33

Il petto di Matt cominciò a bruciare: la prima sensazione di mancanza d’aria, dopo appena quindici o venti secondi sotto la superficie di quell’acqua gelida e nera come la pece. La sua sghemba nuotata divenne ancora più scoordinata. Temendo di sbattere contro il soffitto della sua tomba, se avesse cercato di emergere, avanzò per altri venti secondi. Il fuoco nei polmoni stava diventando insopportabile. Atterrito, allungò le braccia sopra la testa. Le mani emersero dall’acqua, ma, quasi immediatamente, con i gomiti ancora piegati e i piedi che rasentavano il fondo, le dita toccarono la roccia. C’era uno spazio d’aria sopra di lui, anche se non poteva dire quanto ampio.

Lottando contro una sensazione orribile, asfissiante, si strinse il naso, inclinò il più possibile all’indietro la testa e si tirò su. Il volto era all’altezza dell’avambraccio quando emerse. Non c’era abbastanza spazio per mettersi eretto, ma ben dieci, dodici centimetri d’aria. Con la fronte contro la roccia, inspirò per cinque o sei volte aria pesante e viziata. Si abbassò, lasciando emergere solo gli occhi dalla superficie dell’acqua e lentamente si girò di centottanta gradi. L’oscurità alle sue spalle era profonda e assoluta. Difficilmente Nikki ed Ellen si erano già allontanate dal ponte, per cui o lui aveva nuotato più lontano di quanto avesse creduto, oppure il fiume aveva svoltato in modo deciso. L’acqua fredda gli scorreva lungo il viso. Si girò di nuovo, per avere la corrente dietro, quindi si inclinò per poter respirare ancora una volta.

Pur tenendo ben chiuso il naso e la fronte premuta contro il soffitto, l’acqua gli entrò ugualmente in bocca, rendendogli difficile respirare con continuità. Dita di panico, infinitamente più fredde dell’acqua, gli strinsero la gola. Era vivo, ma quasi immobilizzato dalla paura. La sensazione opprimente e claustrofobica era peggiore di quanto avesse previsto, molto peggiore. Era assolutamente impossibile continuare. Doveva tornare, tornare dove avrebbe potuto drizzarsi, dove ci sarebbe stato più spazio per respirare, dove c’era Nikki. Tentò, senza riuscirci, di girarsi, ma sembrava avere perso ogni energia.

La corrente, sebbene non forte, continuava a spingerlo verso valle, sollevandogli i piedi dal fondo e trascinandolo sott’acqua. A fatica riusciva a incunearsi tra il fondo sassoso e il soffitto della galleria, e solo per una decina di secondi alla volta prima che la corrente la spuntasse. Consapevole quasi soltanto della sua tremenda impotenza, continuò a galleggiare. Un affioramento di roccia gli colpì la mano e la fronte con una forza sorprendente, stordendolo momentaneamente. Le pareti del canale gli graffiarono le braccia. L’energia spesa per tenersi nella posizione giusta lo fece ben presto ansimare.

Non ce la faceva più.

Doveva mettersi in posizione eretta.

Maledizione a te, Grimes.

Matt si fece forza e chiuse gli occhi. La vista qui era in ogni caso inutile. Si calmò un poco immaginando che poco più avanti ci fosse una caverna… una grande caverna… un sacco di aria… spazio per muoversi… spazio per girarsi e stare in piedi… spazio per pensare.

Lentamente, con la testa che toccava il soffitto, abbassò bocca e naso sotto la superficie dell’acqua e fece un passo verso valle… poi un altro, e un altro ancora. Sentì il battito rallentare e i pensieri mettersi a fuoco. Le dita ghiacciate allentarono la presa. Ogni sei o sette passi, si fermava per inclinare la testa e inspirare alcune boccate d’aria. Imbaldanzito, si tuffò sotto la superficie dell’acqua e fece alcune bracciate a rana. Questa volta, però, quando emerse, riuscì a drizzarsi ancora meno di prima e lo spazio d’aria si era ridotto della metà, cinque, sette centimetri al massimo. Riuscì a inspirare un paio di boccate prima che la corrente lo spingesse di nuovo avanti. Un altro metro e lo spazio scomparve del tutto. Con poca riserva d’aria nei polmoni, si lasciò cadere, si mise in posizione orizzontale e iniziò a nuotare, questa volta disperatamente e con tutte le sue forze. Per due volte cercò di infrangere la superficie, per due volte trovò solo roccia.

Era la fine.

La corrente ora era aumentata e la turbolenza un problema in più. Freneticamente, artigliò l’acqua agitata, cercando di stabilizzare il corpo. I polmoni erano di nuovo in fiamme e ogni battito cardiaco un proiettile che gli scoppiava nel cranio. Ebbe l’impressione che le pareti della galleria si unissero, tirandolo mentre precipitava tra loro.

Non respirare!… Resisti!…

Nel momento in cui dovette inalare, la sua faccia emerse dall’acqua. Tra colpi di tosse e conati di vomito, lottò per adattarsi alla corrente che si era fatta ancora più forte, tentando di mantenersi eretto mentre inalava un po’ di quell’aria densa che proveniva da quella che pensò fosse una piccola grotta o addirittura una caverna. La debolezza e la tosse gli resero impossibile riprendere il controllo.

Il fiume si era allargato ed era diventato più basso. Profondo non più di novanta centimetri, scorreva agitato a grande velocità attraverso uno spazio nero. Matt cercò di raggiungere la riva destra, ma l’acqua ribolliva attorno a lui, tirandolo sotto, per poi capovolgerlo come una bambola di pezza. Per due volte sbatté contro le rocce che spuntavano dal fondo. Nel corso degli anni, aveva percorso su gommoni da rafting alcuni fiumi del West Virginia, attraversando decine di rapide a forza di remi o nuotando. L’obiettivo era sempre stato quello di evitare i massi e la tecnica di nuoto richiedeva di avanzare con i piedi in avanti, in una posizione mezzo seduta, usando le braccia come remi. Urtando continuamente le rocce, cercò di assumere quella posizione, ma nel buio, senza alcun indizio visivo e senza nulla che lo avvertisse che si stava avvicinando a un masso, era molto difficile.

Sputacchiando acqua inspirata, scivolò impotente lungo una ripida scarpata. Il fiume ribollente e vorticoso sembrava scorresse sempre più in verticale e ora sentì un rombo echeggiare dalla roccia, il rombo dell’acqua che precipitava. Continuò a ruzzolare, sbattendo contro il fondo roccioso e i massi. Le braccia, che usava per riparare testa e faccia, stavano subendo uno spaventoso bombardamento. Non aveva più fiato, stava perdendo i sensi e i polmoni si stavano riempiendo d’acqua. All’improvviso, ciò che era stato un pendio, divenne un salto. Senza peso e lanciato in aria, volò oltre il precipizio. Atterrò malamente e con grande forza nella bassa pozza in fondo. Scagliato in avanti, colpì con la fronte una roccia frastagliata. Il dolore gli esplose nel cervello.

Un attimo dopo, il nulla.


Per quindici minuti, Nikki ed Ellen rimasero in silenzio vicino al ponte, una lanterna puntata sull’apertura dove il fiume abbandonava la grotta.

«Ho paura per lui», disse infine Nikki.

«La capisco. Sta facendo una cosa veramente coraggiosa.»

«Soffre di claustrofobia. Me lo ha detto lui stesso.»

«Il fiume deve uscire da qualche parte. Ce la farà.»

«Lei non capisce!»

Ellen le cinse le spalle.

«Mi scusi. Stavo solo cercando di essere ottimista. So quanto questo debba essere terribile per lei. E lo è anche per me.»

«Mi scusi.»

«Nikki, ciò che Matt ha deciso di fare è giusto. Entrambe sappiamo che, per come stanno le cose, qui non abbiamo molte possibilità. Aspetterò un paio d’ore, poi, se non succede niente e non riusciamo a escogitare nulla di meglio, cercherò di uscire di qui, forse seguendo il fiume a monte. È pronta per tornare a visitare gli altri?»

Nikki scrutò la stretta fessura tra la superficie del fiume e il soffitto della galleria. La luce della lanterna fece scintillare l’acqua, poi svanì nell’oscurità. Riluttante, prese la lanterna e pose un braccio sulle spalle di Ellen. La caviglia le doleva al minimo movimento, ma non le importava. Aveva sempre sopportato bene il dolore.

«Lei è una brava persona», disse, saltellando verso Colin Morrissey.

«Come lei», replicò Ellen, il braccio attorno alla vita di Nikki. «Come lei.»

La ragazza, i capelli biondicci appiccicati e sporchi, era seduta accanto a Morrissey e gli accarezzava la mano. Nikki rabbrividì nel vedere i fibromi che deformavano quello che una volta era stato un bel volto. Morrissey, il cui viso era ancora più sfigurato di quello della ragazza, era ancora privo di sensi e respirava a fatica. Lo stridore, il segnale che almeno un po’ di aria passava, era ridotto a un sibilo appena udibile.

«È morto», disse la ragazza con voce distante e cantilenante, priva di emozione.

«No. No, non è morto», ribatté Nikki, inginocchiandosi vicino a lui. «Mi chiamo Nikki. Sono un medico. Questa è Ellen. Insegna in una scuola. Tu come tu chiami?»

«Sara Jane Tinsley. Lo aiuterà?»

Nessuna paura, nessuna ansia, nessuna domanda su ciò che le era successo o sulla loro attuale situazione. Nikki decise di non toccare l’argomento, a meno che la ragazza non ponesse domande dirette. Era evidente che in lei stavano agendo choc e rifiuto della realtà, oltre all’effetto residuo della droga che le avevano dato, quale che fosse, e forse anche del morbo spongiforme che le stava distruggendo il cervello.

Tanto meglio, pensò Nikki. Meno la ragazza era consapevole della loro situazione, meglio era.

«Ci proverò, Sara Jane», rispose.

«Io credo che sia morto, morto, morto.»

«No, vedi, sta fes…»

Nikki si bloccò a metà frase. Il sibilo di Morrissey era scomparso. La gola contusa e gonfia si era infine chiusa del tutto. Controllò il polso, che era più debole di prima, ma ancora presente. Da quel momento fino all’irreparabile danno cerebrale, aveva tre o quattro minuti per scavalcare l’ostruzione e fornire di ossigeno il sangue circolante. Combattuta, esitò, la sua mente sembrava incapace di scordare la probabilità che Morrissey avesse già una irreparabile, progressiva malattia cerebrale.

Rapidamente, tuttavia, quel pensiero svanì di fronte al ricordo di Kathy Wilson e Hal Sawyer, di Joe Keller e dei minatori morti e degli altri casi di sindrome di Belinda di cui Grimes e la sua banda si erano di certo già occupati. Di colpo, tutta la sua ira, tutta la sua frustrazione e la sua paura si concentrarono su quel giovane, che non aveva fatto altro che fare ciò che il suo medico e sua madre gli avevano consigliato un decennio prima.

Colin Morrissey non sarebbe morto, lei l’avrebbe impedito!

Silenziosamente, Nikki imprecò contro se stessa per non essersi preparata in anticipo per una tracheotomia d’emergenza. Era stata troppo presa dalla sua situazione e dal dolore per pensare con chiarezza e forse era stata influenzata anche dalla certezza che quella malattia incurabile che pensava stesse distruggendo il cervello dell’uomo fosse senza speranza. Ricordò a se stessa che il senno di poi era sempre inutile. Quello che era successo, era successo. Quello che doveva affrontare ora era questo momento.

«Ellen, devo assolutamente fargli entrare un po’ d’aria. Avrò bisogno del suo aiuto.»

«Mi dica solo cosa devo fare.»

Nikki inclinò all’indietro la testa del giovane, raddrizzandogli la trachea. Morrissey reagì con un unico, sorprendentemente efficace respiro, riguadagnando i preziosi secondi che aveva perso dall’ultimo. Nella mente di Nikki, l’orologio di quattro minuti venne riazzerato.

«La prego di tenergli la testa in questa posizione», disse. «Ha per caso una penna o qualcosa di vuoto?»

«Temo di no.»

«Sara Jane, ora farò alcune cose per aiutare quest’uomo, se posso. Potrà sgorgargli sangue dal collo.»

«Ho già visto sangue», ribatté la ragazza, guardandosi in giro come se fosse la prima volta.

Non c’era più tempo per le spiegazioni. La pelle sopra la clavicola di Collin Morrissey si stava traendo all’indentro mentre i polmoni si sforzavano inutilmente di inspirare aria. Nikki agguantò la prima cassetta di pronto soccorso e vi frugò dentro freneticamente. Trovò lo scalpello usa e getta che aveva usato per Carabetta e un paio di forbici per bende che avrebbe potuto usare come divaricatore. Ora aveva bisogno di qualcosa di rotondo, vuoto e robusto, abbastanza largo da permettere il passaggio di sufficiente aria, ma non tanto grande da lacerare la trachea. Un ago dal foro grosso le avrebbe fatto guadagnare un po’ più di tempo, l’ideale sarebbe stato il cappuccio di una penna. Conscia del passare dei secondi, lasciò cadere tutta la cassetta sul pavimento. Una siringa da due cc, ancora nel suo involucro sterile, era sepolta sotto alcune bende.

Perfetta!

«Si comincia», esclamò.

Nikki tolse il pistone e usò le forbici per tagliare l’estremità del cilindro su cui sarebbe stato attaccato l’ago. Il tubo vuoto lungo tre centimetri e settantacinque era quanto di meglio poteva sperare d’avere.

Mentre si girava per chinarsi sulla gola pallida e gonfia di Colin Morrissey, dalla caviglia partì una fitta di dolore acuto. Ellen cercò maldestramente di sistemare la luce, mantenendo nello stesso tempo la posizione del collo richiesta da Nikki.

«Sara Jane», chiese infine, «puoi puntare la lanterna esattamente su questo punto?»

«Certo.»

«Brava. Abbiamo bisogno di te, Sara Jane. Tienila ben ferma.»

Nikki non aveva idea di quanto tempo dei quattro minuti fosse già trascorso, ma ora non poteva più fermarsi.

«Non mentre sono responsabile io», sussurrò concentrandosi. «Non mentre sono responsabile io.»

Localizzò con i polpastrelli la membrana cricotiroidea, il punto migliore per l’incisione, appena sopra la laringe di Morrissey. Se avesse sbagliato, avrebbe dovuto improvvisare. Non avrebbe comunque esitato e di certo non avrebbe combinato guai. Erano già morte almeno dodici persone per rendere Grimes e i suoi uomini ricchi. Centinaia, forse migliaia di persone erano in pericolo, fossero riusciti a immettere sul mercato il loro vaccino.

Ma non quest’uomo, non ora, almeno. Utilizzando il prezioso scalpello, tenuto parallelo agli anelli cartilaginei, incise la pelle fino alla trachea. Immediatamente traboccò del sangue schiumoso e, di riflesso, Morrissey tossì, inzaccherando la camicia e il mento di Nikki. La droga che gli avevano dato stava esaurendo il suo effetto e lui stava riprendendo conoscenza. Abilmente, senza badare al sangue, Nikki inserì le forbici nell’incisione e le divaricò per aprire il foro. Infilò poi il tubicino nella trachea. Appena il primo flusso di aria entrò nei polmoni dell’uomo, si udì un gorgoglio e un sibilo, poi, rapidamente, la sua respirazione si calmò.

Pochi minuti dopo, Colin Morrissey sollevò un braccio e sbatté le palpebre.


Trascorsero altre due ore, con Ellen e Sara Jane che si prendevano cura dei quattro pazienti. Fred Carabetta era ancora in stato comatoso, anche se sembrava reagire un po’, quando gli veniva passata con una spugnetta sul viso e sulle labbra l’acqua fredda del fiume. Sid, la guardia, giaceva lì vicino, e singhiozzava e imprecava alternativamente. Era chiaramente paraplegico e ora tristemente consapevole di quella realtà. La donna che aveva aggredito Nikki era ancora legata stretta con il nastro isolante. Dormiva quasi sempre o blaterava incoerentemente quando era sveglia. Apparentemente incurante della loro situazione, Sara Jane strisciava dalla donna a Morrissey e viceversa, confortandoli, passando la spugna bagnata sulla loro fronte, tenendo loro la mano e addirittura cantando loro qualcosa.

«Sono come me», disse, in una delle rare occasioni in cui parlò con Ellen e Nikki. «Sono proprio come me.»

Nikki aveva bloccato le mani di Morrissey con del nastro adesivo alla cintura, per impedirgli di togliersi il tubo della tracheotomia di fortuna. Ora, esausta e sempre più sofferente, si era sdraiata a terra, appoggiata a un grosso masso, la gamba rotta e pulsante sollevata su una pila di pietre. Non poteva fare altro che aspettare. Delle tremende immagini continuavano a invadere la sua mente, visioni di Matt, il suo corpo per sempre incastrato tra due rocce, gli arti che si muovevano senza vita nell’acqua nera. Per di più, l’aria dolciastra sembrava farsi sempre più densa e più difficile da respirare. Si stava già esaurendo?

Non con fracasso, ma con un pigolio… Non con fracasso…

Mentre se ne stava lì distesa, osservò con stupore Ellen che, mai ferma, si prendeva cura degli altri e parlava allegramente e con ottimismo con loro e con Sara Jane. Di tanto in tanto tornava da Nikki per rassicurarla che i suoi pazienti stavano bene e che Matt ce l’avrebbe fatta, e così pure loro. Questa volta però, Ellen non le recò un simile messaggio e, per la prima volta, la tensione era impressa sul suo viso.

«Ho intenzione di provare a risalire il fiume», disse.

«Cosa?»

«Non andrò verso valle, ma qualcosa devo fare. Sono passate quasi tre ore e temo che l’aria si stia esaurendo. Pensa di potercela fare senza di me?»

Che differenza fa? mancò poco che Nikki ribattesse ad alta voce.

«Farò ciò che posso», disse invece. «Lei non crede che sia riuscito a uscire, vero?»

Ellen si sedette accanto a lei e le prese le mani.

«Non so cosa credere, penso comunque che non possiamo starcene qui e lasciare che loro vincano. In primo luogo, entrambe abbiamo nuovi amori nella nostra vita. Voglio vedere come andrà a finire per me. In secondo luogo, entro poche ore quel vaccino diverrà lo standard di cura. I pediatri di tutto il paese sono stati istruiti dagli addetti alle pubbliche relazioni delle ditte farmaceutiche, dal presidente e da sua moglie. Non sarei sorpresa se oggi, entro il tramonto, venissero somministrate almeno duemila dosi di quella roba.»

«Ha ragione», ammise Nikki, tirandosi in piedi. «Dobbiamo tentare. Non aveva detto di essere un’ottima nuotatrice?»

«Nuoto come un pesce.»

«Aspetti che abbia saltellato fino a là. Sara Jane e io ce la caveremo benissimo.»

«Lo so.»

I pochi metri percorsi affaticarono loro la respirazione più di quanto avessero previsto. Non fu necessario alcun commento. La riserva di ossigeno stava decisamente diminuendo.

Nikki guardò Ellen aggirare la pila di legno e detriti che una volta era stato il secondo ponte e scendere in acqua. Una gran donna, pensò Nikki, coraggiosa, intelligente, con una grande capacità di recupero e gentile, proprio il genere di persona che avrebbe voluto essere a sessant’anni. L’idea di raggiungere la sessantina la fece sorridere mestamente. Erano passate parecchie ore da quando Matt se ne era andato. Era improbabile che fosse riuscito a uscire dalla montagna e ora quel poco di speranza di sopravvivenza che restava si basava su una donna che aveva quasi il doppio dei suoi anni. Ellen non avrebbe dovuto soltanto trovare una via d’uscita nuotando controcorrente, ma anche evitare Grimes e i suoi pistoleri, trovare persone che volessero e potessero aiutarla e tornare alla grotta prima che diventasse una tomba priva di aria. Le probabilità che ce la facesse erano veramente scarse.

Ma scarse non voleva dire nulle.

Con la lanterna in mano, Nikki si sedette sulla riva e aspettò. Non dovette attendere a lungo. Nemmeno cinque minuti dopo essere entrata diguazzando nel tunnel, Ellen riapparve, i piedi in avanti, a faccia in giù nell’acqua. Nikki strisciò carponi e cercò di afferrare la camicia di Ellen. Il tessuto le scivolò dalla mano. Ignorando le fitte di dolore dalla caviglia, si immerse goffamente nell’acqua e riuscì a serrare le braccia attorno alla vita della donna, un attimo prima di raggiungere il secondo ponte. Tenendola stretta, Nikki agguantò una manciata di capelli di Ellen e le tirò la faccia fuori dall’acqua. Sostenendosi al ponte, riuscì a mettere il piede buono sul fondo. Il fiume le arrivava fin sotto il mento.

Centimetro dopo centimetro, attingendo a una riserva di forza che la sorprese, Nikki spinse Ellen fin sul ponte, dove l’anziana donna giacque supina, le gambe penzoloni nell’acqua. Poi, gridando dal male, si tirò sulla riva e strisciò verso Ellen. Una sola pressione su entrambi i lati della schiena fece uscire la maggior parte dell’acqua che aveva nei polmoni. Una seconda compressione ed Ellen ricominciò a respirare da sola, sputando e tossendo automaticamente. In meno di un minuto riprese i sensi. Per un po’ rimase lì distesa, con il petto che si sollevava.

«Rocce», spiegò infine. «La galleria è bloccata da rocce.» Trascorse un altro minuto, prima che riuscisse a parlare di nuovo. «Ho… ho cercato di smuoverle… il piede si è incastrato… non riuscivo a liberarmi… l’acqua mi è entrata in…»

«Calma», l’interruppe Nikki, cullandole la testa in grembo. «Si calmi. Ci ha provato. Ora si rilassi e riprenda fiato. Sono felice che sia riuscita a tornare.»

Ellen riuscì a mettersi in piedi, espellendo ancora acqua del fiume con violenti colpi di tosse, solo dopo parecchi minuti.

«Mio Dio, è stato terribile», esclamò. «Le pietre mi sono crollate addosso. Non riuscivo a liberare la gamba.»

Nikki si tirò in piedi aiutandosi con la ringhiera del ponte. Le due donne, inzuppate e tremanti, si abbracciarono, poi Ellen si staccò.

«Dove va?» domandò Nikki.

«Su quella pila di sassi», rispose Ellen, indicando ciò che rimaneva dell’entrata che avevano usato Nikki e gli altri. «Mandi qui Sara Jane, mi aiuterà a smuovere parte di questa roba.»

Nikki stava per protestare, poi scrollò le spalle e annuì.

Aspettare senza fare nulla non era diverso dall’aspettare dandosi da fare.

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