Raramente, quando si svegliava, Matt ricordava il sogno fatto e, ancora più raramente, era consapevole di sognare mentre lo faceva. Questa volta però, lo sapeva. Era nello stesso tempo partecipante e osservatore, atterrito a ragione, eppure stranamente distaccato e analitico.
C’era un enorme mostro Gila, squame color arancione che scintillavano nella luce solare chiazzata. Il lucertolone velenoso, alto come un edificio, si spostava per la fitta foresta, la grossa coda che sbatteva sugli alberi, le tozze zampe che schiacciavano qualsiasi cosa si trovasse sul suo cammino. La lingua nera schioccava come una frusta, tranciando le punte dei pini. Continuava a sbattere contro il fianco roccioso di una collina, facendo precipitare le pietre dove si trovava Matt. All’improvviso vi furono anche uomini con armi, ombre vaghe che sparavano di continuo, cacciando proiettili su proiettili nel corpo della lucertola. Il Gila si drizzò sulle zampe posteriori, tenendosi in equilibrio sulla coda, alla ricerca della causa del dolore. Sempre più uomini… sempre più fucili… sempre più spari… sempre più fiammate… sempre più urla… e ora anche sangue che spruzzava da un centinaio di ferite lungo il fianco del mostro. L’enorme testa nera e arancione oscillava da una parte all’altra, le poderose fauci si aprivano e si chiudevano su null’altro che aria.
«Nooo!» Matt sentì se stesso gridare. «Basta!»
Ferita a morte, la bestia crollò, urlando contro i suoi assassini, sbattendo le zampe anteriori, lacerando più volte il braccio di Matt. Fu allora che ebbe l’impressione di essersi svegliato. Socchiuse gli occhi. Qualcosa continuava a graffiargli il braccio. Poi si rese conto che non era niente di più maligno di una mano che gli grattava il gomito. Era seduto su una sedia in un cubicolo circondato da vetrate all’unità di Terapia Intensiva, la stanza della dottoressa Solari. Accasciato su un fianco, aveva dormito, la testa appoggiata per metà sulla spalla e per metà sul letto. Era stata Nikki Solari a svegliarlo dal suo strano incubo con un colpetto. Attraverso il vetro, Julie Bellet, una delle infermiere di notte, lo salutò, sorridendo. L’orologio a muro alle sue spalle indicava le cinque e mezzo.
La mente di Matt si schiarì rapidamente. L’irrigidimento al collo gli fece capire che non si era mosso da un bel po’. La sua paziente, le braccia bloccate da cinghie in cuoio, lo stava implorando silenziosamente nella semioscurità. Gli occhi spalancati erano colmi di paura e confusione. Il tubo in poliestere che le aveva infilato tra le corde vocali era ancora al suo posto. L’apparecchio per la respirazione artificiale attaccato al tubo ronzava e sibilava mentre pompava aria nei polmoni della giovane a ogni respiro. Julie Bellet entrò nella stanzetta.
«Buongiorno a tutti», esclamò. «Ha dormito per almeno tre ore. Aveva un aspetto tanto sereno che nessuno di noi ha avuto il coraggio di svegliarla.»
«Io… ehm… ero un po’ stanco», riuscì a dire. «Penso sia ora di abbandonare il decaffeinato e tornare a quello forte e nero.»
Fece un timido sorriso e si girò verso Nikki. Sapeva dai racconti di chi si era svegliato attaccato a un respiratore quanto fosse spiacevole e spaventosa la sensazione data dal tubo infilato giù per la gola e nella trachea, avendo per di più le mani legate con le cinghie. Accese la lampada a fluorescenza sopra la testa.
«Dottoressa Solari, mi spiace di essermi addormentato così. Sono stati due giorni duri. Io sono Matt Rutledge, il suo medico. Mi capisce?» Nikki annuì, gli occhi fissi sul suo viso. «Bene», continuò. «Lei si trova nell’ospedale regionale dalla contea di Montgomery, a Belinda, nel West Virginia. Ho dovuto infilarle il tubo, perché ieri lei è quasi annegata in un lago. È rimasta priva di sensi per più di dodici ore.»
Nikki, ignorando il dolore alle tempie, allungò il più possibile la mano e indicò il suo viso.
Il tubo. Lo tiri fuori! Per favore, me lo tolga. Mi sta soffocando!
Nikki pregò che il medico la comprendesse.
Matt Rutledge aveva qualche anno più di lei, e un viso gentile e virile. I capelli scuri erano tirati all’indietro in una coda di cavallo che gli scendeva fin sopra il colletto della camicia.
«So che vorrebbe che le togliessi subito il tubo», disse. «So che è terribile, ma la prego, faccia del suo meglio per rilassarsi e respirare con calma. Pensa di avere bisogno di qualche farmaco per riuscirci?… Bene. Mi faccia un segno se dovesse cambiare idea. Il respiratore l’aiuta, tutto quello che lei deve fare è respirare. Le prometto che le toglierò il tubo appena potrò. Prima devo farle una radiografia e controllare il livello d’ossigeno nel sangue. Se le tolgo le cinghie, mi promette di tenere le mani lontane dal tubo?»
Nikki annuì. L’infermiera, che era rimasta sulla porta, si avvicinò, si presentò e slegò le cinghie.
«Nikki», disse, «il palloncino è ancora gonfio. La prego di non cercare di togliere il tubo. Potrebbe rovinarsi le corde vocali. D’accordo?»
Nikki si sforzò di annuire, anche se le sembrava di avere una canna per innaffiare in gola. A livello conscio, sapeva a che cosa serviva quel tubo, ma aveva la sensazione che la stesse soffocando. Chiuse gli occhi, mentre il medico le auscultava cuore e polmoni, le esaminava l’addome e controllava il battito alle braccia e alle gambe. Poi le chiese di aprire gli occhi e li esaminò con un oftalmoscopio. Aveva un modo di fare rassicurante e un tocco delicato. Per quanto poteva dire, sembrava sapesse quel che stava facendo. Si appoggiò al cuscino e si sforzò di respirare più lentamente. Pezzo dopo pezzo, gli eventi sulla strada e nel bosco si riordinarono.
Perché? La domanda s’impresse nella sua mente. Perché?
«Mi sembra vada tutto bene», commentò Matt. «Ora vado a scrivere alcune prescrizioni e a gettarmi un po’ d’acqua in faccia. Poi tornerò.»
Uscito Matt, l’infermiera Julie sistemò le lenzuola e asciugò il viso e le mani di Nikki.
«Guarirà perfettamente», osservò. «Il dottor Rutledge non avrà l’aspetto di un professore universitario di medicina, ma, mi creda, è un medico fantastico, il migliore di questo ospedale. Ho sentito che lei è di Boston. Ecco, lui è cresciuto qui, ma ha studiato a Harvard. È andato al lago in ambulanza e l’ha intubata là.»
Nikki le fece sapere di avere capito alzando debolmente il pollice.
Dottoressa. Proprio prima che il grassone elegantemente vestito l’aggredisse, l’aveva chiamata «dottoressa». Chi poteva averglielo detto? Quei due non avevano avuto alcuna intenzione di derubarla o di violentarla. Volevano ucciderla.
Perché?
Matt tornò accanto al suo letto dopo essersi lavato e sbarbato e avere radunato le cose che gli sarebbero servite per Lewis Slocumb. Le ore di sonno gli avevano giovato e, almeno per il momento, si sentiva concentrato e pieno di energie. Ieri aveva avuto intenzione di tornare alla fattoria degli Slocumb per sostituire il tubo di fortuna dopo poche ore di lavoro all’ospedale, ma era passata un’intera giornata. Ebbene, pensò, non poteva fare di più e sperò che Frank Slocumb avesse avuto il buon senso di portare il fratello in ospedale se fossero sorte complicazioni.
Nikki Solari pareva sveglia e più vivace. Le radiografie non avevano rivelato una polmonite e i livelli di gas del sangue erano ottimi. Era ora di mantenere la promessa e di togliere il tubo. Forse così, le domande su ciò che era successo a Crystal Lake avrebbero trovato risposta. Un mistero era già stato risolto, e cioè lo strano sogno in cui si era trovato Matt. Sul piede sinistro della dottoressa Solari vi era il tatuaggio, arancione e nero, di un mostro Gila. Matt l’aveva notato mentre le faceva una prima visita, ma era stato troppo impegnato a cercare di salvarle la vita per prenderlo in considerazione.
La donna dalle eleganti mani dalle lunghe dita, che aveva pensato potesse essere una ceramista, era un coroner. E il coroner, che suonava musica bluegrass, aveva un mostro Gila nero e arancione tatuato sul piede. Per quanto popolari fossero diventati i tatuaggi, non erano ancora molto comuni tra moderati studenti di medicina e medici. Si chiese se fosse anche tanto anticonformista da fare uso di droghe o di smerciarle. Era forse per quello che era stata inseguita nei boschi vicino alla Niles Ledge?
Matt rifletté su questa possibilità mentre si preparava a rimuovere il tubo del respiratore. Visualizzò anche il suo tatuaggio, inciso sul braccio, un ricordo permanente e continuo d’amore e perdita. No, decise, fissando gli occhi espressivi di Nikki Solari, quale che fosse il significato di quello strano tatuaggio, non aveva nulla a che fare con le droghe.
La tecnica di rimozione del tubo endotracheale era semplice quanto le possibili complicazioni della procedura erano pericolose. Aspirare la trachea, sgonfiare il palloncino, costringere la paziente a tossire ed estrarre il tubo. Semplice. In agguato nell’ombra, tuttavia, vi era lo spettro di una contrazione riflessa della laringe, tanto forte da chiudere il condotto dell’aria e tanto stretta da rendere quasi impossibile il reinserimento di un tubo respiratorio.
Matt non aveva mai eseguito una tracheotomia d’urgenza, ma aveva a portata di mano tutto l’occorrente. In quel momento non c’era nulla al mondo che desiderasse fare meno volentieri.
«Dottoressa Solari, siamo pronti», l’avvisò.
Nikki annuì e gli diede un debole segno di via. Una donna forte, pensò Matt. Qualsiasi altra cosa fosse, comunque era in gamba.
«Bene», disse. «So che non sarà piacevole, ma dobbiamo farlo. Aspirazione, per favore, Julie.»
L’infermiera infilò un sottile catetere d’aspirazione dietro la punta del tubo nella trachea di Nikki, che reagì con un violento accesso di tosse mentre le lacrime le riempivano gli occhi e colavano lungo le guance.
«Mi spiace veramente», dichiarò Matt, sgonfiando il palloncino sul tubo, «ma è meglio togliersi alla svelta questo pensiero. Lei deve solo trarre un bel respiro e tossire.»
Nikki obbedì. Un leggero strattone e il tubo era fuori. L’infermiera stava per iniziare ad aspirare la bocca e la gola di Nikki, ma lui le spinse via la mano.
«Grazie», gracchiò Nikki.
L’infermiera le infilò sopra la bocca e il naso una maschera in polistirene trasparente. Per un minuto, per un altro minuto nessuno parlò, mentre Nikki prendeva lunghe e gradite sorsate d’aria umidificata e ricca di ossigeno. Il livello d’ossigeno del sangue, misurato dall’ossimetro applicato attorno alla punta del dito, era buono e il ritmo del battito cardiaco, visualizzato sul monitor, regolare. Non vi fu alcuna importante contrazione laringea.
«Sta bene?» domandò Matt.
«È stato tremendo», rispose Nikki. «Non è certo il modo di salutare un nuovo paziente. Da dove vengo io, i medici iniziano di solito chiedendo quale è l’agenzia di assicurazione.»
Venne abbassata di nuovo la luce nella stanzetta dell’unità di Terapia Intensiva.
L’infermiera era andata a prepararsi per un altro ricovero, un paziente che con ogni probabilità avrebbe preso il posto di Nikki in quella stanza. Esitante, appisolandosi ogni pochi minuti, Nikki parlò del finto incidente sulla strada, del cloroformio, degli spari e dell’inseguimento nel bosco. Non aveva alcun ricordo degli eventi immediatamente successivi al suo tuffo nel Crystal Lake.
Quel racconto spaventoso avvinse totalmente Matt, ma non più di quanto lo avvincesse la donna che stava parlando. Esausta e chiaramente alle prese con emicrania, vertigini e altri effetti del colpo subito, Nikki, che gli aveva chiesto di darle del tu, rivelava una forza d’animo, un’intelligenza e un senso dell’umorismo che neppure il suo attuale stato riusciva a diminuire.
Matt aveva un sacco di domande e, senza alcun dubbio, Grimes ne avrebbe avute altrettante. Per il momento, tuttavia, non aveva alcun desiderio di affrontare il poliziotto. Avrebbe chiamato la stazione di polizia solo quando lei fosse stata ben sveglia, nel frattempo rimase tranquillamente seduto in attesa, mentre lei riposava. Si sorprese nel rendersi conto che stava esaminando il suo volto. Come mai lo attraeva tanto? Non aveva assolutamente nulla che gli ricordasse la donna che aveva amato per tanta parte della sua vita. Tanto Ginny era solare e ricordava la sabbia della spiaggia, tanto Nikki era lunare e ricordava l’acqua scura e ferma di un lago di notte. La bocca di Ginny era innocente e infantile, quella di Nikki sensuale e piena. Da quando Ginny era morta, di tanto in tanto era stato con qualche donna, ma nessuna l’aveva attratto in questo modo. Si sentì strano, imbarazzato e un po’ infedele. Che stava facendo, paragonando e contrapponendo questa donna a Ginny?
… Che quei ricordi ti rammentino quanto la vita può essere di nuovo splendida. Non erano state quelle le parole di Mae?
In quel momento, la voce che tanto spesso lo infastidiva con frasi simili gli ricordò che lui era il suo medico. Un coinvolgimento sentimentale di un medico con il suo o la sua paziente era vietato non solo dal giuramento di Ippocrate, ma anche dalle leggi della maggior parte degli stati. Per troppi medici, un simile coinvolgimento aveva finito per essere una scorciatoia verso un lavoro impiegatizio.
«Ehi, ancora qui?» chiese Nikki.
«Io… ecco… devo essermi appisolato.»
«Di nuovo?»
«All’università ero campione di pisolini.»
«Anch’io. Dovevo diventare un chirurgo, ma mi hanno cacciata a pedate dopo che mi sono addormentata sul tavolo operatorio.»
«Posso immaginarti crollare a faccia in giù in un addome aperto. Nikki, dimmi, perché ti è successo tutto questo?»
«Non ne ho idea. Ma quegli uomini sapevano chi ero. Di questo sono certa.»
«Volevano forse droghe?»
«Tutto è possibile, suppongo. Ma, da quello che ricordo, penso volessero semplicemente me. Credo di averli sentiti chiamarsi per nome, ma non ricordo.»
Matt si alzò.
«Torno subito», dichiarò.
«Dove vai?»
«A telefonare alla polizia. Grimes vorrà sapere che sei sveglia e, finché non sapremo cosa c’è dietro questa storia, voglio un agente accanto alla tua porta.»
Nikki si strofinò gli occhi.
«Credo di aver chiacchierato già con il capo della polizia.»
«È vero, me lo ha detto.»
«Da ciò che ricordo, era molto cordiale.»
«Ecco spiegato l’arcano», sbottò Matt, ricordando improvvisamente la minaccia totalmente inadeguata e ben poco dissimulata fatta al pronto soccorso.
«Cosa?»
«Niente. Nikki, non abbiamo contattato la tua famiglia. Dammi il numero di telefono e chiamerò io tuo marito o i tuoi genitori o chiunque tu voglia.»
«Mio padre si sta riprendendo da un leggero colpo apoplettico, mia madre diventa isterica alla vista di un pettirosso che mangia un verme e i candidati a diventare mio marito sono ancora là fuori che combattono tra loro per la mia mano. Dato che con ogni probabilità ce la farò, perché non evitiamo di sconvolgere tutti? Oh, a parte il mio capo. Dovrei essere al lavoro.»
Matt si annotò il numero.
«Torno subito», annunciò con un deprecabile accento alla Schwarzenegger.
«Sei… molto… gentile», lo ringraziò.
Matt stava per rispondere, ma poi si rese conto che si era addormentata di nuovo e che respirava profondamente e regolarmente.
Quando Matt spiegò ciò che voleva, l’agente che aveva risposto alla stazione di polizia di Belinda gli passò Bill Grimes.
«Le ha detto cosa è successo?» chiese Grimes.
«Non le ho fatto molte domande. Volevo chiamare prima lei.»
«Non mi dica che è diventato ragionevole nei miei confronti.»
«Molto divertente. Ha detto che c’erano due uomini, uno grasso che indossava un abito da ufficio. L’altro atletico. Le dicono qualcosa?»
«Forse.»
«Ha anche detto che le hanno sparato.»
«E così quella sopra l’orecchio era proprio una ferita da pallottola.»
«Direi di sì.»
«Manderò lì qualcuno entro un’ora, e più tardi passerò per interrogarla.»
«D’accordo, ma con calma», disse Matt che avrebbe preferito dirgli di starsene alla larga da lei. «Ha avuto una grave commozione cerebrale.»
«Quanto a lungo dovrà restare in ospedale?»
«Non lo so per certo. Un paio di giorni, forse. Voglio che la veda il neurologo e, se lui ritenesse che una risonanza magnetica nucleare ci direbbe qualcosa di più della tomografia d’urgenza, dovrà fare anche quella.»
«Giusto. Uno dei miei sarà lì tra poco.»
«Ventiquattr’ore su ventiquattro, d’accordo?»
«Rutledge, lei faccia il suo lavoro e lasci fare a me il mio.»
«Nancy», chiese Matt alla sovrintendente delle infermiere, «è certa di non poter tenere la dottoressa Solari nell’unità di Terapia Intensiva più a lungo?»
«Matt, sa benissimo che camminerei sui carboni ardenti per lei», rispose Nancy Catlett, «ma abbiamo quattro casi critici nell’unità e tra poco arriverà su un caso di riparazione postoperatoria di aneurisma addominale. Non posso assolutamente giustificare la presenza di un paziente sveglio e vigile, nemmeno uno dei suoi.»
«Allora, una camera privata.»
«Questo dipende dalla sua assicurazione.»
«Lei me ne trovi una. Avremo un agente di guardia fuori dalla sua porta. Voglio che nella sua stanza entri solo chi è essenziale alle cure. Se avesse bisogno di disposizioni specifiche, le scriverò io. Se la sua assicurazione non coprisse la camera privata, lo farò io.»
«Non credo che si debba arrivare a tanto», commentò la Catlett. «Me se è così che lei cura tutti i suoi pazienti, cambio medico. Al mio ente di medicina preventiva non piace affatto pagare camere private.»
Matt fece un rapido giro dei suoi pazienti, quindi portò l’apparato per inserire il tubo nel torace e per drenare, i palloncini endovenosi, gli antibiotici e altre cose trafugate alla moto. Aveva la mente talmente piena di pensieri su Nikki e di domande concernenti l’aggressione che non riusciva a concentrarsi su molto altro. Quando tornò all’unità, le infermiere gli riferirono che Nikki aveva dormito da quando lui se ne era andato, svegliandosi e riaddormentandosi subito dopo ognuno dei due esami neurologici. Eppure, come entrò nella camera, lei gemette di contentezza e aprì gli occhi.
«Ben tornato», lo salutò, sbadigliando.
«Come facevi a sapere che ero qui?»
«A volte le cose le so, così.»
«Come va il mal di testa?»
«Hai mai visto Riverdance?»
«Oh, oh. Posso farti dare del Tylenol, ma preferirei tenermi alla larga da qualcosa di più forte.»
«Il Tylenol andrà bene. Sono una dura.»
«Non occorre che cerchi di convincermene. La vigilanza della polizia è sistemata. Avevi ragione su Bill Grimes. Si sente protettivo nei tuoi confronti.»
«Spero che riesca a capire che c’è sotto tutta questa storia.»
«È un bravo poliziotto.» Quando vuole esserlo. «Senti, devo fare una visita a domicilio, ma resterò qui in giro fino all’arrivo dell’agente. Tu rimettiti a dormire. È la cosa più terapeutica che puoi fare al momento.»
«Tra un minuto. Ora sono ben sveglia. Puoi sederti per un po’? Mi sento un po’ come Dorothy quando, guardando fuori dalla finestra, scopre di non essere più nel Kansas.»
«Preferisco parlare con te che scrivere cartelle cliniche.»
«Grazie. Le infermiere mi hanno detto che hai studiato a Harvard.»
«Ho fatto il tirocinio pratico ospedaliero al White Memorial»
«Però! Io non sono stata accettata al loro programma chirurgico.»
«Chirurgia?»
«Ho fatto un anno di chirurgia al Metropolitan, poi sono passata a patologìa. Volevo che i miei pazienti giacessero immobili, veramente immobili mentre li operavo. Dove vivevi quando eri là?»
«Beacon Hill. La zona più povera. Boston mi piaceva molto, ma il mio cuore è sempre rimasto in queste montagne. Non vedevo l’ora di tornare.»
«Non è difficile capirlo. Questa zona è molto bella.»
«Solo quando non si è inseguiti da un paio di pazzi assassini. Posso chiederti una cosa?»
«Certo.»
«Riguarda il tuo tatuaggio.»
«Che vuoi sapere?» domandò, con un tono leggermente difensivo.
«Oh, niente. Volevo solo che tu sapessi che m’imbatto di continuo in piedi di medici con tatuaggi del mostro Gila.»
Nikki strinse gli occhi. Mi stai prendendo in giro? chiese con lo sguardo.
Matt cercò di salvare la situazione.
«Uh uh, scusami», esclamò. «Suonare insolente nel momento sbagliato è uno dei miei talenti meno piacevoli e mi caccia sempre nei guai. Mea culpa.» Tirò su la manica per mostrarle il suo tatuaggio. «Io sono per i biancospini.»
L’espressione di Nikki si addolcì.
«Un giorno o l’altro mi devi una storia», disse. «Ecco, vediamo. Mi sono fatta fare il tatuaggio alcuni anni fa. Alcuni dei miei amici musicisti si stavano facendo tatuare e avevo deciso di volerne uno anch’io. Ho scelto il dorso del piede, perché così potevo vederlo quando volevo, ma anche nasconderlo quando volevo. Avrei scelto un altro posto se avessi saputo quanto questo avrebbe avuto successo. In verità è solo un mezzo mostro Gila. La parte anteriore è una salamandra.»
«Molti nostri medici hanno scelto quella versione», commentò, malgrado stesse cercando di trattenere l’ironia.
Gli occhi di Nikki risero. Nessun problema, questa volta.
«Una volta ho visto le due parti congiunte su un vaso di creta in una riserva Navajo in Arizona», continuò, «e, dopo che l’artista me l’ebbe spiegata, ho adottato quell’immagine come una specie di totem personale. La salamandra è timida, vulnerabile, debole e riservata. Il Gila è intrepido, compatto, combattivo, determinato e tanto ostinato che, quando afferra qualcosa con le sue fauci, bisogna tagliargli la testa per costringerlo a lasciarla andare.»
Matt ricordò l’orribile morte della bestia nel sogno e rabbrividì. Non aveva mai respinto il mistico o il sovrannaturale, cominciando dai sogni, e questo lo stava preoccupando sempre più. Quello scenario sconcertante riproduceva semplicemente una versione degli eventi appena passati o era una visione di cose future?
«Posso capire ora come quei due uomini sulla strada abbiano ricevuto più di quanto s’aspettassero.»
Non ricevette risposta. Nikki aveva chiuso gli occhi, il cervello avvolto dalla stanchezza e dall’effetto della commozione cerebrale. Gli effetti prolungati del trauma cranico erano assolutamente imprevedibili e potenzialmente devastanti. Matt aveva visto atleti professionisti costretti per sempre all’inattività e altri, mentalmente a posto senza visibili cambiamenti sulle loro risonanze magnetiche, peggiorare gravemente nel giro di pochi giorni.
Silenziosamente, pregò per Nikki Solari e per la musica che suonava, con o senza il violino. Si alzò, quindi, prima di voltarsi, allungò impulsivamente il braccio per toccarle la mano. All’ultimo istante, si tirò indietro. Il gesto sarebbe stato del tutto innocente e spontaneo con quasi tutti i suoi pazienti, ma non con questa, dovette ammettere.