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Gran parte di ciò che scrivo sulla malattia virale, la febbre di Lassa, e sulla mia miracolosa guarigione l’ho racimolato qua e là dalle conversazioni avute con coloro che mi hanno curata durante i trenta giorni di ricovero in ospedale. Utilizzo i loro resoconti perché, per la maggior parte del tempo, io ero in delirio e non ricordo quasi nulla.


Quelle parole erano della dottoressa Suzanne O’Connor, medico missionario. Stava lavorando a Jos, una città della Nigeria centrale, nella primavera del 1973, quando una paziente, Lila Gombazu, resa pazza dalla febbre, l’aveva graffiata e le aveva escoriato il dorso della mano, che pure era coperta da guanti di gomma.

Appartata in un angolo della biblioteca di medicina dell’Istituto Nazionale della Sanità, Ellen Kroft leggeva lo straziante racconto della O’Connor con la bocca amara e uno spiacevole nodo al petto.


La povera donna che mi aveva graffiato cadde in convulsioni il giorno seguente. Malgrado tutti gli eccezionali provvedimenti presi, iniziò a perdere sangue dal naso, dal grembo e dal retto, e morì in modo orribile, chiamando fino alla fine i suoi figli, due dei quali, anche se lei non poteva saperlo, stavano già mostrando i sintomi di quella stessa malattia. Dodici giorni dopo quell’incontro con Lila, la mia buona salute e il carico di lavoro clinico avevano relegato quell’incidente in fondo alla mia mente. Quel giorno, un lunedì, dissi a una delle infermiere che avevo il naso intasato e la gola raschiante e che pensavo mi stesse arrivando l’influenza. Il martedì fu una giornata come le altre, ma il disturbo in gola era peggiorato. Non potevo, tuttavia, assentarmi dal lavoro. L’ospedale era pieno zeppo. Presi una grossa dose di penicillina e cercai di fare scendere liquidi oltre l’infiammazione e le bianche e vive piaghe che ora mi punteggiavano il palato e la faringe.

Mercoledì stavo facendo il giro dei pazienti quando venni colta da un tremore incontrollabile e da una intensa debolezza. Il sudore m’inzuppò i vestiti come se fossi sotto un temporale. In quel momento la temperatura, presa da una delle infermiere, era a 40. Un’ora dopo ero una paziente nel mio stesso ospedale, mi lamentavo per il dolore ai muscoli e alle articolazioni, non riuscivo a ingollare liquidi a causa delle profonde e aperte piaghe in gola e sporcavo me stessa e il letto a causa di una incontrollabile diarrea. Il mattino seguente ero delirante. La febbre era salita a 41,5 malgrado tutti gli sforzi per tenerla bassa. Giacqui priva di sensi per giorni, così mi dissero, incapace di assumere cibo o liquidi, perdendo sangue rosso dal retto ed espellendo sangue anche tossendo.

Fin dall’inizio, si temette che la diagnosi fosse febbre di Lassa. La mia socia, la dottoressa Janet Pickford, fece di tutto per fare arrivare in Nigeria alcuni esperti del CDC, il Centro di controllo delle malattie, con il siero ricavato da una donna che era guarita dalla malattia e che aveva gli anticorpi circolanti. Sfortunatamente, il governo nigeriano, furioso perché quella malattia aveva ricevuto il nome del villaggio di Lassa, situato lungo il confine con il Camerun, ritardò il rilascio di visti a chiunque fosse collegato al mio caso. Finalmente, quei documenti statali vennero concessi e, al decimo giorno di malattia, mi fecero un’infusione per via venosa del siero della donna convalescente. Nel frattempo avevo ricevuto più di una dozzina di trasfusioni di sangue ed ero stata in deliquio o in coma per quasi tatto il tempo. Avevo perso, io che ero già di costituzione esile, quasi quindici chili, ed ero un ammasso di piaghe e lividi. L’urina e le feci erano piene di sangue, come il muco dal petto.

Incredibilmente, due giorni dopo avere ricevuto il siero, cominciai a migliorare. Un miracolo, dissero tutti. Pian piano, le orrende piaghe in bocca cominciarono a guarire e potei nutrirmi. Nelle due settimane successive recuperai gran parte delle forze e della voglia di vivere. Ciò che non recuperai più completamente fu l’udito, cancellato dal virus in ambedue le orecchie e che è tornato leggermente solo nell’orecchio destro. Non augurerei la febbre di Lassa a nessuno e prego che, con il tempo, venga scoperta una cura o un vaccino per questo tremendo virus emorragico.


Ellen chiuse il libro, intitolato Più vicine di quanto pensiate. Malattie infettive in un mondo sempre più piccolo, e crollò sulla sedia, gli occhi fissi su nulla in particolare. Sessantuno. Questo era il numero di casi denunciati negli Stati Uniti negli ultimi due anni. Sessantuno e oltre. Non che a Ellen importasse che i casi fossero qui o in Africa, ma, per il momento almeno, l’Omnivax sarebbe stato somministrato qui. E l’elemento Lasaject del vaccino, come era giunta a credere, era l’anello debole nella catena. Ora, il giorno dopo un incontro molto pacato ma altamente intenso nell’ufficio del dottor Richard Steinman, non ne era più tanto sicura.

La sorprendente promessa di Lynette Marquand di ritardare l’uscita dell’Omnivax, fino a che quei problemi non fossero stati risolti in modo soddisfacente, se uno solo dei ventitré esperti del comitato di valutazione del vaccino avesse espresso dei dubbi, aveva colpito la sua vita come un proiettile dirompente. Dopo la dichiarazione, Ellen aveva fatto del suo meglio per continuare il lavoro come al solito, senza riuscirci. Nemmeno ventiquattro ore dopo il discorso di Lynette, Steinman aveva chiesto di incontrarla nel suo ufficio a Georgetown. Quando era arrivata, l’illustre medico e scienziato la stava aspettando con George Poulos. In un angolo della scrivania di Steinman vi era una copia del Washington Post di quel giorno. Un titolo sulla prima pagina proclamava:


LA FIRST LADY PROMETTE DI RICONSIDERARE L’OMNTVAX, SE LA VOTAZIONE DELLA COMMISSIONE NON SARÀ UNANIME


L’articolo, che Ellen aveva letto, non la menzionava per nome, ma diceva che la discussione tra i membri della selezionata commissione sull’Omnivax sarebbe continuata fino alla votazione, che si sarebbe tenuta dopo soli tre giorni. Steinman, dotato di una certa dose di charme e di cordialità, era, tuttavia, estremamente formale, e, anche dopo quasi tre anni, si rivolgeva ai membri della commissione chiamandoli con il titolo.

«Signora Kroft», aveva esordito Steinman, «le sono grato di essere venuta qui. Spero non le dispiaccia che mi sia preso la libertà di invitare anche il dottor Poulos.»

«Nessun problema», aveva ribattuto Ellen, cui ancora bruciava un po’ lo scambio di battute con lui durante la riunione decisiva della commissione.

«Dopo il discorso della signora Marquand, io… ho pensato che fosse importante riesaminare la nostra conversazione con il dottor Steinman», aveva detto Poulos. «Ho ritenuto che, considerando la promessa alla nazione della first lady, lui dovesse sapere che la votazione non sarà unanime.»

«Suppongo che, nella sua posizione, avrei fatto la stessa cosa», aveva ammesso lei, piuttosto freddamente.

«Signora Kroft», s’era intromesso Steinman, «confesso di essere stato colto di sorpresa nell’apprendere che, almeno prima del discorso della signora Marquand, lei aveva intenzione di votare contro l’applicazione dell’Omnivax. In questi anni di riunioni, ho avuto l’impressione che lei onorasse il suo mandato di rappresentante dei consumatori in modo ammirevole, facendo domande su ogni problema fino a che non lo capiva e arrivando sempre preparata alle nostre sedute. Mi ero chiesto di tanto in tanto se avrebbe votato contro il benestare, pur avendo lei solo un voto su ventitré. Ma ora che il suo voto potrebbe realmente bloccare l’intero programma Omnivax, ho pensato che, se è d’accordo, avremmo potuto riesaminare insieme quello che è in gioco.»

Tra tutti i membri della commissione, Steinman era quello che Ellen rispettava di più. Aveva diretto ogni seduta con imparzialità ed era sempre stato paziente e incoraggiante quando lei aveva iniziato una delle sue domande con le solite parole: «Scusate, ma non essendo un medico, mi stavo chiedendo se…»

«Sono disponibile e aperta a qualsiasi punto di vista», aveva replicato. «Malgrado ciò che le avrà forse detto il dottor Poulos.»

Poulos aveva tentato inutilmente di inserire un po’ di calore nel suo sorriso.

«Ammetto, a torto o a ragione, di ricordare che lei ha detto qualcosa a proposito della sua intenzione di non votare a favore del beneplacito.»

L’uomo aveva ragione, ma, dato che aveva in mano la maggior parte delle carte alte, Ellen non sentì la necessità di rispondere.

Steinman le aveva allungato due pagine elaborate dal computer.

«So quello che pensa delle statistiche, signora Kroft. Malleabili come polli, credo abbia detto. Deve comunque riconoscere che spesso, in campo scientifico le statistiche sono tutto ciò che abbiamo.»

«Capisco.»

«Questo è un distillato del materiale di cui abbiamo discusso per filo e per segno durante le riunioni. È, in breve, la nostra valutazione sulle vite che saranno salvate dall’Omnivax entro uno, cinque e dieci anni, analizzate malattia per malattia. La prego di credermi quando dico che questo riassunto è stato messo insieme da studiosi di statistica il più imparziali possibile.»

Ellen aveva dato una scorsa alla lista che era, come aveva detto Steinman, un riassunto di ciò che era in gioco. Vi era incluso il morbillo e ogni altro vaccino facente legalmente parte della immunizzazione di ogni bambino. Senza o con quei vaccini, il numero delle vite da salvare era sbalorditivo. I casi annuali di febbre di Lassa erano 240, il che concordava con le statistiche che conosceva lei. Entro cinque anni, tuttavia, vi sarebbero stati più di ottomila casi mortali e, in dieci anni, quasi cinquantamila. Ellen guardò fuori della finestra, pensando a Lucy e alle centinaia di altre tragedie documentate nei dossier e nelle fotografie del PAVE. Quelle erano vite in carne e ossa, non statistiche. Vi erano poi gli innumerevoli casi di ADHD, disturbi dell’apprendimento, asma, diabete, sclerosi multipla, morti improvvise, sindrome di Asperger e altre forme di autismo il cui possibile legame con le vaccinazioni infantili richiedeva ancora indagini.

«Rifletterò su questo», aveva detto, infilando i dati nella sua cartella.

«Ellen, guardi quei numeri», era sbottato Poulos. «Non capisce cosa significano?»

«Sì, lo capisco, dottore. Lo capisco perfettamente. Ma lei riesce a capire cosa voglia dire vedere la vita di una bambina perfettamente sana e felice rovinata di colpo o spenta da qualcosa che le è stato fatto dal suo pediatra?»

«George, per favore», s’era intromesso Steinman, abbandonando la formalità. «Signora Kroft, questo lo comprendiamo. Mi creda, è così. Il rapporto tra rischio e vantaggio è la base su cui viene costruito tutto il trattamento medico. E nessuno di noi negherebbe l’esistenza di alcune conseguenze sfavorevoli della vaccinazione. Tutto ciò che possiamo chiederle è di fare esattamente ciò che aveva detto che avrebbe fatto, rifletterci su. Sento però di dover sottolineare tutto ciò che qui è in gioco.»

«E io questo lo apprezzo, dottor Steinman», aveva ammesso Ellen, alzandosi per fare capire di avere sentito abbastanza, specialmente da parte di George Poulos. «Non rilascerò alcuna dichiarazione su ciò che farò, ma le prometto che terrò conto di tutte le questioni. Spero che ciò sia sufficiente per il momento.»

«Dovrà esserlo», aveva concluso Steinman.

Ellen era uscita piuttosto stupita dal suo ufficio. Perché diavolo Lynette Marquand le aveva fatto questo? Andava tutto bene quando credeva che il suo voto avrebbe espresso un’opinione. Ora che la sua decisione poteva bloccare completamente il progetto, la pressione era immensa.

Se ne era andata da Georgetown e aveva passato il resto di quella giornata a Bethesda nella biblioteca del NIH. Ora, dopo due giorni di ricerche, era giunto il momento di discutere la faccenda con Cheri e Sally al PAVE prima di prendere la decisione finale su quale direzione dare al suo voto. Quale che fosse la sua decisione, il commovente resoconto della battaglia contro la febbre di Lassa di Suzanne O’Connor sarebbe stato un fattore da prendere in considerazione.

Persa nei suoi pensieri, raccolse le sue cose e si diresse verso l’auto. Dopo il discorso della first lady ci si aspettava di certo che parlasse personalmente con Cheri e Sally, ma lei aveva continuato a rimandare l’incontro. Cheri Sanderson non aveva, tuttavia, atteso troppo a lungo prima di telefonarle. Non era una sciocca e l’incertezza di Ellen, per quanto minima, risonava ancora forte e chiara.

«La faccenda si fa seria, Ellen», aveva esordito al telefono. «Mentirei se dicessi che non è importante per noi trovarci improvvisamente al centro dell’attenzione e che tu sei nella posizione di metterci lì.»

Dopo un chilometro e mezzo, Ellen usò il cellulare per chiamare Rudy.

«Peterson.»

«Rudy, sono io», si presentò, immaginandolo seduto alla scrivania al primo piano della sua casupola.

«Ehi, auguri. Diventerai famosa?»

«Vuoi dire, se voterò contro l’Omnivax?»

«Finiresti di certo all’Oprah show.»

«Suppongo di sì. Ieri ho visto il capo del comitato e ora sto andando a parlare con le mamme al PAVE.»

«E?»

«Non sono più tanto sicura, Rudy. Hai qualche informazione sul Lasaject che potrebbe aiutarmi?»

«Sto aspettando una telefonata da un amico che lavora al CDC. Tutto ciò che posso dirti al momento è che il progetto della ricerca preliminare sul vaccino è stato un po’ trasandato e assai limitato. Ma come ho già detto, ci sono altre cose che stanno andando avanti e la telefonata di Arnie Whitman dal CDC riguarda proprio quelle.»

«Quando saprai qualcosa?»

«Forse oggi sul tardi, forse domani. Nel frattempo, tutto quello che posso dirti è che il vaccino sembra a posto, se non immacolato. Quando ci sarà la votazione?»

«Dopodomani.»

«Che posso dirti, oltre a garantirti che mi farò sentire?»

«Grazie, Rudy.»

«Hai in programma di venire da queste parti?»

«Subito dopo la votazione. Mi piace lassù, e Dio solo sa quanto mi farebbe bene un po’ di riposo.»

Ellen agganciò. Rudy non sarebbe stato la risposta, almeno non in questa ripresa.

A differenza dell’ultima volta che era stata al PAVE, questa volta Ellen non riuscì a trovare un posto per l’auto e dovette fermarsi in un posteggio a pagamento, ben otto dollari per la prima mezz’ora, a tre isolati di distanza. I vaccini presentavano dei problemi che né il governo né il mondo scientifico stavano cercando di risolvere. Non aveva alcun dubbio che molte vite venivano perse o rovinate a causa di complicazioni immediate o a lungo termine delle vaccinazioni. Non aveva però nemmeno alcun dubbio che i vaccini evitavano una gran quantità di morti e sofferenze.

Questa volta, quando Ellen entrò negli uffici del PAVE, nessuno si alzò in piedi per applaudirla. Nessuna frivolezza. All’improvviso, la sua coraggiosa e donchisciottesca presa di posizione a favore di questioni in cui tutti loro credevano era diventata qualcosa di serio. Ellen ricordò il delizioso libro e film, Il ruggito del topo, in cui un minuscolo stato con un esercito di una ventina o poco più di soldati armati con archi e frecce, muove guerra contro gli Stati Uniti. Il loro piano è di perdere rapidamente per poter raccogliere le tradizionali riparazioni di guerra dai vincitori americani. Il fatto è che vincono. Che fare ora?

Nessuno, proprio nessuno aveva previsto di potersi trovare nella condizione di sconfiggere l’Omnivax, anche se solo momentaneamente. Tutto ciò che il PAVE voleva era una piattaforma su cui fare un altro passettino in avanti, per presentare al mondo le preoccupazioni sulla sicurezza del vaccino. In questo senso Ellen aveva fatto ciò che doveva fare.

Che fare ora?

«Ehi, arriva l’eroe vittorioso.»

Cheri Sanderson balzò fuori dal suo ufficio e abbracciò EUen.

«Se sono tanto vittoriosa», commentò Ellen, «come mai mi sento come se avessi un limone conficcato in gola?»

«Se non sbaglio John Kennedy si era ammalato proprio prima di telefonare a Kruscev e di dirgli di spostare i missili, altrimenti… Entra. Caffè? Tè?»

«Niente, grazie. Sally non c’è?»

Nell’ufficio ingombro di Cheri vi erano articoli incorniciati che parlavano dell’incredibile influsso del PAVE, e della sempre più grande consapevolezza generale che le vaccinazioni non erano benefiche e indiscusse come le autorità volevano che tutti credessero.

«Trascorre la giornata con suo marito. Ultimamente si è lasciata prendere un po’ da questa faccenda dell’Omnivax e credo sia stata un po’ fredda con lui.»

«Posso capire. So cosa ha passato dopo quello che è successo a suo figlio.»

«E così oggi siamo solo tu e io. Lynette ti ha messo in un bel guaio, eh?»

Ellen si fissò le mani. Questa donna, non più alta di un metro e cinquantacinque, cinquantasette, era un gigante, scelta forse da Dio perché superasse grossi svantaggi per poter fare una differenza. Negli ultimi dieci anni aveva trascorso migliaia di ore a blandire, scrivere, indagare, discutere, lisciare, condannare, implorare, consolare, piangere per poter aiutare il mondo a raddrizzare qualcosa che secondo lei era totalmente sbagliato. Aveva lottato accanto a madri cui venivano portati via figli, perché loro si rifiutavano di farli vaccinare. Si era trovata davanti a dottori espressamente nominati nel Tribunale dei diritti federali degli Stati Uniti, stringendo le mani di genitori che avevano appena ricevuto una somma irrisoria per prendersi cura del figlio menomato dal vaccino, la somma massima per legge secondo il National Childhood Vaccine Injury Act del 1986, o peggio, nessun risarcimento.

Ellen fissò una delle citazioni incorniciate. Era di una madre del Wisconsin, il cui figlio, il cui sogno, era stato tremendamente e irreparabilmente distrutto: Il governo ci costringe a vaccinare i nostri figli, diceva, e poi, quando qualcosa va storto, peccato, devi cavartela da sola.

«Senti», disse infine Ellen, incapace di velare le parole, «scusami se ti sembro tanto riservata, ma non hai idea di ciò che ho sentito in questi tre anni e di chi ha detto quelle cose. Quelle persone non sono dei mostri né dei criminali né degli assassini. Sono medici e scienziati e intellettuali. Credono veramente in ciò che stanno facendo.» Con grande sorpresa di Ellen, Cheri non la confutò automaticamente. La sua espressione, che a volte aveva la durezza del diamante, era dolce e triste.

«Lo so», disse dolcemente.

«Non metto in discussione il fatto», continuò Ellen, «che molti di loro ricevano denaro dalle ditte farmaceutiche. Ma ciò li rende necessariamente disonesti? Per ogni grafico presentato da me, loro hanno fornito risposte incredibilmente logiche e suffragate. Per ogni esperto citato da me, loro ne hanno menzionati dieci con titoli altrettanto genuini. Era diverso quando pensavo che il mio voto sarebbe stato un simbolo, una cortese richiesta che la discussione su questo tema continuasse. Non ho mai voluto essere l’epicentro di questa controversia. Non ho mai voluto esserne il fulcro.»

Cheri si portò alle spalle dell’amica e l’abbracciò, la guancia sui capelli di Ellen. Non c’era nulla di falso in quel gesto, di certo non era dettato da senso di condiscendenza.

«Ascolta», disse, rimettendosi a sedere, «non ti dirò che questo non è importante per noi. Ma non è tutto. È una battaglia, non tutta la guerra. Erano presenti più di cinquecento persone al convegno sul vaccino che abbiamo tenuto quest’anno. Cinquecento persone da tutto il mondo, professori, pediatri, scienziati, genitori, filosofi. Al prossimo ce ne saranno di più. La stampa e il Congresso cominciano a capire che non siamo delle radicali isteriche, trascinate dall’amarezza, dagli ormoni, dalle emozioni, prive di logica, per nulla disposte ad ascoltare la voce della ragione.

«Ellen hai fatto un lavoro fantastico, più di quanto chiunque di noi aveva il diritto di aspettarsi. Hai reso fieri me e Sally e tutti gli altri là fuori. Hai già fatto capire a migliaia di genitori che le loro opinioni importano. Se voti contro l’Omnivax, tu e io sappiamo che andrai incontro alla frenesia famelica della stampa e forse finirai addirittura sulla copertina di Newsweek o del Time. Saremmo ingenue se pensassimo altrimenti. Se voti a favore, la tua vita riprenderà il solito corso e saremmo felici di ridarti il tuo incarico al telefono. Ti prometto, tuttavia, che, qualsiasi decisione prenderai, nulla cambierà nella nostra ferma intenzione di pretendere una valutazione scientifica, precisa e a lungo termine delle vaccinazioni. La nostra crociata a favore di una scelta fatta da genitori consapevoli non cambierà. Non cambierà nulla nemmeno nel nostro impegno a trovare una via di mezzo che sia la più sicura per tutti.»

L’espressione di Cheri fece capire a Ellen che non stava facendo alcun giochetto cerebrale, anche se in alcuni ambienti si riteneva che fosse una campionessa.

«Ho quasi deciso cosa farò», dichiarò Ellen, «ma finché non ne sarò completamente certa, preferirei tenere per me la mia scelta.»

«Va bene», replicò Cheri. «Sarebbe bello saperlo appena tu lo vorrai e, naturalmente, spero che scenderai in campo a nostro favore.»

«Voglio fare ciò che è giusto», soggiunse Ellen, sperando che Cheri capisse che era probabile che le cose andassero come voleva lei.

«Questo è tutto ciò che ti abbiamo chiesto», osservò Cheri.

Mentre passava accanto all’ufficio di Sally, Ellen sbirciò dentro e soffermò lo sguardo sulle fotografie che adornavano le pareti, fermandosi un attimo davanti a una in particolare.


La casa di Ellen, sette stanze in stile Cape Cod a Glenside nel Maryland, nella zona a sudest di Washington, era quella che lei e Howard avevano acquistato poco dopo il matrimonio.

«Se questo sarà l’unico posto in cui vivremo, sarò assolutamente felice», aveva detto allora.

Certo.

Sulla via di casa, Ellen si fermò al supermercato del quartiere per comperare uova e latte. Amava le frittate di ogni tipo, e con ciò che vi era in frigo, nello scomparto della verdura, avrebbe creato un gran pasto. Fisicamente e mentalmente era sfinita, esausta come non ricordava d’essere mia stata. Mentre tirava fuori il portafoglio alla cassa, lanciò un’occhiata allo scaffale delle riviste. C’erano sia il Time sia Newsweek. Immaginò la propria faccia sulla copertina. Oggi a comperare uova e latte al Kim’s Korner, domani il suo volto in tutto il mondo. Era pronta per una cosa simile?

Che ne pensi, Howie? Prevedi di vedere presto la tua nuova moglie sulla copertina di una rivista? Sul Mensile della Barista?

Ellen sistemò la spesa sul sedile del passeggero, vergognandosi per la sua piccineria. Riusciva quasi sempre a controllare abbastanza bene rabbia e dolore e stava male quando sgarrava. Il supervaccino era una cosa troppo grossa, che stava succedendo troppo in fretta. Pensò alle orribili cifre che Steinman le aveva mostrato: vite perse o distrutte se votava a favore del farmaco, contro vite perse o distrutte se votava contro. Fondato sull’attuale livello di conoscenza del vaccino, il verdetto era di parità. Ma quello era proprio il punto a favore del quale Cheri e Sally e gli altri si stavano battendo, un aumento del grado di conoscenza.

Ellen parcheggiò nel garage e portò in casa la spesa passando per la porta della cucina. Malgrado la sgradevole associazione d’idee con Howard, amava veramente quella casa, dalla fila di erbe aromatiche alla finestra all’enorme quercia nel cortile sul retro, agli scoiattoli fastidiosi, al piccolo balcone che sporgeva dalla sua stanza da letto dove passava molte ore a guardare le prime luci del giorno filtrare attraverso gli alberi. Era veramente una piacevole…

Ellen depose il pacco e annusò l’aria. Qualcuno aveva fumato in casa sua? Una delle cose che infastidivano Howard era sempre stato il suo senso dell’odorato esageratamente sviluppato, e una delle cose che a lei davano più fastidio era il fumo delle sigarette. Annusando curiosamente in giro, percorse il corto corridoio che portava in soggiorno. Lì gridò e barcollò all’indietro, stringendosi il petto per impedire al cuore di esplodere.

Seduto tranquillo nella poltroncina accanto al caminetto vi era un uomo grande e grosso. Indossava un costoso completo grigio, camicia nera, collo sbottonato, niente cravatta e stivaletti da cowboy decorati. La testa, squadrata come un blocco di granito, era coperta da una fitta capigliatura nera come l’ebano, pettinata all’indietro e tenuta a posto da qualche gel scintillante. Gli occhi duri e stretti sembravano neri come i capelli e la bocca larga era accentuata da una breve e grossa cicatrice che correva dal centro del labbro superiore alla base del naso, con ogni probabilità conseguenza di un intervento per correggere il labbro leporino.

«Perbacco, mi spiace averla spaventata, signora Kroft», esclamò l’uomo con una piacevole voce roca e il modo di fare allegro e disinvolto di un venditore di auto usate. «La prego, si accomodi, si accomodi.»

Ellen rimase bloccata dov’era. Non vi era alcuna prova che quell’enorme intruso avesse fumato in casa sua, eppure la puzza delle sigarette proveniva decisamente da lui. Pensò di fuggire, ma in verità, non aveva l’impressione di trovarsi in un pericolo immediato. L’uomo era già entrato in casa sua. Se avesse voluto farle del male, non l’avrebbe aspettata tranquillamente nel soggiorno.

«Chi è lei? Che vuole?» domandò.

L’uomo sorrise pazientemente.

«Chi sono io, non importa. Ciò che voglio ora è che lei si sieda… là.» Indicò il divano vicino alla poltrona.

Ellen esitò, poi trasse un respiro e fece come era stato richiesto. Da vicino, i suoi occhi erano più che scuri, erano spaventosamente freddi. Le grosse dita dalle nocche sporgenti erano arricciate attorno a una grossa busta che teneva in grembo. Al mignolo della mano sinistra, un anello d’oro con un diamante dal taglio quadrato di almeno tre carati.

«Allora», chiese Ellen, «che fa qui?»

«Io rappresento un gruppo molto interessato a che l’Omnivax entri in circolazione il più presto possibile. Questo è tutto ciò che ha bisogno di sapere.»

«E allora? Che c’entra con me?»

La sua espressione s’irrigidì. Ellen pensò di avere visto un leggero tic all’angolo della bocca. L’uomo riuscì comunque a fare un sorriso di condiscendenza.

«Signora Kroft», disse, con voce gelidamente calma, «non ho né il tempo né la pazienza per questi giochetti. Sia lei sia io conosciamo il significato dell’infelice promessa che Lynette Marquand ha fatto al mondo.»

«E allora?»

«Allora io so, da fonte autorevole, che lei è l’unica persona che potrebbe costringerla a mantenere quella promessa.»

«Per chi lavora lei? Per il presidente? Per le ditte farmaceutiche? Per chi?»

L’omone sospirò con impazienza e ignorò la sua domanda.

«Signora Kroft, devo insistere per avere la sua parola che non bloccherà la distribuzione di Omnivax.»

«Che cos’ha in quella busta?» chiese Ellen. «Soldi per corrompermi?»

«Oh, non ho alcuna intenzione di cercare di corromperla, signora.»

C’era qualcosa di raggelante nel modo in cui pronunciò quelle parole. Le porse la busta, ed Ellen l’aprì, tirò fuori le fotografie e restò a bocca aperta. La busta conteneva una decina di istantanee venti per venticinque, in bianco e nero, nitide, professionali, di Lucy. Lucy che entrava nella scuola, mano nella mano con Gayle; Lucy nel parco giochi; Lucy nel cortile di casa; addirittura Lucy addormentata nella sua cameretta.

«Lei non oserebbe mai fare del male a questa bambina!» esclamò Ellen con voce stridula.

L’uomo la fissò placidamente. Avrebbe voluto balzare in piedi e strappargli con le unghie quell’espressione soddisfatta dalla faccia.

«Farò qualsiasi cosa ci sia da fare», ribatté lui con fermezza. «Mi guardi e non dubiti di me neppure per un secondo. Se non crede alle mie parole, lei e solo lei sarà responsabile delle conseguenze. Le persone per cui lavoro hanno dato a questa faccenda precedenza assoluta. Dovesse deluderci in qualsiasi modo, le prometto che sua nipote sparirà… per sempre. Ciò che le capiterà dopo essere scomparsa, è qualcosa a cui lei neppure vorrà pensare. E, a seconda di quanto arrabbiati saranno i miei datori di lavoro, quello sarà forse solo l’inizio.»

L’arroganza del mostro seduto accanto a lei mise la sordina alla sua ira ed Ellen riuscì solo a esprimerla con lo sguardo.

«Mi sono spiegato?» chiese l’uomo. «Mi sono spiegato?» Per la prima volta alzò la voce.

«S… sì», riuscì a rispondere Ellen.

«Se vuole può rivolgersi alla polizia, ma le prometto due cose. Uno, lo scopriremo, e, due, la polizia non potrà fare nulla per evitare che succeda ciò che le ho promesso. Capito?»

«Sì.»

«Bene. Allora, siamo d’accordo?»

«Sì», ripeté lei, ora pericolosamente sul punto di piangere.

«Fantastico», commentò l’uomo, alzandosi in piedi.

Eretto in tutta la sua altezza, con quelle spalle larghe e la testa massiccia, era terrificante. Rilassato come se stesse raccogliendo il giornale, si chinò e prese la busta e le fotografie. La puzza di tabacco che emanava fece quasi vomitare Ellen. Il killer prese poi dalla tasca il cellulare, lo aprì e si collegò a un numero premendo un solo tasto.

«Abbiamo finito», disse semplicemente.

Pochi secondi dopo, un’automobile si fermò fuori della casa.

«La ringrazio per la sua ospitalità, signora Kroft», disse. «E la sua famiglia, ne sono certo, la ringrazia per il suo buonsenso. Non c’è bisogno che mi accompagni alla porta.»

Chiuse le tende della finestra panoramica e, con un ultimo sorriso, se ne andò. Ellen corse alla finestra e infilò la testa tra le tende, sperando di scorgere il numero della targa, ma l’automobile, una anonima berlina, si stava già allontanando giù per la strada.

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