25

Matt e Nikki fecero colazione al Pancakes On Parade sulle rive del Susquehanna. Difficilmente un ristorante per famiglie era romantico, eppure questo, con la grande veranda posta su alti pali sopra il fiume, lo era. Ma che dire, quel particolare mattino, i due avrebbero trovato ricco d’atmosfera qualsiasi McDonald o Burger King. Per più di un’ora non parlarono assolutamente di Bill Grimes, di encefalopatia spongiforme o della Belinda Coal Coke. Stettero invece con le punte delle dita unite, con i pollici allacciati, risero fino alle lacrime su sciocche o imbarazzanti storie della loro vita e si rammaricarono per quelle tristi. Grace, la robusta cameriera che serviva al loro tavolo, la gomma americana in bocca, chiamò Matt ‘Battitore’ e Nikki ‘Tesoruccio.’ Dopo che per la terza volta vide che non erano ancora pronti per ordinare, non avendo neppure scorso il menu, portò loro dei lecca-lecca a forma di cuore e un conto di due dollari per smancerie in pubblico.

«È passato molto tempo da quando ho fatto smancerie», commentò Matt. «A parte forse quella volta, un paio di anni fa, quando ho abbracciato i miei compagni durante una partita di pallacanestro.»

«Gli uomini di Boston sono troppo raffinati per lasciarsi andare a svenevolezza», osservò Nikki. «Discutono invece di allunaggi e del telescopio Hubble.»

In una rientranza vicino alle toilette vi era un telefono a gettoni. Prima che Grace portasse loro ciò che avevano ordinato, Matt chiamò suo zio all’ospedale. «Ciao, zione, sono Matt.»

«Ehi», lo salutò Hal, «come va? Saputo nulla di quella tua paziente?»

«In verità non va troppo bene. E sì, Nikki Solari è sana e salva. È qui con me in Pennsylvania. Hal, sta succedendo qualcosa di molto strano e pericoloso. Deve avere a che fare con quei casi bizzarri.» «I minatori?»

«Loro e la ragazza che è morta, Kathy Wilson. E Bill Grimes c’è proprio in mezzo.»

«Secondo me Grimes è un tipo viscido e affamato di potere», ammise Hal, «ma non è cattivo.»

«Zio, credimi, è malvagio.»

Hal Sawyer ascoltò pazientemente il resoconto di Matt del rapimento di Nikki e del successivo salvataggio e delle informazioni ricevute quel mattino su ciò che era stato scoperto nel cervello di Kathy Wilson.

«Encefalopatia spongiforme», ripeté Hal, quando Matt ebbe terminato di parlare. «Perbacco, non avere scoperto una cosa simile mi mette decisamente in imbarazzo.»

«Non c’è motivo. Il cervello della Wilson sembrava normale, proprio come ritengo fossero quelli dei nostri due casi. Non ci si sarebbe aspettato da te uno studio microscopico sui loro cervelli. Questo patologo di Boston l’ha eseguito solo dietro insistenza di Nikki.»

«Pensi ancora che la colpa sia della miniera?»

«Ne sono sicuro. Non conosco l’esatto legame tra ciò che hanno fatto e la malattia spongiforme, ma so che in qualche modo ne sono la causa e Grimes prende di certo bustarelle da loro. Che dovremmo fare, secondo te?»

Hal rifletté per un po’.

«Ritengo che il primo passo sia mostrare a qualche persona autorevole quella tua discarica tossica.»

«Sono d’accordo.»

«C’è un uomo, Fred Carabetta, all’OSHA di Washington, l’ente per la sicurezza e la salute sul lavoro, che mi deve un favore per una perizia che ho fatto per lui alcuni anni fa. La cosa migliore sarebbe chiamarlo reclamando il mio credito e portarlo con noi in quella discarica. Una volta riusciti a convincere un agente dell’OSHA, potremmo avviare pressioni legali contro la BC C.»

«Se quel deposito è ancora là.»

«Questo, nipote, sai bene che non possiamo controllarlo. È la regola numero due del tuo Manuale della Gioventù…»

«… del Padrino. Lo so, lo so. Regola numero uno: il ‘non si può’ non esiste. Regola numero due: se non puoi controllare qualcosa, non lasciare che sia essa a controllarti.»

«Bravo. Sono orgoglioso che tu non abbia dimenticato le regole del manuale dopo tutti questi anni.»

«Solo perché me le declami tutte le volte che ne hai l’occasione.»

«Sono felice, allora, che tu mi abbia sempre prestato attenzione. Senti, Matt, vedrò cosa posso fare con Fred Carabetta. Come posso mettermi in contatto con te?»

«Telefona a casa mia e lascia un messaggio sulla mia segreteria telefonica. La controllerò spesso e ti richiamerò immediatamente.»

«E io chiamerò anche quel coroner di Boston. Forse mi dirà qualcosa su quello speciale colorante che ha usato.»

«Ti sono rimasti dei tessuti dei due minatori?»

«Credo di sì.»

«Per favore, non parlare con nessuno di Grimes, finché non avremo la possibilità di parlare tra noi, d’accordo? È più pericoloso di quanto credi.»

«Se sei tanto sicuro, perché non vai semplicemente alla polizia a denunciarlo?»

«Nikki vorrebbe farlo, ma sono riuscito a dissuaderla, per ora almeno. Da ciò che ho sentito, la polizia è una confraternita molto unita. Nessun poliziotto ci ascolterebbe né correrebbe subito a Belinda per sbattere Bill Grimes contro il muro a braccia in alto e gambe larghe. E, una volta usciti all’aperto, lui ci avrà nella sua rete nonostante ciò che dichiariamo. Per ora, preferirei aspettare.»

«D’accordo, come vuoi. Ma sii prudente. Ti telefonerò di nuovo più tardi. A proposito, questa mattina sono andato a trovare tua madre. Sta peggiorando.»

«Lo so. L’ho vista ieri per alcuni minuti. Non ci vorrà molto prima che abbia bisogno di assistenza totale. Me ne occuperò quando questa faccenda sarà sistemata. Senti, Hal, grazie per il tuo aiuto, con mia madre e con questa storia.» «Sei sulla pista giusta, Matt, ne sono certo.» «Anch’io, zione. Anch’io.»

Nikki diede alle frittelle un bell’otto. Matt sostenne di avere divorato la sua omelette spagnola troppo rapidamente per poterle dare un punteggio. Lasciò a Grace una mancia che era il doppio del prezzo della colazione e un biglietto in cui la ringraziava per avere presieduto le loro smancerie mattutine.

«Sai cosa mi conforta veramente?» chiese mentre si dirigevano alla Harley. «Sono realmente felice che quei tipi non ti abbiano uccisa.»

«Ehi, sai proprio cosa dire a una ragazza, romanticone. È bello sapere che abbiamo qualcosa in comune. Anch’io sono felice che non mi abbiano uccisa.»

Si allungò sopra la moto e lo baciò tanto intensamente da guadagnarsi un colpo di clacson da un camionista che passava. Si era appena staccata da lui che sentirono alcune timide gocce di pioggia. Quindici minuti più tardi stava piovigginando intensamente. Matt trovò uno spaccio Wal-Mart alle porte di York e acquistò con la carta Visa impermeabili per entrambi, ma, per le successive cinque ore, il viaggio proseguì lento e disagevole. Pensarono anche di fermarsi da qualche parte per la notte e proseguire l’indomani, ma Nikki non vedeva l’ora di arrivare a casa. Quando le nuvole si diradarono, erano ancora a parecchie ore da Boston, essendo stati rallentati dal traffico dell’ora di punta attorno a New York. Alle nove Nikki chiamò lo studio per avvisare Joe Keller che erano in ritardo e che non sarebbero arrivati prima delle undici, ma nessuno rispose.

«O è alle prese con un’autopsia o è andato a cena», commentò Nikki. «Non avrei dovuto dirgli quando saremmo arrivati, non ci avrebbe aspettati, ma, avendoglielo detto, sono certa che sarà là.»

Matt sfruttò quella pausa per chiamare la sua segreteria telefonica. Vi erano due messaggi. Il primo, di Mae, riferiva che non si era saputo nulla della sua paziente, la dottoressa Solari, e che lei era preoccupata non avendolo sentito tutto il giorno e sperava che stesse bene e che la sua assenza non fosse causata da nulla di più grave del comportamento stravagante che aveva manifestato ultimamente. Il secondo messaggio era di Hal.

«Buone notizie, Matt. Non fantastiche, ma buone. Fred Carabetta non vuole impegnarsi in alcuna azione concernente la miniera, ma sarà lieto di incontrarci nel suo ufficio. Domani alle tre del pomeriggio. Al 200 di Constitution Avenue. Ovunque tu sia, spero riesca a farcela. Chiama e conferma.»

Matt lasciò un messaggio sulle segreterie telefoniche dello zio a casa e in ufficio, dicendo che ci sarebbe stato, quindi ne lasciò uno sulla sua segreteria telefonica per Mae, dichiarando che stava bene e che si sarebbe messo in contatto con lei. Dopo avere agganciato, raccontò tutto a Nikki.

«Domani riporterò la motocicletta a Washington», concluse. «Vuoi venire con me?»

«Accumuli dei punti per i chilometri su questo coso?»

«Il doppio andando a Washington. È uno shuttle.»

«Grazie. Voglio realmente stare con te, ma per il momento penso di dover rimanere qui. In primo luogo, ho l’impressione che il mio corpo non accetterebbe altri strapazzi; in secondo luogo, questo mio lavoro di fare a pezzi gente defunta è ben pagato, ma solo se lo faccio. È quello che dice il mio contratto.»

«Capisco. Tornerò appena avrò concluso questa faccenda con la miniera.»

Erano quasi le undici quando imboccarono l’autostrada sudorientale verso le luci tremolanti di Boston. Non pioveva più e l’aria era fresca e frizzante.

«Sei mai tornato qui dopo l’internato?» domandò Nikki. «No», rispose senza girarsi. «All’inizio, appena tornato a Belinda, lavoravo come un matto al pronto soccorso, poi come un matto per aprire lo studio medico privato. Ginny si è ammalata poco dopo, e non ha mai avuto un periodo di remissione. Dopo la sua morte, è stato anche troppo difficile per me trovare la forza di alzarmi e andare in ambulatorio, per non parlare di un viaggetto nostalgico a Boston. La città comunque mi era piaciuta, molto.»

Lo studio del medico legale era situato appena fuori dall’autostrada. A parte la bassa illuminazione notturna, l’edificio a tre piani era buio. Nikki suonò il campanello all’entrata una decina di volte, e ambedue sentirono il trillo riecheggiare nell’ampio vestibolo, ma non videro alcun movimento.

«Strano», osservò Nikki, «di solito c’è un guardiano tutta la notte. In ogni caso, Joe lavora spesso fin dopo la mezzanotte. Sapendo che stiamo arrivando, mi riesce difficile credere che sia andato a casa.»

«Forse non si sentiva bene», azzardò Matt. «Forse. La porta d’entrata si apre con una scheda magnetica che purtroppo è nel West Virginia tra le mie cose. Vi è però una porta di sicurezza sul retro con tastierino. Anche l’ufficio di Joe è sul retro, forse sentirà il cicalino.»

Matt la seguì lungo un vialetto fiocamente illuminato fino al retro dell’edificio.

«Vedi, quello è l’ufficio di Joe, quella luce lassù al secondo piano. Sapevo che era qui.»

«Avevi ragione a dire che non ci sentiva. Che edificio lungo, sembra una specie di portaerei.»

Nikki batté il codice ed entrarono sul pianerottolo della scala in cemento, lugubremente illuminato dalla rossa scritta USCITA. L’aria era imbevuta del tipico, anche se non forte, odore di formaldeide. Con Matt alle sue spalle, Nikki salì al secondo piano e aprì la porta che dava in un corridoio coperto di moquette con uffici a entrambi i lati.

«Joe, siamo noi», gridò.

Bussò alla porta contrassegnata JOSEF KELLER, CAPO MEDICO LEGALE, quindi l’aprì. L’ufficio era illuminato da un impianto fluorescente sul soffitto e una lampada da tavolo. Joe Keller era alla sua scrivania, le spalle rivolte alla porta.

«Joe», iniziò Nikki, «Perché non hai…?»

S’interruppe nel vedere il sangue sulla moquette. Corse alla sedia e lanciò un urlo. La scrivania era schizzata di sangue scuro e coagulato, come pure il viso e i vestiti di Joe Keller. La testa era china sul petto, Nikki la sollevò dolcemente, mostrando un volto malconcio con un foro di proiettile appena sopra il naso. Gli occhi di Joe erano spalancati e resi vitrei dalla morte. Da un orecchio penzolavano gli occhiali dalla montatura in filo metallico.

«Guarda», esclamò Matt, indicando la mano destra di Keller, poggiata sul grembo dell’uomo morto.

L’indice era stato troncato di netto all’altezza della nocca mediana.

«Oh, mio Dio!» gridò Nikki, barcollando all’indietro, gli arti contratti.

Matt le cinse le spalle e la strinse a sé.

«Tesoro, non toccare più niente», la implorò.

«Chi farebbe una cosa simile? Perché? Era un uomo tanto dolce e caro. Perché? Gesù. Oh, merda! No.»

Non riusciva a stare ferma, continuava a dondolare da un piede all’altro, a battere i pugni contro le cosce. Matt la trascinò via dal corpo del suo maestro, cercando contemporaneamente di confortarla, di valutare la scena e di restare vigile, qualora il killer fosse ancora nell’edificio. Pensò all’arma nella borsa sulla moto e si maledisse per non averla portata con sé quando Keller non aveva aperto la porta. Aveva sospettato vagamente che potessero esserci dei problemi, ma non aveva prestato sufficiente attenzione al suo intuito. Non aveva il minimo dubbio che il torturatore e assassino del medico legale fosse in qualche modo collegato a Kathy Wilson. C’era forse Grimes nelle vicinanze, o i suoi scagnozzi?

A un’estremità dell’ufficio c’era un tavolo da conferenze rotondo. Matt fece accomodare Nikki su una sedia rivolta dalla parte opposta di Keller.

«Nikki, mi spiace veramente, sono dispiaciuto e nauseato.»

«Pensi che abbia a che fare con Grimes?» singhiozzò.

«Sto tentando di capire come, ma sì, ne sono certo.»

Decise di non porle altre domande su ciò che poteva avere detto a Grimes durante la funzione religiosa in memoria di Kathy o nella casupola.

«V… voglio aiutarti», mormorò lei.

«Tra un attimo. Nik, puoi rimanere qui seduta mentre io mi guardo in giro?»

«Sì.»

«Bene. Tieni le mani sulle ginocchia. So che vi è una logica spiegazione per la presenza delle tue impronte in questo edificio, ma non vorrei fossero le uniche impronte fresche di un dipendente di questo ufficio.»

«Capisco. Matt, lo hanno torturato.»

Matt camminò attorno alla scrivania ed esaminò tutto l’ufficio. Nessuna pistola, nessun coltello, nessun dito. Si accovacciò e studiò il volto contuso e alterato di Keller. Il setto nasale era sicuramente rotto e vi era probabilmente una frattura dell’osso orbitale sopra l’occhio sinistro.

Al calare della sera avevano discusso di nuovo se rivolgersi o no alla polizia e avevano deciso di aspettare.

«Nikki», chiese Matt, «puoi dire quando è stato ucciso?»

«Dovrei esaminarlo per essere precisa, ma da ciò che ho visto, direi un paio d’ore fa.»

«Possiamo quindi aspettare prima di chiamare la polizia.»

«E forse farlo da un telefono a gettoni.»

«Torna, allora, con me alla motocicletta.»

«Non vuoi guardarti in giro e cercare di scoprire perché lo hanno fatto?»

«Oh, sì. Ma c’è qualcosa nella mia borsa che vorrei recuperare, caso mai fossero ancora qui in giro.»

Pochi minuti dopo, con Matt che teneva imbracciato il revolver a canna mozza di Larry, iniziarono una ispezione sistematica dell’edificio.

«Presupponendo che ciò abbia a che fare con Kathy», domandò Matt, «cosa pensi volessero?»

«Non lo so. Iniziamo dalle nostre schede. Sono in una stanza chiusa a chiave dietro la sala delle autopsie.» Coprendosi le punte delle dita con la camicia, Nikki compose il suo codice su un tastierino, aprendo la porta che dava nella lunga e stretta stanza dell’archivio. «I dossier sugli scaffali sono sistemati secondo il numero del caso», spiegò, dirigendosi verso uno stretto armadio a sei cassetti. «Questo schedario è alfabetico.»

«E?»

«Non riesco a trovare la sua scheda. Vi sono sette Katherine Wilson, ma nessuna è quella giusta.»

«Guarda», esclamò Matt, indicando una chiazza scura sull’angolo della lunga tavola al centro della stanza.

Nikki scrutò la macchia. «Avevano portato qui Joe.»

Fece scorrere di nuovo le cartelle, quindi tirò fuori tutte le Wilson e le pose sul tavolo. Matt le passò una a una, poi scosse la testa.

«Nada.»

«Abbiamo una copia di tutte le schede.»

Nikki si sedette al terminale del computer, batté alcuni tasti, quindi scrisse un numero.

Anche lì mancava la scheda di Kathy Wilson e, con quella, tutti i dati dell’autopsia.

«Usate un servizio di trascrizione dei dati?»

Nikki era già tornata al terminale.

«Ne abbiamo uno interno. La registrazione è stata cancellata dal database. Hanno pensato a tutto tranne che alla lista di riserva delle schede. Joe è riuscito in qualche modo a non parlarne. Andiamo giù a istologia. È proprio sotto la sala delle autopsie.»

Chiusero l’archivio ed entrarono nella grande sala delle autopsie con i suoi tre tavoli in acciaio inossidabile. Il tavolo centrale era occupato. Un uomo dalla pelle color rame, che indossava ancora stivali da lavoro e una tuta macchiata, giaceva serenamente, i pollici agganciati alle bretelle, gli occhi che non vedevano, fissi sul controsoffitto. Dove prima c’era l’occhio sinistro, vi era ora una densa macchia di sangue coagulato e tessuto. Sotto il sangue coagulato non poteva esserci che un foro di proiettile.

«Oh, Cristo», borbottò Nikki, girando la testa.

«L’addetto alla manutenzione?»

Lei annuì. «Santiago.»

«Un tocco carino avergli agganciato così i pollici.»

«Le scale per istologia sono laggiù.»

Non sorprese nessuno dei due scoprire che i vetrini di Kathy Wilson e tutti i campioni di tessuto non sezionato erano scomparsi.

«Niente», ammise Nikki dopo avere controllato l’ultimo posto dove potevano esserci tessuti di Kathy.

«Due uomini sono morti affinché qualcuno potesse garantirsi proprio questo.»

«Matt», esplose Nikki, «andiamocene di qui. Voglio andare di corsa a casa.»

«Non credo sia una cosa saggia.»

«Non m’importa. Tu hai una pistola. Se non te la senti di usarla, ti assicuro che io sono più che pronta a farlo. Voglio andare a casa. Voglio sedermi e bere una tazza di tè nella mia poltrona e studiare la prossima mossa.»

«D’accordo, d’accordo. Indicami la strada.»

«Grazie.»

«E, Nikki?»

«Sì?»

«Mi spiace veramente per Joe.»

«Lo so, lo so.»

In silenzio, lungo strade per lo più deserte, percorsero i pochi chilometri verso South Boston e parcheggiarono a un isolato di distanza dall’appartamento di Nikki. Matt infilò il revolver nella cintura e lo coprì con la camicia, tenendo la mano sul calcio. Cautamente camminarono lungo la pittoresca serie di villette bi e trifamiliari, una attaccata all’altra, stando ben attenti a qualsiasi movimento provenisse dalle macchine posteggiate lungo la strada.

«Come faremo a entrare?» chiese Matt.

«C’è una chiave di riserva in una piccola scatola calamitata dietro il pluviale. Kathy perdeva di continuo la sua.»

La chiave era proprio dove aveva previsto fosse. Con cautela, salirono le scale fino al secondo piano. Matt estrasse il revolver e lo tenne puntato mentre Nikki infilava la chiave nella serratura, la girava silenziosamente e apriva la porta.

«Oh, no.»

Il suo appartamento era a soqquadro. Vi erano libri sparsi dappertutto, scaffali svuotati. Le lampade erano state rovesciate, ogni cassetto aperto e svuotato, ogni cuscino e ogni quadro incorniciato gettato in mezzo al pavimento. Statuine e piatti per dolci rotti. Senza pensare che quegli uomini potessero trovarsi ancora in casa, Nikki cadde sulle ginocchia e si mise a singhiozzare istericamente. Matt s’inginocchiò accanto a lei e fece l’unica cosa che gli parve sensata, chiuse la porta con un calcio, le cinse le spalle con il braccio e la lasciò piangere.

Quindici minuti dopo erano ancora nello stesso punto. Alla fine, intontita, Nikki si alzò e si trascinò in camera da letto. Ne uscì poco dopo con uno zaino di media grandezza pieno di vestiti.

«Usciamo di qui e andiamocene da Boston», disse con voce piatta. «Mi sembra di essere stata violentata.»

Matt la seguì fuori da quell’appartamento saccheggiato, giù per le scale e fuori dalla porta verso la motocicletta.

«Non la faranno franca», disse Matt. «Te lo prometto.»

«Ora andiamo alla polizia», dichiarò con fermezza Nikki, girandosi di colpo, un’espressione che era un miscuglio sconvolgente di rabbia e disorientamento. «Questa volta non mi convincerai a non farlo. Se ci fossimo andati quando l’avevo detto, forse Joe sarebbe ancora vivo.»

«Nikki, questa è…»

«Non dirmi che è una sciocchezza!» sbottò. «Forse lo è e forse no. Io voglio solo andare alla polizia.»

Matt si guardò attorno rapidamente per vedere se la sua esplosione avesse svegliato qualcuno.

«Adesso?» chiese. «Ma…»

«Maledizione, Matt, un mio caro amico è morto ed è stato Grimes a ucciderlo! Non m’interessa la tua fottuta miniera di carbone o… o le tue teorie sui rifiuti tossici o il tuo dannato folle paese. Joe Keller era l’uomo più gentile al mondo. Perché diavolo hanno fatto una cosa simile? Perché?»

Riprendendo a singhiozzare disperatamente, gli gettò le braccia al collo e nascose il volto nel suo petto.

Matt la strinse a sé. Andare alla polizia voleva dire andare in cerca di guai, ne era più che certo. Joe Keller era morto già da un paio d’ore quando l’avevano trovato, e non sarebbe stato più facile prendere quelli che l’avevano ucciso e che avevano distrutto l’appartamento di Nikki in questo momento di quanto lo sarebbe stato se avessero aspettato un’ora per fare una telefonata anonima. Denunciare il rapimento di Nikki, voleva dire avere la loro parola contro quella di Grimes ed esporsi allo scoperto in un momento in cui libertà e mobilità erano gli unici elementi a loro favore.

«Senti», disse, «mettiamoci in moto. Ci fermeremo tra un po’ a un telefono a gettoni e chiameremo la polizia di Boston. Spero di riuscire a convincerti almeno a non presentarti di persona in una stazione di polizia o in un ufficio dell’FBI, ma questo alla fin fine dipenderà da te.»

I singhiozzi di Nikki diminuirono gradualmente. Alla fine, senza dire una parola, saltò in sella alla Harley e attese che lui salisse.

Matt rimise il revolver nella tasca della giacca, montò davanti a lei e avviò la moto. Se andare alla polizia fosse stato ciò di cui lei aveva bisogno, lì l’avrebbe portata. Ne aveva sopportate troppe. Partì, sentendola seduta rigidamente dietro di lui, gli occhi fissi nella notte. Era contento che fosse andata in camera da letto e avesse radunato le sue cose, contento di avere avuto il tempo di girare per il soggiorno prima che lei tornasse, contento di avere dato per caso un’occhiata sopra la mensola. Da qualche parte entro la prossima mezz’ora, avrebbe fermato la Harley su una spalletta e, appena si fosse accorto che lei non prestava attenzione, avrebbe lanciato nel bosco ciò che aveva trovato sulla mensola.

E così il luogo dove era finito il dito mancante di Joe Keller sarebbe rimasto per sempre un mistero.

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