11

Trascorsero dieci minuti d’assoluto silenzio e buio, prima che Matt osasse accendere la torcia elettrica ed esaminare Lewis che giaceva immobile, faccia in giù, il fiato corto. La parte sinistra della tuta, della felpa e della T-shirt erano impregnate di sangue. Un foro di proiettile, la ferita d’entrata, ipotizzò Matt, era vicino alla scapola, all’altezza della sesta costola. Sanguinava ancora, anche se lentamente. Pian piano, attento a tenere la torcia il più possibile riparata sotto la maglia insanguinata, fece rotolare Lewis sul fianco destro.

Con le maniche della camicia, Matt lavò via un po’ del sangue. Sospirò di sollievo quando vide il foro di uscita, appena a sinistra del capezzolo. Mentalmente, tracciò una linea tra i due fori. Se la pallottola aveva fatto un percorso diritto, aveva attraversato direttamente il lobo più grande del polmone sinistro. Sapeva, tuttavia, per esperienza, che, a seconda del calibro della pallottola e di altri fattori, raramente il percorso attraversava in linea retta un corpo. Aveva visto un colpo sparato al petto la cui pallottola di basso calibro era entrata vicino alla spina dorsale ed era uscita accanto allo sterno senza neppure attraversare il petto. Il proiettile aveva percorso metà strada attorno al torace, nel muscolo appena sotto la pelle. In un altro caso la vittima, un anziano negoziante che era stato rapinato, non aveva avuto altri sintomi a parte dolore alla spalla e insensibilità al mignolo. La ferita d’entrata era nel braccio sinistro, ma mancava la ferita d’uscita, e i raggi X non avevano evidenziato la pallottola né nella spalla né nell’avambraccio. Alla fine il proiettile fu trovato nello stomaco dell’uomo: era rimbalzato tra le costole e il polmone, perforandolo quattro volte prima di bucare il diaframma e, infine, la parete dello stomaco.

Matt pose le mani sulla schiena di Lewis e cercò, senza riuscirvi, di capire se il polmone sinistro fosse dilatato. Appoggiò poi l’orecchio vicino alla ferita d’entrata e auscultò i rumori del respiro. La situazione era semplicemente troppo strana per poter dire qualcosa.

«Lewis, come va il respiro?» chiese, controllando i battiti nel braccio e nel collo dell’uomo, pulsazioni forti e regolari.

«Andrebbe meglio se potessi avere una di quelle sigarette che sono nella tasca posteriore», borbottò Lewis, interrompendosi due volte per tossire.

«Saranno zuppe d’acqua. Tutto è inzuppato», osservò Matt, addolorato per ciò che, a causa sua, era capitato al vecchio amico.

«Le avevo messe in un sacchetto di plastica. Anche i fiammiferi.»

«Come mai non ne sono sorpreso? Ascolta, Lewis, appena ce ne saremo andati di qui, te ne darò una. Promesso.» Matt spense la torcia. «Che dobbiamo fare ora, secondo te?»

«Non rimanere qui, questo è certo.»

«Riesci a camminare, se ti aiuto?»

Matt pensò che fossero passati quindici minuti o più da quando Lewis era stato colpito da una di quelle pallottole rimbalzanti. In quel lasso di tempo avevano percorso parecchia strada attraverso gallerie strette, basse e sinuose. L’uomo aveva superato la sessantina ed era di esile costituzione, ma era anche forte come un toro.

«Posso provarci», rispose Lewis.

Con cautela, il più silenziosamente possibile, scesero lentamente la collina, scivolando sul didietro. Giunti in fondo, aspettarono di nuovo, con le orecchie tese. Infine Matt mise il braccio attorno alla vita di Lewis e lo aiutò, prima ad alzarsi, poi ad attraversare la stretta radura tra la collina e il bosco. Da qualche parte, in lontananza, sentirono delle voci, ma la minaccia di venire scoperti, almeno per il momento, sì era allontanata.

Penetrarono per una cinquantina di metri nel bosco, poi capirono che Lewis non sarebbe riuscito a raggiungere la moto. Respirando più velocemente, si lasciò cadere contro la base di un pino.

«Non è una cosa maledettamente assurda?» commentò, costellando la sua osservazione con brevi accessi di tosse. «Ho trascorso due anni in Vietnam senza un graffio. E ora questo.»

«Mi sembra ti riesca più difficile prendere fiato.»

«Andrà tutto bene.»

«Lewis, devo portarti in ospedale.»

«Io non ci andrò.»

Tossì di nuovo, ma questa volta non riuscì a reprimere un gemito di dolore. Matt controllò le ferite, che non sanguinavano più, e il battito, che pareva ancora piuttosto forte.

«Ascolta», disse, «devi rimanere qui mentre vado a prendere la moto. Poi ti porterò all’ospedale.»

Gli occhi di Lewis lampeggiarono.

«C’è qualcosa che non va con il tuo udito, ragazzo? Ho detto che non sarei andato all’ospedale. È probabile che quelle guardie non sappiano a chi hanno sparato, ma il mio arrivo in ospedale con un maledetto foro di proiettile in corpo sarebbe una condanna a morte, probabilmente anche per te.»

Rimase senza fiato prima di poter continuare.

«Senti, vado a prendere la moto, se la trovo. Dopo ne riparliamo.»

«Ho detto tutto quello che avevo da dire», ribatté Lewis, incrociando le braccia sul petto.

Gli diede indicazioni per raggiungere il sentiero che avevano preso per arrivare al crepaccio. Matt raccolse la torcia elettrica e la bussola e si accinse ad andarsene. Prima però s’inginocchiò accanto a Slocumb.

«Lewis, sono veramente dispiaciuto per quello che ti è successo», ammise. «Vorrei fosse capitato a me.»

«Ehi, io non lo vorrei proprio», ribatté Lewis con voce nasale. «I miei fratelli mi ucciderebbero in un battito di ali, se pensassero che ho lasciato che ti sparassero. Tu sei il nostro medico.»

«Tornerò presto», promise. «Tu resta qui.» «Era quello che avevo intenzione di fare.» Con tutti i sensi tesi, Matt aggirò la collina, tenendosi alla larga dagli uomini che ne perlustravano la base. Non aveva mai usato una bussola e, dopo un po’, smise di provarci. Erano passate da poco le quattro. Con ogni probabilità, al mattino avrebbero intensificato la loro ricerca. Al buio era stato impossibile capire se Lewis fosse ben nascosto o no. Spronato dal pensiero che forse non lo era, Matt si mise a correre, inciampando più di una volta in grosse radici che sporgevano dal terreno. Era ancora rischioso usare la torcia, ma, dopo essere inciampato ed essere finito di testa in un cespuglio di ginepro, decise che valeva la pena correre quel rischio.

Sapendo vagamente dov’era la collina, continuò la sua corsa alla ricerca della piccola radura dove aveva incatenato la Kawasaki Vulcan. Arrivarci voleva dire avere un’ assoluta fiducia nelle indicazioni di Lewis e un sacco di fortuna, ma non tanta quanta gliene sarebbe servita per fare attraversare il fitto bosco a una moto che pesava ben duecentocinquanta chilogrammi.

Con sua gran sorpresa, fu facile trovare la motocicletta. Il trucco era stato ricordare dove fosse rispetto alle colline e proseguire finché non avesse raggiunto il torrente. Poi aveva svoltato a destra, imboccato uno stretto sentiero e scrutato con attenzione il bosco, finché non aveva scorto la moto.

Matt sbloccò il veicolo e lo spinse per circa sei metri sul terreno irregolare. Le radici gli intralciavano il cammino, e piccole pietre gli facevano perdere l’equilibrio. Aveva calcolato che dalla base della collina al punto in cui aveva incatenato la motocicletta vi fossero circa ottocento metri. C’era la possibilità che l’aria pesante e umida soffocasse il rumore del motore, a patto che lui non si avvicinasse troppo agli uomini che li stavano cercando. Ma anche se fosse riuscito a portare la moto attraverso il bosco fino a un punto equidistante da dove Lewis lo stava aspettando, avrebbe sempre dovuto svoltare a destra e dirigersi verso le colline dove le guardie stavano perlustrando.

Non c’era proprio altra possibilità?

Avrebbe potuto ignorare i desideri di Lewis e coinvolgere immediatamente la polizia e una squadra di soccorso. Oltre ad avere sconfinato in una zona che comunque non era segnalata, non avevano fatto realmente nulla di male e, avessero agito legalmente o no, quello che avevano trovato dimostrava che la miniera ammassava e depositava rifiuti tossici. Sentiva, tuttavia, che era rischioso coinvolgere la polizia di Belinda. Non c’era una grande affinità tra gli Slocumb e i pubblici ufficiali della città ed era cosa nota che il capo della polizia, Bill Grimes, era strettamente legato ad Armand Stevenson.

Forse valeva la pena contattare suo zio, pensò. Hal era in rapporti amichevoli con Grimes, come lo era con la maggior parte degli abitanti di Belinda.

Matt sapeva che, se non avesse chiesto aiuto e fosse successo qualcosa di grave a Lewis, gli sarebbe stato per sempre difficile vivere con se stesso. Gli sarebbe, tuttavia, stato altrettanto difficile farlo, se avesse tradito la sua fiducia.

È stata la mia valutazione clinica, Lewis.

Ebbene, che la tua valutazione clinica vada al diavolo, ragazzo. Tu hai appena firmato la nostra sentenza di morte.

Con lo stomaco sottosopra, Matt verificò la posizione della collina con la bussola, avviò il motore e lanciò la motocicletta nel fitto bosco. Al diavolo la valutazione clinica.

Attraversare la boscaglia in una notte senza luna e in sella a una motocicletta di duecentocinquanta chili costruita per viaggiare su strada, era stimolante quanto una esercitazione antisciagure al pronto soccorso, ma molto più pericoloso. Tenendo i piedi staccati dalle pedane e le gambe tese in avanti per bilanciarsi, serpeggiò tra alberi e rami bassi, cercando disperatamente di non mandare troppo su di giri il motore. Rovi frustavano la visiera e gli graffiavano mento e labbra. Una volta, la Vulcan sbandò di lato su una grossa radice e cadde. Matt riuscì a stento a evitare che la gamba gli rimanesse sotto la moto o si bruciasse con il tubo di scappamento. Cinque minuti… dieci… Di certo il rumore del motore aveva ormai attirato l’attenzione. Con ogni probabilità avevano delle ATV, le grosse moto a quattro ruote motrici, e stavano già seguendo il rumore. Quindici… Pensò fosse ora di svoltare a destra verso la collina.

Resisti, Lewis.

Matt controllò la bussola, quindi spense i fari e illuminò la strada con la torcia elettrica. Se ancora non avevano udito il brontolio del motore da 900cc, l’avrebbero sentito presto. Ottocento metri percorsi all’andata, ottocento da percorrere al ritorno. Per ora, tutto bene. Quando mancavano solo duecento metri, si fermò e spense il motore. Immediatamente venne avvolto da un pesante silenzio. Attese un minuto per rimettere a punto i sensi. In lontananza, credette di udire delle voci. Aveva lasciato Lewis a circa settanta metri dalla collina: era ora di cercarlo a piedi.

Matt appoggiò la motocicletta contro un albero e, cautamente, avanzò. Le voci degli uomini, ora più chiare, provenivano da qualche parte alla sua destra. Non riusciva ancora a comprendere le parole, ma il tono pareva urgente.

«Lewis», sussurrò ad alta voce. «Lewis, sono io.»

Avanzò di un’altra decina di metri verso la collina. Da qualche parte alla sua destra udì il rumore acuto, sibilante, di un motore, con ogni probabilità quello di una moto ATV.

«Lewis! Dove sei?»

Gli pareva di trovarsi alla giusta distanza dalla collina, ma in nessun modo se aveva svoltato a destra troppo tardi o troppo presto. Vi era anche la possibilità che Lewis fosse stato catturato o, peggio, non potesse più rispondere.

Il motore sibilante pareva ora più vicino e Matt sentì che stava per soccombere al panico. Imprecò e chiamò di nuovo Lewis, questa volta con un tono di voce quasi normale. All’improvviso venne afferrato da dietro e trascinato a terra. Cadde pesantemente, ma non si perse d’animo, si liberò dell’aggressore e si girò, pronto a parare il colpo. Lewis s’inginocchiò accanto a lui, un dito sulle labbra.

«Per essere un gran bravo dottore, a volte non sei molto sveglio», lo rimproverò Lewis, interrompendosi ogni due parole per riprendere fiato. «Non sono più tanto lontani da non sentirti, se tu strillassi un po’ più forte di così, anche sopra il fracasso di quella dannata Honda che guidano.»

«Come fai a saperlo?»

«Erano qui. Due di loro. A nemmeno due metri da quella parte. Mi hanno quasi investito.»

«La moto è a una cinquantina di metri da qui. Pensi di farcela, Lewis?»

«Basta che tu mi dia una mano. Questo dannato buco comincia a darmi fastidio.»

La sua spacconeria non riuscì a mascherare l’evidente dolore e il respiro affannoso. Matt gli cinse la vita come prima, ma questa volta lo sentì appoggiarsi di più a lui.

«Ospedale?» chiese Matt speranzoso.

«Andrei prima all’inferno.»

Quando raggiunsero la Vulcan, Lewis stava tossendo di nuovo.

«Non sarà facile», osservò Matt, aiutandolo a mettersi a cavalcioni sul sedile del passeggero. «La moto non si è comportata molto bene nel bosco.»

«Allora faresti meglio a partire alla svelta. Quella che stanno guidando loro è fatta apposta per questo bosco.»

«Pensi di farcela?»

«Metti in moto e partiamo, fratello.»

Pose la mano destra sulla spalla di Matt e gli afferrò la camicia, il braccio sinistro stretto al petto per immobilizzarlo. Matt teneva nelle borse della Vulcan e della Harley un kit d’emergenza, ma questo non era il momento di giocare al dottore. Avviò il motore e cominciò lentamente a ripercorrere la strada che aveva preso deviando dal sentiero. Nel giro di pochi secondi udirono più forte il rumore del motore dietro di loro a sinistra. Era impossibile che riuscissero a svignarsela.

«Vai!» ordinò Lewis. «Non preoccuparti per me. Ce la farò. Vai da quella parte. È più corta.»

Matt accese gli abbaglianti e mise il piede sulla leva del cambio. Non aveva mai provato la Kawasaki fuoristrada, ma ora era il momento di farlo. Girando leggermente l’acceleratore, la Vulcan balzò in avanti nella fitta boscaglia. I successivi quattrocento metri furono spaventosi. Guidò a una velocità tra i trenta e i cinquanta, prestando attenzione solo agli alberi più grandi e fendendo il sottobosco a fatica. La Vulcan rimbalzava senza pietà su radici e pietre. Parecchie volte ebbe l’impressione che Lewis stesse per essere sbalzato a terra, ma in qualche modo l’uomo riuscì sempre a riprendere la presa e a tenersi avvinghiato a lui. I rami sbattevano contro la visiera di Matt e gli strappavano la pelle già escoriata. Più di una volta si trovarono a volare e ad atterrare poi con sufficiente velocità da rimanere ritti. Dopo una serie di sobbalzi che per poco non fecero sfuggire a Matt la moto, uscirono dal bosco e imboccarono il sentiero che si allontanava dalle colline. Matt ridusse per un attimo la velocità e nel silenzio si sentì solo il regolare tamburellamento del suo motore. «Stai bene?» chiese.

«Basta che mi porti alla fattoria», grugnì Lewis. «E non mi invitare più a fare altri giretti.»


Dopo pochi mimiti dal loro arrivo alla fattoria, i fratelli di Lewis erano già in azione. Kyle spinse la motocicletta di Matt nel fienile, prese il kit d’emergenza dalla borsa, quindi nascose la moto sotto un telone. Frank aiutò Matt a stendere Lewis su un divano sbrindellato nel grande e ingombro soggiorno. Sopra di loro, una balaustra correva lungo il corridoio del secondo piano, dirimpetto a numerose porte. Matt vide Lyle aprire lassù un armadio ed estrarne ogni genere di fucili, pistole e addirittura due armi semiautomatiche. «Che cosa sta facendo?» domandò. «I miei familiari sono dei bastardi molto abili», rispose Frank in tono piatto, indicando l’arsenale, «Non amiamo correre rischi.»

Matt usò un paio di cesoie per tagliare la camicia inzuppata di sangue di Lewis. Kyle tornò, pose la cassetta del pronto soccorso accanto al divano, poi andò in cucina e tornò con un vasetto senza etichetta mezzo pieno di una sostanza appiccicosa, densa, pungente, color beige. Spalmò quell’unguento sul viso di Lewis e tolse il nero altrettanto pungente. Sotto la mimetizzazione, Lewis era pallido e tirato. Guardò Matt e lesse i suoi pensieri.

«Niente ospedale.»

Matt si aggiustò lo stetoscopio attorno al collo e s’inginocchiò accanto a Lewis.

«Per favore, procuratemi una scodella d’acqua calda», chiese. «Metteteci dentro del sapone, se ne avete, del sapone per stoviglie andrebbe meglio. E un asciugamano pulito.»

I fori del proiettile, per nulla aiutati dalla corsa attraverso il bosco, erano quasi del tutto coagulati, anche se il sangue fluiva ancora dal bordo della ferita d’uscita. Matt pose le mani sulla schiena di Lewis e le osservò mentre l’uomo inspirava. La parte destra si muoveva decisamente più della sinistra. Lo auscultò con lo stetoscopio e il suo sospetto venne confermato. Parte del polmone perforato di Lewis si era afflosciata. Infilò sul braccio destro di Lewis l’apparecchio per misurare la pressione e lo gonfiò per chiudere l’arteria brachiale che correva sotto la curvatura del gomito. Auscultando sopra l’arteria con lo stetoscopio, sgonfiò lentamente il bracciale, finché non sentì il sangue riprendere a pulsare attraverso il vaso. Il suono indicò il valore più alto della pressione sanguigna di Lewis, 110, equivalente alla forza necessaria per alzare una colonna di mercurio a 110 millimetri. La situazione avrebbe potuto essere peggiore, decisamente peggiore.

«Lewis», cominciò a spiegare, «il tuo polmone è collassato. L’unico modo che ho per rimetterlo in funzione è infilarti una sonda nel torace. E l’unico posto in cui posso farlo è l’ospedale.»

Lewis scosse la testa cupamente e distolse lo sguardo.

«D’accordo, d’accordo», accettò Matt. «Farò quello che posso. Frank, sopra c’è una stanzetta con un letto. Voglio che la ripuliate e che mettiate sul letto le lenzuola più candide che avete e anche due cuscini con federe pulite. Capito?»

«Dammi dieci minuti», rispose Frank.

«C’è dell’altro. Avrò bisogno di un paio di pinze puntute come un ago.»

«Ne abbiamo una.»

«E un tubo in plastica del genere che usate per travasare benzina.»

«Abbiamo anche quello.»

«Bene. Per ultimo, avrò bisogno di un guanto di gomma dalla cassetta del pronto soccorso.» Gemette. «Maledizione, non importa. Avevo tirato fuori i guanti e li avevo messi nello zaino. Senti, per quello che devo costruire, un profilattico andrà ancora meglio. Sai cosa intendo, un preservativo. Uno di voi può correre in città e portarmi una confezione da tre?»

Per un attimo cadde il silenzio, poi Lyle disse: «Ne ho qui un paio».

Matt fissò ogni fratello, mentre Lyle andava in camera da letto. Se gli Slocumb pensavano che vi fosse qualcosa di strano, con la loro espressione calma lo mascheravano bene. Sorridendo senza denti ma con orgoglio, Lyle gli porse i due preservativi. L’incarto era stropicciato ma intatto.

«Non voglio sapere nulla», borbottò Matt a nessuno in particolare. «Non voglio sapere nulla.»

In attesa che tutto fosse pronto, Matt permise a Kyle di spalmargli una sostanza appiccicosa sulla faccia.

«Uh, questa roba brucia!»

«Mi sa che hai bisogno di un rasoio nuovo, dottore», scherzò Kyle.

Appena la stanza al piano di sopra fu pronta, Lewis venne portato su. Respirava a fatica e il suo colorito si era fatto più scuro. Matt aveva letto come si eseguiva l’inserzione di una sonda nel petto in un manuale sugli interventi d’emergenza. La maggior parte dei metodi descritti da un ex portaferiti in Vietnam erano fantasiosi. Alcuni, come la toracotomia d’urgenza per l’inserzione della sonda che stava per effettuare, erano decisamente spettacolari. L’elemento principale era il profilattico. Dopo averlo srotolato e avergli tagliato via la punta, avrebbe usato del nastro adesivo per attaccare la base del preservativo all’estremità del tubo da travaso che spuntava dal petto. Il floscio tubicino in lattice avrebbe funzionato perfettamente da valvola unidirezionale, lasciando uscire l’aria dalla cavità polmonare senza farne entrare. Le dita di un guanto in gomma avrebbero forse funzionato, ma non altrettanto bene e di certo non in modo tanto pittoresco.

Le lenzuola sul letto al piano superiore, con uno scolorito motivo floreale, erano sorprendentemente pulite, e odoravano anche di pulito. Dieci minuti di bollitura avevano eliminato benzina e altre sostanze contaminanti dal tubo di travaso lungo un metro e venti, e largo sei millimetri e dalla pinza appuntita. La cassetta del pronto soccorso era completa e includeva anche un visore d’ingrandimento, filo di sutura, potenti antibiotici iniettabili e Xylocaina, un anestetico locale. Matt pulì i fori del proiettile, li spalmò di pomata antibiotica e li ricoprì con garze. Utilizzò quindi la Xylocaina per rendere insensibile la zona sopra e sotto la ferita d’uscita.

«Lewis», spiegò Matt, «cercherò di addormentare questa zona quanto più posso, ma farà ugualmente male.»

«Più o meno di quando sono stato colpito?»

«Bella domanda.»

Usò un bisturi per forare la pelle resa insensibile, quindi tagliò un’estremità del tubo a punta.

«Trai un profondo respiro, Lewis, poi trattienilo e rilassati», disse. «Ecco, ora!»

Stringendo il più possibile l’estremità del tubo nella pinza dal becco appuntito, introdusse la pinza finché non la sentì toccare la costola. La fece poi scivolare dietro la costola, la spinse attraverso il muscolo intercostale fin nello spazio creatosi quando il polmone era collassato. Lewis, la fronte madida di sudore, gridò dal dolore, poi giacque immobile. Matt ritirò la pinza, lasciando il tubo nel torace. Per alcuni secondi ci fu un totale silenzio, poi, appena l’aria lo attraversò con una certa forza, il profilattico iniziò a palpitare.

Lewis rimase immobile, gli occhi chiusi, il respiro regolare, esausto. Matt attese per parecchi, silenziosi minuti, quindi gli auscultò il torace. Il polmone non si era ancora dilatato completamente, ma si udivano rumori respiratori dove poco prima non ve ne erano. Si chiese quanti altri avessero realmente impiegato una delle tecniche del manuale di pronto soccorso. Un giorno, a patto che lui e Lewis fossero sopravvissuti a questa prova, avrebbe scritto una lettera all’autore.

Dopo avere infilato venticinque centimetri di tubo nel petto di Lewis, lo fissò con una sutura e medicò l’apertura. Lo auscultò di nuovo. Altri suoni respiratori indicarono che il polmone si era ampliato ancora di più.

«Allora?» domandò Frank.

Matt iniettò a Lewis una grossa dose di antibiotico.

«Ecco», rispose, un accenno di stupore nella voce, «questa dannata cosa sembra abbia funzionato, almeno per il momento. Porterò via di nascosto dall’ospedale dell’ossigeno e altre cose che mi servono, e tornerò appena posso.»

Il colorito di Lewis era migliorato di colpo e lui aprì gli occhi.

«Sapevo che avevamo fatto bene a darti quei soldi quando hai bussato alla nostra porta per la colletta per la tua squadra di baseball.»

«Ti facciamo colpire da un proiettile, ti rimettiamo a posto», scherzò Matt. «È questo il nostro motto.»

Era ancora stupito dal fatto che quella tecnica, appresa leggendo seduto sul water, gli avesse permesso di salvare una vita. Che cosa avrebbe detto la banda di Harvard?

«Ehi, dottore?» domandò Lyle.

«Sì?»

«Se non hai intenzione di usare l’altro preservativo, posso riaverlo?»


Lynette Marquand si vantava di essere, e sono parole sue, precisa, puntuale e prevedibile. In compagnia di persone giuste avrebbe aggiunto, con una strizzatina d’occhi, appassionata. Per cinque giorni alla settimana, a meno che non fosse in vacanza, si alzava alle quattro e mezzo del mattino ed era nel suo ufficio, nell’ala destra della Casa Bianca, alle cinque. Al sabato dormiva fino alle sei, e alla domenica fino alle sette, a meno che suo marito non avesse bisogno del suo affetto prima di fare colazione e andare a messa. Questo mercoledì mattina, una giornata piovosa in tutto il distretto di Columbia, nel suo libro degli appuntamenti era annotato un solo nome, quello della dottoressa Lara Bolton.

Lynette provava solo sentimenti tiepidi verso quasi tutti i ministri di suo marito, ma la Bolton faceva eccezione. Alta più di un metro e ottanta, nera, il ministro della Sanità e dell’assistenza umanitaria era stata rappresentata da più di un vignettista politico come una cicogna e, con il suo stretto accento bostoniano, era un facile bersaglio per gli imitatori del Saturday Night Live.

Lara Bolton, come sempre in tailleur blu scuro, bussò ed entrò nell’ufficio di Lynette alle cinque e un quarto precise.

«Ebbene, Lara» esordì Lynette dopo che il ministro si era versata una tazza di caffè decaffeinato da una caraffa, «il mio staff ha una persona in meno.»

«Hai fatto la cosa giusta. Janine Brady ha partecipato a lungo a questo gioco. Non è tanto sprovveduta da garantire che una votazione sarà unanime senza avere controllato e ricontrollato.»

«E così, come siamo messi ora?»

«Sembra che Ellen Kroft abbia dei seri dubbi sull’Omnivax.»

«Dannazione.»

«È la rappresentante dei consumatori, per cui è impossibile che uno qualsiasi dei nostri sovvenzionatoli farmaceutici possa esercitare su di lei una pressione qualsiasi.»

«Era stato consultato uno dei miei prima che venisse designata?»

«Odio dirlo, ma era stata consultata proprio Janine Brady. Ma, Lynette, lo sono stata anch’io. La Kroft sembrava assolutamente innocua, un simbolo offerto dalla gente del PAVE. Nessuno di noi si aspettava una cosa simile.»

«E allora?»

«Il nostro uomo nel comitato, Poulos, mi ha detto che si sta occupando del problema. Ritiene che si possa fare qualcosa.»

«Varrebbe la pena che la incontrassi io?»

«Puoi provarci, ma ho saputo che ha dato un contributo di cinquanta dollari per la campagna elettorale di Harrison e che questa volta lo ha aumentato a settantacinque.»

«Oh, fantastico. Negli ultimi sondaggi siamo sotto di tre punti. Jim conta molto sull’Omnivax per risalire. E qui abbiamo una fautrice di Harrison che minaccia di mandare tutto a monte.»

«Se la Kroft non cambiasse idea, daremmo a tutta la faccenda un aspetto politico, dato che lei è una ben nota sostenitrice di Harrison.»

«Questo non ci ridarà i tre punti.»

«Lo so.»

«Che cosa mi dici dei nostri programmi per la prima inoculazione?»

«Ci siamo, Lynette. Abbiamo due donne qui a Washington che dovrebbero partorire al momento giusto, per cui i neonati avranno quattro giorni di vita quando noi saremo pronti. Entrambe sono in cura presso il centro sanitario locale di Anacostia ed entrambe sperano che i loro figli siano i primi a ricevere l’Omnivax.»

«Gravidanze normali?»

«Nessun problema.»

«Conosciamo il sesso dei nascituri?»

Lara Bolton sorrise. «Gentile first lady, avevi detto che volevi una bambina; qualsiasi mamma sceglieremo, avrai la tua bambina.»

«Sarà un grande spettacolo, Lara. Ascoltami bene, ci sono tre punti in gioco in questa faccenda, forse più.»

«Forse più», ripeté il ministro.

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