31

Nella grotta il buio era totale, opprimente e, per Matt, anche claustrofobico. Le esalazioni erano pungenti, anche se non caustiche come quelle del cloro; non ancora, almeno. Rimase seduto per un po’, calmandosi, respirando attraverso la camicia, la ragazza svenuta accanto a lui. Era evidente che Armand Stevenson e i suoi complici avevano deciso di seppellire la prova umana delle loro infrazioni assieme ai loro accusatori. Quante altre persone come la ragazza si trovavano nella caverna? si chiese Matt.

Le orecchie gli ronzavano ancora in modo sgradevole, ma il naso gli pareva avesse smesso di sanguinare. Ogni pochi secondi un altro pezzo di roccia cadeva da qualche parte nella caverna. Il soffitto non era crollato, ma di certo non era molto stabile. Matt rimase immobile ad ascoltare il tamburellamento delle pietre che cadevano, incapace di scrollarsi di dosso l’immagine del crollo ritardato delle torri gemelle del World Trade Center. Alla fine riuscì a orientarsi concentrandosi sullo sciabordio del fiume che scorreva dietro la pila di bidoni di sostanze chimiche. Il continuo rumore dell’acqua che riecheggiava nell’oscurità ebbe su di lui un effetto calmante.

«Nikki?» gridò di nuovo. «Hal?» Da qualche parte alla sua destra, udì un uomo lamentarsi: «Fred?»

Tolse dell’altra polvere e schegge di pietra dal volto e dai capelli della ragazza. Il suo viso stretto pareva integro, anche se era, senza alcun dubbio, terribilmente sfigurata. Povera bambina. Clavicole, torace, braccia, mani, addome, bacino, gambe. Per quel poco che poteva capire, non aveva subito gravi ferite.

«Nikki?» chiamò di nuovo. «C’è nessuno?»

Per alcuni secondi udì soltanto il rumore del fiume, poi: «Matt?… Matt, sono io».

Stavolta, quella risposta non l’aveva di certo immaginata. La voce di Nikki, fioca ma calma, veniva dalla sua sinistra, a una certa distanza.

«Nikki, sono Matt, sei ferita?»

«Io… ti sento, ma non riesco a capire le tue parole. Le mie orecchie…»

«Lo so», la interruppe Matt, parlando più lentamente, più forte e scandendo le parole, «anche le mie. Ti ho chiesto se sei ferita.»

«Non credo in modo grave. Le orecchie sono in crisi. Non smettono di fischiare. Sono stata anche colpita al capo, non credo di essere svenuta, ma mi gira la testa.»

Una seconda commozione cerebrale, pensò Matt. Quel termine veniva usato con indifferenza, soprattutto al pronto soccorso, dove le ferite alla testa non erano considerate gravi, a meno che fossero seguite da perdita di coscienza, che i raggi X avessero mostrato una frattura del cranio o che un esame tomografico computerizzato avesse rilevato una emorragia o una contusione cerebrale. Lui però aveva visto troppe vite rovinate e famiglie distrutte da sindromi postcommotive, a volte dopo un trauma leggero o una caduta di poca importanza o un tamponamento. Si tirò in piedi. La schiena e le gambe pulsavano e i dorsi delle mani bruciavano, ma nel complesso il malessere era tollerabile, specialmente ora che sapeva che Nikki era sopravvissuta.

«Nikki, puoi alzarti?»

«Credo di sì.»

«Camminare?»

«Ci provo… Sì, sì, ci riesco.»

«Aspetta!» gridò Matt. «Non muoverti! Hai idea di dove sia la tua torcia elettrica?»

«Scusa?»

«La tua torcia elettrica.»

«Io… io l’avevo in mano quando c’è stata l’esplosione. Ci sono così tante macerie. Non ho idea di dove possa essere finita. La cercherò e…»

Le sue parole si dissolsero in un accesso di tosse.

«Tirati la camicia sulla bocca per respirare. Funziona. Nikki, rimani dove sei e continua a parlare. Mi dirigerò verso la tua voce. Cercheremo la torcia insieme.»

Matt immaginò che fosse a una decina di metri da lui. Muovendosi a fatica tra le pietre, le braccia tese in avanti come il mostro di Frankenstein, avanzò nell’oscurità, guidato dalla voce di Nikki che declamava una canzone country che lui conosceva bene.

«Fili d’argento e aghi d’oro nonpossono rammendare questo mio cuore…»

Matt si mise due volte carponi per superare dei cumuli di sassi.

«…e io non oso annegare il mio dolore nella calda luce del tuo… ehi, l’ho trovata! Credo funzioni.»

Un attimo dopo un raggio di luce filtrò attraverso la polvere sospesa, fece una panoramica, quindi si fermò su di lui. Un istante dopo erano abbracciati.

«Oh, bambina», esclamò Matt stringendola a sé. «Avevo una tale paura che tu fossi ferita o… o peggio. Non posso credere che ci abbiano fatto una cosa simile.»

Le prese la torcia per esaminarla. Il sangue sgorgava da un taglio poco distante dalla ferita di proiettile in via di guarigione. Si tolse un calzino e lo usò per fare pressione.

«Tu stai bene?» domandò Nikki. «Hai un sacco di sangue sul viso.»

«Mi sanguinava il naso, ma non credo sia stato colpito da qualcosa. Probabilmente è stato l’urto dell’esplosione. Nessun osso rotto, per quello che posso dire. Per quanto suoni strano, siamo fortunati. Credo che si aspettassero che crollasse il soffitto. Da come continuano a cadere le pietre, potrebbe ancora accadere.»

Nikki fece girare la torcia nel vuoto. A causa delle polvere, la visibilità era limitata.

«E gli altri?» domandò.

«Non lo so. Ma c’è una ragazza, laggiù, almeno credo sia una ragazza e non una donna.»

«Cosa?»

«È svenuta. Le sono finito addosso mentre strisciavo in giro. Indovina di che cosa ha coperti viso e cuoio capelluto?»

«Neurofibromi. Matt, è terribile. Hai capito se è ferita gravemente?»

«Non credo, ma è svenuta. E credo di avere sentito anche un uomo lamentarsi.»

«Hal?»

«Non saprei. Sono tremendamente preoccupato per lui. Non era proprio dietro te?»

«Da ciò che ricordo, sì.»

«Allora dovrebbe trovarsi da qualche parte laggiù, non da dove proveniva quel lamento. Hal? Hal, riesci a sentirmi?»

Nikki fece scorrere la torcia lungo la parete. Se Hal Sawyer era dietro di lei, avrebbe dovuto trovarsi proprio sotto l’entrata della caverna, ora un impenetrabile cumulo di enormi massi e macerie che arrivava fino al soffitto.

«Non vedo come avrebbe potuto evitare di finire sepolto là sotto», osservò Matt. «Hal? Hal, sono Matt.»

Silenzio.

«Proviamo a cercarlo, Matt.»

Raggiunsero quell’ammasso e tolsero un paio di pietre, poi si guardarono e scrollarono, impotenti, le spalle. Se era sepolto lì sotto, non avrebbero risolto nulla scavando, tranne che esaurire se stessi.

«Era una persona buona», disse infine Matt. «Strambo ed eccentrico, ma un uomo veramente buono. Era tanto gentile con mia madre, e… e mi voleva un sacco di bene.»

«Lo so.»

«Non riesco proprio a crederci. Hal? Dannazione, Hal, rispondimi! Sono Matt!»

Lei gli mise le braccia al collo e lo strinse a sé.

«Stevenson e quegli altri bastardi la pagheranno», borbottò Matt.

Nikki non aveva voglia di sottolineare l’evidenza, cioè che in quel momento le loro probabilità di sopravvivere per farla pagare a qualcuno erano molto remote.

«Senti», propose invece, «andiamo da quella ragazza.»

La polvere sembrava essersi adagiata un poco, rendendo il raggio di luce più efficace. La ragazza era là, a sei, sette metri di distanza, supina, ancora priva di sensi. Aveva undici o dodici anni, lunghi capelli color grano. Il suo viso stretto e deforme, una volta, forse, carino, era sporco e pieno di lividi. Matt la stava visitando più a fondo di quanto avesse fatto prima, quando udì un gemito provenire dalla sua destra. Videro un uomo, supino, semicosciente, sepolto dalla vita in giù. La testa dondolava lateralmente e di tanto in tanto agitava inutilmente le braccia verso le pietre frastagliate che lo immobilizzavano.

«Oh, mio Dio, guarda!» esclamò Nikki.

A tre metri da quell’uomo, da un pila enorme di pietre, sporgeva la parte inferiore di un corpo, stivali da lavoro e tuta. Non molto distante, a faccia in su, solo parzialmente sepolto nei detriti, un altro uomo, privo di coscienza ma vivo. Nikki corse da lui, lasciando momentaneamente Matt al buio.

«Oh, no, Matt! Svelto!» gridò, posando a terra la torcia per liberare da sassi e polvere i due uomini. «È un altro di quelli.»

Matt corse da lei, prese la torcia e s’inginocchiò. Il viso impolverato dell’uomo era sfigurato da neurofibromi. Sulla ventina, aveva una profonda ferita e un livido sulla gola dove, con ogni probabilità, era stato colpito da una pietra. Respirava a fatica e si sentiva uno stridore: quel rumore da pertosse prodotto quando l’aria viene inspirata oltre una grossa ostruzione. «Allora?» chiese Nikki.

«Maledizione, non so che dire, tranne che è un miracolo che qualcuno di noi sia ancora vivo. Questa caverna doveva diventare una fossa comune per tutti. Per ora almeno ci sono un morto e tre persone, mio zio, Vinny e Carabetta, disperse. Per quanto ne sappiamo, tre persone sono prive di sensi. Quell’uomo che si sta agitando laggiù pare gravemente ferito e questo respira male.» Matt infilò la mano nel taschino al fianco dell’uomo e tirò fuori un sottile portafogli che conteneva una patente. «Colin Morrissey», lesse. «Ventidue anni. Di Wells.» «Dov’è?»

«A una cinquantina di chilometri a sud di qui.» «In breve, ne abbiamo due con neurofibromi. Pensi ve ne siano altri?»

«Non mi sorprenderebbe, anche se ancora non riesco a capire il senso di tutto ciò. Una cosa, però, la so. Abbiamo una limitata quantità d’aria colma di esalazioni tossiche e una misera fonte di luce con batterie che dureranno un’ora o un minuto.»

«Brutta situazione», commentò Nikki. «Dobbiamo trovare dell’altra luce. Se la tua torcia si spegne prima che noi si sia riusciti a escogitare qualcosa, siamo finiti. Dobbiamo trovare la mia.»

«Non pensi che sarebbe meglio cercare di aiutare prima quel povero ragazzo?»

«Hai ragione.»

«Vediamo se riusciamo a liberarlo. È più sveglio degli altri. Dopo decideremo se aiutare gli altri o cercare la tua torcia.»

«D’accordo. Una volta che ci siamo orientati, spegni la tua e spostiamo le pietre al buio.»

L’uomo, robusto e tendente alla calvizie, si mise a gridare appena Nikki e Matt l’ebbero liberato dalle pietre. Entrambi capirono quanto era grave la sua situazione. Bacino, addome, inguine, gambe, spina dorsale, muscoli, oltre alle fratture e alle ferite interne, c’era la possibilità di una morte improvvisa, di solito provocata dal rilascio di coaguli formatisi nelle gambe ferite.

Dopo avere rimosso sufficienti detriti da liberarlo, l’uomo iniziò a parlare. Il suo balbettio carico di invettive era confuso, ma decisamente arrabbiato.

«Fottuti doppio giochisti… muori, muori… Tracy… ti amo, Tracy… non riesco a muovermi… bastardi… fottuti traditori…»

«Ehi, calmati, amico», lo esortò Matt. «Calmati. Siamo medici, siamo qui per aiutarti. Nikki, puntami la luce sulla faccia, forse servirà.»

Passò un altro minuto, durante il quale prima Matt poi Nikki cercarono di comunicare con quell’uomo incoerente. Alla fine ci riuscì Nikki. Gli tenne la mano sotto la testa e chiese a Matt di illuminare sia il suo viso sia quello della vittima.

«Sono la dottoressa Solari», disse dolcemente. «Mi capisce?»

«Dottoressa», mormorò l’uomo.

«Sì. Come si chiama?»

«Mi chiamo… Sid», rispose lentamente, scuotendo la testa come per rischiararla.

«Sid, che è successo? Come è finito qui?»

«Mi hanno ingannato… quei bastardi…»

Nikki gli sollevò leggermente la testa e gli tolse ancora un po’ di polvere dal viso. Lui reagì al suo tocco. Smise di muovere la testa e la fissò.

«Sid, che lavoro fa? Chi l’ha ingannata?»

«Lei è… veramente un medico?»

«Sì.»

«Le mie gambe… credo di non sentirle più.»

Matt esaminò entrambe le gambe dell’uomo, quindi fissò Nikki e scrollò la testa cupamente.

«La visiteremo e faremo tutto ciò che possiamo», lo rassicurò Nikki.

«Co… cosa è successo?»

«C’è stata un’esplosione, siamo in una caverna dove depositavano sostanze chimiche. Le entrate sono bloccate. Chiunque abbia fatto questo voleva ucciderci, ma il soffitto non è crollato. E così siamo qui. Abbiamo solo questa torcia elettrica, che possiamo accendere di tanto in tanto. Mi capisce?»

«Ci sono… un sacco di torce… Grandi.»

«Cosa?» esclamarono all’unisono Nikki e Matt.

«L’armadio dall’altra parte del… fiume. Guanti, torce elettriche, maschere antigas, cassette del pronto soccorso, attrezzi.»

Sid cominciò a tossire in modo spasmodico. Nikki lo sollevò e lo appoggiò contro il suo ginocchio, badando a non muovere la zona attorno alla vertebre del basso torace, dove pareva che la spina dorsale fosse schiacciata o recisa.

«Chi è lei?» domandò Nikki.

«Io qui… faccio il guardiano. Tommy… Dov’è Tommy?»

Nikki lanciò un’occhiata verso la parte inferiore del corpo che sporgeva da sotto una tonnellata di pietre. Sid seguì il suo sguardo.

«Oh, merda! Oh, no! Bastardi bugiardi. Figli di buona donna. Aveva un figlio piccolino.»

«L’hanno ingannata quelli della miniera?» chiese ansioso Matt.

«No», rispose Sid. «È stato Grimes… quel fottuto Grimes, e altri tipi.»

«Per che cosa l’hanno pagata?»

«Per guardare dall’altra… parte, mentre lavoravano qui dentro. Credevo che stessero semplicemente… seppellendo tutto a causa di quei due che erano stati qui la settimana scorsa… Nessuno ha detto niente a proposito della presenza di qualcuno qui, mentre esplodeva… specialmente non la nostra presenza… Ci hanno iniettato qualcosa per farci svenire e ci hanno lasciati qui a… Dottore, le mie gambe. Deve aiutarmi.»

Lì vicino, la ragazza e Colin Morrissey cominciarono a lamentarsi ad alta voce.

«Qualsiasi cosa abbiano usato, sta svanendo», disse Nikki. «Matt, dobbiamo controllare quell’armadio.»

«Non lasciatemi», gridò Sid. «Non riesco a muovere le gambe.»

«Torneremo.»

Nikki lo adagiò a terra e prese Matt sottobraccio mentre aggiravano il cumulo di bidoni, molti dei quali avevano versato il loro contenuto oleoso sul pavimento in pietra. Tanti, comunque, soprattutto quelli alla base della piramide, erano intatti.

«Secondo te, come mai Grimes li ha messi al tappeto con un’iniezione invece che con una pallottola in testa?» chiese Nikki.

«Penso che volesse proteggersi nel caso qualcuno avesse scavato qui dentro e ci avesse trovati. Non ci sarebbe stata alcuna prova che eravamo stati tutti uccisi. Un gruppo che visitava la miniera, forse, o degli ambientalisti tanto sfortunati da trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Diavolo, le miniere e le esplosioni sono come la festa del Ringraziamento e il tacchino, specialmente questa miniera.»

Il fiume, largo tre metri, scorreva a circa trenta centimetri sotto il pavimento della caverna, dalla loro sinistra verso destra con una discreta corrente. L’attraversavano due piatti ponti con rustici parapetti in legno, ma uno era stato distrutto da parecchi massi di pietra. Il fiume superava l’ostruzione a fatica e l’acqua dietro la diga aveva iniziato a lambire il pavimento della caverna. Il secondo ponte sembrava transitabile.

«Se questo posto comincia a riempirsi d’acqua», osservò Matt, «cosa pensi succederà prima? Soffocheremo o annegheremo?»

«Troveremo una via d’uscita, dottor Rutledge», rispose lei con tono fermo. «Ogni altro ragionamento negativo da parte sua verrà affrontato con la massima severità.»

«Allora ti ripropongo la domanda in altro modo: pensi sia meglio concentrare le nostre energie e usare l’ossigeno per uscire di qui o per stabilizzare le condizioni dei feriti?»

«Saresti capace di ignorarli?»

«Probabilmente no.»

«Perché hai posto questa domanda, allora?»

«Speravo che tu mi avresti convinto a farlo.»

L’armadio, in plastica dura e grigia, era dove aveva detto Sid. Fissato alla parete rocciosa, era alto più di due metri e altrettanto largo e profondo una cinquantina di centimetri. Conteneva quattro potenti lanterne a batterie, tre maschere antigas, mascherine chirurgiche, ogni genere di attrezzi, corde, nastro da idraulico, una tuta contro l’esposizione a sostanze chimiche e una grande e ben fornita cassetta di pronto soccorso.

«Si comincia», disse Matt, infilandosi sul viso una mascherina e porgendone un’altra a Nikki. «Sei pronta a giocare al dottore?»

«Pronta.»

Provarono le lanterne, tutte funzionanti, e le portarono via assieme alla cassetta del pronto soccorso. Ora poterono capire meglio lo stato della grotta. Le due entrate, a circa trenta metri di distanza una dall’altra, erano completamente bloccate da un enorme ammasso di detriti. La maggior parte dei bidoni pieni di rifiuti tossici, sebbene non più impilati a piramide, era ancora nel centro della caverna. Il soffitto, otto metri sopra di loro, reggeva e lasciava loro una bella quantità d’aria, anche se pesantemente contaminata dalle esalazioni.

«Chissà cosa sta facendo ai nostri polmoni questa roba», disse Matt.

«Forse, in questo momento, non è di questo che dobbiamo preoccuparci maggiormente. Da dove vuoi iniziare?»

«Il trauma alla gola di Colin Morrissey mi sembra un potenziale problema, ma prima assicuriamoci che non ci siano altre persone in giro, e continuiamo a cercare Hal, Vinny e Fred. Poi spostiamo tutti in una sola zona, vediamo chi è il più grave e facciamo tutto ciò che possiamo fare.»

La polvere e i detriti si stavano posando, ma ogni loro passo sollevava pennacchi di polvere. Le grida di dolore erano aumentate e con esse il senso di urgenza. Matt e Nikki posero l’attrezzatura vicino alla ragazza, che stava facendo alcuni movimenti incerti. Poi, ognuno con una lanterna in mano, percorsero la caverna alla ricerca di corpi.

«Laggiù!» esclamò Matt dopo solo pochi metri.

Fred Carabetta era disteso bocconi semicosciente, la faccia girata da una parte, bloccato sotto un cumulo di pietre da metà schiena fino ai piedi. Dall’orecchio sinistro colava sangue e ciò che riuscirono a vedere del suo volto assomigliava a quello di un pugile professionista ridotto a mal partito.

«Aiuta… temi… Aiuta… temi», ripeteva gemendo.

«Fred, sono Matt. Mi può sentire?»

«La… sento. Mi… aiuti.»

«Che facciamo, cerchiamo di tirarlo fuori ora o ispezioniamo in giro alla ricerca di altri?» domandò Nikki.

«Abbiamo bisogno di più mani.»

«Matt, non possiamo fare l’impossibile.»

«Cerchiamo allora di liberarlo. Fred, ora le togliamo tutte queste pietre di dosso.»

La pila di sassi che immobilizzava Carabetta era molto più piccola e più facile da spostare di quella che aveva paralizzato la guardia, eppure, dopo avere rimosso una quantità sufficiente di pietre per poterlo liberare, stavano sudando e respiravano a fatica.

Carabetta urlò di dolore quando lo rovesciarono sul fianco. Nikki e Matt sussultarono davanti a ciò che videro. I pantaloni della tuta nera di Carabetta e la camicia erano inzuppati di sangue, la maggior parte del quale usciva da una ferita a destra dell’inguine.

«Con tutte queste pietre, qui non c’è neppure spazio per inginocchiarsi», borbottò Matt. «Proviamo a trasportarlo vicino agli altri e a curarlo là.»

«Farò quel che posso.»

«Fred, ora la sposteremo laggiù, dove avremo più spazio per assisterla.»

Muoverlo non fu un’impresa semplice. Alla fine ci riuscirono trascinandolo poco alla volta per i polsi, oltre la ragazza che stava muovendo le estremità, nella zona dove giacevano la guardia di sicurezza e l’uomo con la sindrome di Belinda. Esausti per lo sforzo e per dover respirare attraverso la mascherina chirurgica, rimasero fermi per almeno un minuto, le mani sulle ginocchia, respirando a bocca aperta.

«Basta gelati per Fred», disse ansimando Matt.

In quell’istante, con un urlo spettrale, una figura si lanciò dall’oscurità, dall’alto di un ammasso di detriti, su Nikki, facendola cadere all’indietro, distruggendo una delle lanterne.

Nikki gridò dal dolore mentre l’aggressore, una donna robusta, le saltava addosso, le mani alla gola. Grazie alla luce restante, Matt riuscì a distinguere il fitto grappolo di neurofibromi che coprivano la faccia della donna. Si tuffò su di lei, la colpì alla spalla con la sua spalla e la placcò sul pavimento. Grugnendo e sputando, la donna cercò di colpirgli il viso e le braccia, riuscendo ad assestare alcuni pugni efficaci. Matt la colpì al volto, prima con la mano aperta, poi con il pugno. Era la prima volta che colpiva qualcuno in quel modo in vita sua. Sbalordita, la donna crollò all’indietro. Matt le pose un ginocchio sulla gola, le strappò la camicia in cotone e usò una delle maniche per legarle le mani, l’altra per le caviglie. Pre’s’e poi del nastro adesivo dalla cassetta del pronto soccorso e la immobilizzò ancor più efficacemente.

«Tutto bene?» chiese, girandosi verso Nikki.

«La caviglia sinistra», gemette lei. «Ha ceduto quando mi ha colpita.»

«Ti fa male da qualche altra parte?»

«Non troppo.»

Matt s’inginocchiò ed esaminò la lesione. La parte esterna della caviglia iniziava già a gonfiarsi e il malleolo laterale, la sporgenza ossea, presentava una abnorme sensibilità al dolore. Forse l’estremità della fibula non era rotta, ma i legamenti erano di certo strappati. In ogni caso, non poteva più muoversi. Nikki gemette debolmente mentre Matt le bendava la caviglia. Prese poi un sacchetto di ghiaccio chimico monouso e lo fissò alla giuntura con una benda elastica che coprì poi con un’altra.

Con grande sforzo, Nikki si girò sulle mani e le ginocchia.

«Diamoci da fare su Fred», disse. «Non so quanto a lungo resterà vivo.»

«Puoi farlo?»

«Posso provarci», rispose Nikki, trasalendo.

«Vado a prendere quel nastro da idraulico e mi dedico agli altri due mentre tu visiti Fred. Non vorrei si ripetesse una scena alla Tarzana, quando riprenderanno conoscenza. Mio Dio, in che pasticcio ci troviamo.»

Muovendosi, lentamente e dolorosamente carponi, Nikki depose due lanterne sul mucchio di pietre, prese due paia di guanti in gomma da una scatola e si mise al lavoro. Usando una forbice da benda e le mani, tagliò e strappò gli indumenti di Carabetta. Se ancora non era sotto choc, mancava poco, pallido, sporco, coperto di sangue e di sudore, con un battito tremendamente rapido e debole. Nel grasso corpo e nelle grosse gambe aveva tre o quattro lacerazioni che continuavano a sanguinare, ma il vero problema era la profonda lacerazione di circa otto centimetri all’inguine, da dove sgorgava sangue scuro.

Ansante, Matt tornò da lei.

«Arteria?» domandò.

«Vena, credo. Tu sei più forte. Che ne dici di fare un po’ di compressione?»

Matt pose un tampone di garza sulla ferita e vi si appoggiò contro con tutte le sue forze, ma lo spesso strato di grasso color zafferano di Carabetta impediva che potesse applicare una forza sufficiente. Il sangue continuò a filtrare da sotto la garza.

Nel frattempo, il respiro stridente di Colin Morrissey stava peggiorando.

«Abbiamo bisogno di più mani», ripeté Matt mentre Nikki strisciava verso l’uomo per esaminarlo.

«Abbiamo quello che abbiamo», ribatté senza girarsi. «Matt, anche questo è nei guai. Non credo che resisterà a lungo senza una tracheotomia.»

«E io non riesco a fare sufficiente pressione per fermare l’emorragia di Fred. Secondo me, si è lacerata la vena safena.»

«Che possiamo fare?»

«Infilare una stretta garza sotto la safena e legarla.»

«Hai mai fatto una cosa simile?»

«Se conti il cadavere del gatto durante la lezione di anatomia comparativa, sì. E tu?»

«Mettendo insieme l’anno di chirurgia e il mio lavoro di squartatrice di cadaveri, l’anatomia la conosco molto bene.»

«Questo sistema le cose. Io ti faccio da assistente e tu tenti l’intervento.»

«E Colin?»

«Per ora sta respirando. Se non blocchiamo questa emorragia, Fred è spacciato.»

«D’accordo, d’accordo.»

Mentre Matt teneva premuta la ferita, Nikki aprì la cassetta del pronto soccorso e ne estrasse un rotolo di garza larga due centimetri e mezzo e un paio di pinze, il tipo dalla punta aguzza usato per togliere schegge.

«Nessun gancio?» domandò Matt, riferendosi alle cinghie emostatiche con chiusura automatica.

«Non ne vedo.»

«Uno scalpello?»

«No.»

«Novocaina? Xylocaina?»

«Sogna pure. Aspetta, c’è uno scalpello usa e getta.»

«Ah, qualcosa di cui essere grati. Fred, può sentirmi?»

«Mi… aiuti.»

Matt abbandonò l’idea di dargli qualche spiegazione medica. Si chinò sull’orecchio dell’uomo.

«Fred, questo le farà molto male», disse. «Nik, come va la caviglia?»

«Insensibile. Se non faccio movimenti rapidi, sopportabile. Non credo, tuttavia, di potermici appoggiare sopra.»

«Io posso continuare a comprimere e a tenere la lanterna, tu però dovrai fare anche da infermiera di sala.»

«Ho paura», esclamò lei improvvisamente.

«Lo so», rispose Matt. «Non mi fiderei di te se tu non avessi paura. Fai del tuo meglio e fallo alla svelta.»

«Credo di dover aprire di più la zona.»

«Fallo.»

Nikki scrollò le spalle e fece una profonda incisione lunga dieci centimetri ad angolo retto col centro della lacerazione. Il sangue sgorgò dai bordi della pelle e dal grasso di un giallo vivace sottostante.

«Oh, mio Dio!» gridò Carabetta. «Oh, cazzo!»

All’urlo dell’uomo, Nikki si tirò indietro, ma Matt scosse la testa.

«Puoi farlo», disse con decisione.

«D’accordo», rispose lei, «comprimi sotto l’incisione, mettici un sacco di forza. Guarda, è la vena safena, quasi completamente recisa. È un miracolo che sia ancora vivo.»

«Sei tu il miracolo. Legala, in alto e in basso, poi passiamo a quello che non riesce a respirare.»

Dietro di loro sentirono peggiorare ancora di più la respirazione faticosa di Colin.

«Se quell’uomo e la ragazza sono pazzi come la Tarzana, avremo un bel daffare quando riprenderanno conoscenza», osservò Nikki.

«Quest’uomo, poi quell’uomo, poi la ragazza», sottolineò Matt.

«Giusto.»

Nikki usò le dita e la punta spuntata della pinza per allargare il tessuto attorno e sotto il vaso lacerato. Spinse poi le estremità di due garze lunghe trenta centimetri nel canale che aveva creato. A ogni mossa, Fred gridò, ma la sua reazione al dolore si faceva sempre più debole. Un’alta percentuale della sua massa sanguigna era nei vestiti e sul pavimento impolverato. A meno che l’emorragia non venisse bloccata, entro uno o due minuti, forse qualcuno di più, o forse di meno, avrebbe perso per sempre coscienza.

«Ti stai comportando benissimo», la incoraggiò Matt. «Annoda i legacci in basso, e io sposterò la compressione per fermare il riflusso. Per qualcuno che non ha toccato da anni un paziente vivo, sei decisamente brava.»

«Forza, bambina», mormorò Nikki alla vena, mentre sistemava il secondo legaccio in garza, «non lacerarti proprio ora.»

«Ce l’hai fatta! Ce l’hai fatta!»

«Lo spero proprio, perché sto per dare il tocco finale.»

Nikki strinse bene il nodo e, un attimo dopo, Matt allentò la compressione che aveva mantenuto durante tutto l’intervento. Dall’incisione e dalla ferita colò ancora un po’ di sangue, ma l’area attorno alla vena lacerata era asciutta. La safena era la vena che veniva di solito utilizzata nei bypass aorto-coronarici. Le vene collaterali sarebbero subentrate per riportare il sangue al cuore. Se Carabetta fosse riuscito a superare questo episodio e a uscire dalla caverna, entrambi due grandi se, tutto quello che gli sarebbe rimasto sarebbe stato, di tanto in tanto, un gonfiore alle caviglie.

«Ben fatto», la lodò Matt. «Riuscire a girare attorno a quella vena senza strapparla in due è stato veramente fantastico.»

In quell’attimo, la respirazione di Colin Morrissey parve farsi ancora più difficile.

«Forse dovremo fargli una tracheotomia», disse Nikki. «Puoi andare a controllarlo di nuovo?»

«Lo farei, ma devo continuare a comprimere la ferita di Fred.»

«Lo farò io», disse una voce accanto a loro. Una donna anziana, malconcia come tutti loro, era strisciata lì da qualche parte della caverna che non avevano ancora ispezionato. «Voi andate a controllare il ragazzo», disse. «Io farò del mio meglio qui. Mi chiamo Ellen Kroft.»

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