. Lo scalcagnato furgone degli Slocumb, parcheggiato lì vicino, era vuoto. Senza alcun particolare motivo, Matt indovinò che chi era svenuto era Kyle, il più estroverso e ostinato dell’eccentrico quartetto Slocumb.

Jeannie Putnam, tuta da sala operatoria rosso cupo e mascherina chirurgica, lo aspettava in un pronto soccorso sorprendentemente affollato. Era una donna alta di circa trent’anni con una buona conoscenza della medicina d’urgenza e una spiccata empatia per i pazienti.

«Le siamo grati di essersi precipitato qui», lo salutò.

«Quale fratello è?»

«Kyle. E lei aveva ragione riguardo all’altro. È Lewis.»

«Le analisi sono già avviate?»

«Kyle si è rifiutato di farsi fare qualsiasi analisi finché non fosse arrivato lei a prescriverlo.»

«Mio Dio.»

«Ma gli ho fatto cambiare idea», soggiunse lei, con una strizzatina d’occhio. «Sono riuscita addirittura a convincerlo a indossare un pigiama. È proprio carino, a modo suo.»

«Dovrebbe vedere la stanza in cui dormono. ‘Carino’ non è il primo aggettivo che le verrebbe in mente. Sono comunque contento che lei apprezzi un po’ del suo charme. Che ha richiesto?»

«Il solito, un esame emocromocitometrico completo, Chem 12, più la prova crociata. Mi spieghi perché l’ha richiesta?»

Matt alzò le spalle e scrollò la testa. «Non lo so. Non ho mai dovuto curare Kyle per problemi medici. Qualcosa che lei mi ha detto sui suoi ripetuti svenimenti mi ha suggerito una bassa pressione sanguigna, per cui ho pensato che forse si tratta di emorragia interna.»

«Se la sua diagnosi, fatta per telefono alle tre di notte, fosse esatta, avrei paura di lei.»

«Non sarebbe la prima», ribatté Matt.

Assolutamente ridicolo nel suo pigiama con motivo cachemire, il brizzolato Kyle Slocumb, il più giovane dei fratelli, fece un cenno di approvazione nel vederlo entrare dalla porta. Lewis Slocumb, che raramente pronunciava una parola in più, era seduto in un angolo, mezzo addormentato. Matt si avvicinò al letto e iniziò a visitare Kyle, mentre lo interrogava.

«Allora, Kyle, qual è il problema?»

Pelle scolorita, linee del palmo scolorite, letti ungueali scoloriti. Jeannie potrebbe avere ragione ad avere paura di me, pensò. Un’anemia era già in cima alla lista delle possibilità.

«Mi sono alzato per pisciare e ho avuto le vertigini, dottore. Lewis dice che sono svenuto, ma lui tende a esagerare.»

«Nessun dolore?»

Pulsazioni rapide, deboli.

«Solo il solito.»

«Ne stai bevendo molto di quel torcibudella che fabbricate lassù?»

Ventre molle. Forse un leggero irrigidimento muscolare protettivo sopra lo stomaco.

«Naturalmente. Ma lo bevono anche gli altri.»

«Le tue feci hanno un colore insolito?»

«Le mie cosa?»

«Le tue feci. Le evacuazioni.»

«Le mie cosa?»

«La tua merda, Kyle. La tua merda.»

«Oh, quella. Come faccio a saperlo? Nessuna persona sana di mente guarderebbe nel buco di un gabinetto esterno.»

«Che diavolo ha, dottore?» chiese Lewis.

«Non lo so, Lewis. Forse soffre di anemia.»

«Lo rimetterai a posto.»

«Lo rimetterò a posto, Lewis.»

Matt fece un esame efficiente e accurato che rivelò un notevole calo della pressione sanguigna quando Kyle si metteva seduto. Bassa massa sanguigna, esame emocromocitometrico scarso. Anemia. Ora bisognava cercare la causa di quella emorragia, partendo dalla più probabile. Matt s’infilò un guanto di gomma.

«A che serve?» domandò Kyle.

«Immagino tu l’abbia indovinato, Kyle. Girati, faccia verso la parete e tira le ginocchia al petto. Ho bisogno di vedere se stai sanguinando internamente.»

Kyle fece come gli era stato chiesto, ma, appena il dito inguantato di Matt gli toccò l’ano, gridò, irrigidì le gambe e iniziò a urlare come un animale ferito. I sanitari, due infermieri e un medico, si precipitarono nella stanza.

«Non credevo avrebbe fatto tutte queste storie», si scusò Lewis, biascicando le parole.

«Perché diavolo non hai detto qualcosa?» replicò Matt a voce più alta di quanto aveva voluto.

Jeannie Putnam e gli altri due rimasero sull’uscio, paralizzati. Matt, il dito inguantato teso verso l’alto come quello di un tifoso che, durante un bizzarro evento sportivo, proclama che la sua squadra è la migliore, sorrise loro con imbarazzo.

«Io… credo di non avere atteso l’approvazione di Kyle a questa procedura. A quanto pare questa è una zona delicata.»

«A quanto pare», ripeté Jeannie. «Ehm, dottor Rutledge, possiamo esserle d’aiuto?»

«Potrebbe assicurarsi che venga eseguita la prova crociata di compatibilità su sei unità di sangue e avvisare il laboratorio che abbiamo realmente bisogno del suo ematocrito.»

«Ha una emorragia interna?»

«Suppongo di sì.»

«Lo suppone?»

«Ne sarei più sicuro se potessi fare un controllo del sangue nelle feci. Kyle, che ne dici se vado lassù con un piccolo tampone?»

«No.»

«Senti, Kyle. Sono le tre e mezzo del mattino, tu sei malato e io ho bisogno di sapere perché. Per cui, o mi lasci eseguire questo procedimento o me ne vado a casa e torno a dormire.»

«Cosa?» esclamarono all’unisono Kyle e Jeannie.

«Non mi lasceresti mai, vero, dottore?» piagnucolò Kyle.

«Come no. Credimi, lo farei. Il dottor Ellis si prenderà cura di te ora e al mattino troveranno un altro medico. Naturalmente, se sarai ancora vivo. Allora, cosa facciamo?»

Per trenta secondi regnò il silenzio, poi, lentamente, Kyle si girò con il volto verso la parete e tirò su le gambe.

«Maledizione, sei proprio un cocciuto medico figlio di buona donna», rispose Kyle. «Eri cocciuto da bambino e non hai fatto che peggiorare.»

«Sarò delicato», promise Matt.


Alle sei e mezzo, l’incombente crisi attorno a Kyle Slocumb era passata. L’esame rettale, effettuato con tanta fatica, aveva rivelato feci nere risultate positive alla presenza di sangue, intimidito forse dall’intervento, non aveva opposto troppa resistenza all’inserimento di un sottile tubo in plastica, che Matt aveva fatto scivolare su per una narice e scendere lungo la faringe fino nello stomaco. Anni di forti sigarette di tabacco coltivato in casa avevano distrutto il riflesso faringeo e reso così quella difficile inserzione una bazzecola. Il contenuto dello stomaco aspirato attraverso il tubo era composto di sangue vecchio che assomigliava a caffè macinato e alcune strisce di sangue fresco, rosso brillante. Le trasfusioni avevano rimpiazzato il sangue perso e la massa ematica circolante, così che, quando Kyle era stato portato nel reparto gastrointestinale per sottoporsi a un esame eseguito dal gastroenterologo Ed Tanguay, aveva ripreso il suo colorito e la pressione sanguigna si era stabilizzata.

«Tutto a posto», commentò Lewis mentre usciva con Matt dal pronto soccorso. L’aria umida del mattino era fragrante.

«Quasi», replicò Matt. «Incrociamo le dita e speriamo che il dottor Tanguay trovi solo una gastrite. È una specie di infiammazione del rivestimento dello stomaco. Andrebbe bene anche se fosse una piccola ulcera.»

«Se invece fosse un tumore, sarebbe finita per lui.»

«Non necessariamente. Possiamo curare il cancro allo stomaco chirurgicamente. Ma non pensiamoci, fino a che non sappiamo cosa ha trovato il dottor Tanguay. Siamo fortunati che abbia potato visitare Kyle immediatamente.»

«Anche se quel medico dice che Kyle deve passare la notte in ospedale, penso che se ne andrà.»

«Secondo me dovrebbe rimanere in ogni caso, almeno per assumere alcuni farmaci per lo stomaco e fare forse un’altra trasfusione.»

«Senti, se può camminare, non rimarrà di certo.»

«Sono riuscito a fargli fare quell’esame, Lewis. Posso indurlo a rimanere.»

Lewis Slocumb si girò e guardò Matt. L’acutezza nei suoi occhi verde-azzurro era mascherata dal resto del volto sporco e segnato.

«Noi siamo diversi, Matthew», osservò. «È uno stile di vita che ci siamo scelti da soli e non c’importa che la maggior parte della gente ci consideri pazzi o addirittura malvagi. Cioè, finché non attraversiamo il confine con il loro mondo. Non è qualcosa che ci piace fare, credimi. Kyle e io abbiamo attraversato quel confine questa mattina. Ora vogliamo tornare indietro il più rapidamente possibile. Per cui, fa’ che accada, dottore, e noi correremo i nostri rischi. La nostra razza, i montanari, pensa che, finché non si fa del male a nessuno, si può essere come si vuole. La maggior parte della gente quaggiù in città non è affatto gentile con noi, e questo vale anche per il tuo ospedale.»

Matt era talmente stupito che non riuscì quasi a replicare. Da quando era tornato con il dottorato in medicina, Lewis Slocumb l’aveva sempre e soltanto chiamato dottore. E ora aveva anche pronunciato molte più parole di quante Matt potesse ricordare.

«D’accordo», riuscì a dire. «Farò tutto il possibile per far dimettere Kyle ma, se ritengo che sia in pericolo dovrai firmare l’autorizzazione contro il mio parere.»

«Lo farò. E tu smettila di preoccuparti. Non ti citeremo in giudizio, qualsiasi cosa succeda.»

Sghignazzò, tossì e sputò.

Matt fissò a est il primo bagliore del sole che illuminava il cielo da dietro le colline. Distrattamente, infilò la mano in tasca e sfiorò la busta.

«Ehi, Lewis, dimmi che ne pensi di questa», disse, porgendogli il biglietto.

Era certo che tutti gli Slocumb sapessero leggere più o meno bene.

«Non mi dice niente», rispose Lewis.

«Vuoi dire che non sai di che cosa sta parlando il tipo che ha scritto questo biglietto? Che non sai dov’è questo crepaccio?»

Lewis fregò il terreno con la punta dei suoi logori scarponcini.

«Non lo so, ma forse lo so.»

«Lewis, ho appena salvato la vita a tuo fratello e per anni sono venuto alla fattoria per visitarvi. Questo biglietto è molto importante per me. Ha a che fare con la miniera.»

«So con cosa ha a che fare. Ce l’hai proprio con quella vecchia miniera.»

«Ho le mie ragioni», borbottò Matt, esasperato. «Mio padre e mia moglie, e sono due. Un paio di minatori deceduti, altri due… Lewis?»

«Apprezzo ciò che hai fatto per Kyle là dentro, davvero.»

«E allora?»

«È realmente importante per te?»

«Lo è. Ho distribuito volantini offrendo una ricompensa a chi poteva darmi informazioni su scarichi illegali di rifiuti tossici della miniera, e qualcuno ha infilato questo biglietto sotto la mia porta.»

Lewis continuò a sfregare il terreno, pensieroso, ricoprendo gli incavi fatti nella sabbia. «Allora, niente di nuovo», affermò infine.

«Che intendi dire?»

«Voglio dire che un sacco di gente che vive nei boschi sa del crepaccio e della galleria e anche della merda che quelli della miniera tengono là dentro.»

Il polso di Matt accelerò.

«Che intendi con ‘merda’?» chiese.

«Sostanze chimiche, proprio come hai detto tu. A barili.»

«Dannazione. Lewis, puoi portarmi là?»

Lewis sospirò.

«Dentro la montagna? Suppongo di sì.»

«Quando?»

«Quando pensi di avere finito con Kyle?»

«Non lo so. Forse nel tardo pomeriggio.»

«Allora ne riparliamo nel tardo pomeriggio.»

«Però tu sai qualcosa di questo veleno di cui parla il biglietto?»

«Sì.»

«E mi porterai a vederlo di persona?»

«Immagino di sì, ma ora non posso dirti quando. Dipende anche dai miei fratelli.»

«Lewis, sai che da tempo cercavo di venire a sapere qualcosa sulla BC C. Perché non mi avete detto nulla al riguardo prima?»

«Dottore, a noi tu piaci. Ma ci piace anche mangiare.»

«Che diavolo significa?»

«Significa che Stevenson e i suoi uomini alla miniera ci hanno pagati per non dire ciò che sappiamo.»

«Non capisco. Che legame hanno con voi?»

Lewis si fregò il mento, poi sospirò di nuovo.

«Per un certo periodo, abbiamo trasportato quella roba là dentro per loro», rispose.

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