29

Ellen stava canticchiando assieme a un compact disc di Sinatra, quando attraversò il fiume Shenandoah. Era nella Virginia settentrionale, diretta a sud ovest verso il confine di stato della Virginia occidentale. Il sole di quella tarda mattinata era terapeuticamente caldo, l’autostrada pavimentata da poco e quasi vuota, e presto, molto presto, avrebbe forse dato una mano a mettere in gabbia l’animale che aveva minacciato la sua famiglia e infettato, da solo, un gran numero di persone con quella malattia orribile e mortale. Non era ancora del tutto certa che Vinyl Sutcher fosse l’uomo che cercava, ma tutto ciò che le serviva per esserlo era dargli un’occhiata.

Per prima cosa, quel mattino, si era fermata alla stazione di polizia di Glenside, la sua città. Il capo della polizia, Ed Curran, era un membro del club dove Howard aveva giocato a golf e dove lei aveva spesso giocato a tennis con la moglie di Curran, Lorraine. Purtroppo aveva scoperto che i Curran erano andati in Italia per festeggiare i trenta anni di matrimonio, e che vi sarebbero rimasti un’altra settimana. Il sostituto di Ed, un uomo molto più giovane di nome Wes Streeter, era un tipico prodotto locale, un ex giocatore di football al liceo che mancava totalmente del calore di Curran e, come Ellen scoprì rapidamente, anche della sua intelligenza.

«E così, quest’uomo con la cicatrice è entrato in casa sua, ha aspettato che lei rientrasse e poi ha minacciato di uccidere sua nipote. Perché?»

«Non voglio alcuna pubblicità sul motivo. Me lo può promettere?»

«Signora Kroft, non posso prometterle nulla, finché non mi dice che sta succedendo.»

«Non importa. Mi occuperò io della faccenda.»

«Dovrebbe presentare delle accuse formali contro quest’uomo qui», puntualizzò Streeter. «E qui che è stato commesso il reato.»

«Non sono neppure certa che il nome che ho corrisponda all’uomo che è penetrato in casa mia. Voglio solo dargli un’occhiata. Una sola. Una foto o in persona. Non m’importa come. Appena lo vedrò, saprò se è lui. Non c’è un sito informatico della polizia dove basta inserire il suo nome e indirizzo e vedere se era già finito nei guai?»

Streeter, intuendo che la donna seduta di fronte a lui era forse più interessante, più importante del presunto criminale, fece scorrere il nome Vinyl Sutcher, West Virginia, nel computer, ma non trovò niente. Alla fine, dietro alcuni suggerimenti per nulla sottili di Ellen, concluse che Tullis non aveva un dipartimento di polizia proprio, ma che era assistita dalla polizia della città vicina, Belinda. A quel punto, il poliziotto, confuso da Ellen e dalla sua storia, non vedeva l’ora di passare ad altre faccende. Le diede il numero telefonico della polizia di Belinda, il nome del capo, William Grimes e una stanza tranquilla da dove telefonare. Mentre componeva il numero, le si presentarono alla mente le immagini di Andy Griffith, Don Knotts e Mayberry, per cui, dopo avere spiegato all’agente che aveva risposto il motivo della sua telefonata, non si sorprese affatto quando le venne detto che il capo della polizia, Grimes, avrebbe subito parlato con lei.

«Grimes.»

L’immagine mentale di Ellen era stata quella di un uomo più vecchio di Wes Streeter e più giovane di Ed Curran. Andy Griffith.

«Capo Grimes, mi chiamo Ellen Kroft. Chiamo dalla stazione di polizia di Glenside, nel Maryland, dove vivo, su insistenza del facente veci di capo della polizia di qui. Alcuni giorni fa, un uomo è entrato in casa mia e ha minacciato me e la mia famiglia se non avessi fatto qualcosa che lui voleva. Ritengo che l’uomo sia di Tullis, la cittadina vicino alla sua. Si chiama Sutcher, Vinyl Sutcher. Può dedicarmi qualche minuto?»

«Cerchiamo sempre di avere il tempo per i nostri vicini del Maryland», rispose Grimes.

La storia tronca che raccontò a Bill Grimes includeva i suoi sospetti concernenti l’epidemia di febbre di Lassa e il modo in cui era riuscita a ottenere il nome di Sutcher dalla lista dei passeggeri.

Il Vinny Sutcher che il capo della polizia rammentava non si adattava molto bene alla descrizione di Ellen. Da ciò che ricordava, e Bill ammise di non essere del tutto certo di stare pensando alla stessa persona, Sutcher era un tipo robusto, ma non alto e non aveva alcuna cicatrice sopra il labbro. Era un taglialegna che di tanto in tanto faceva la guardia del corpo e che viveva nella città vicina. Grimes ricordava di averlo visto brevemente circa un anno fa, dopo che aveva spintonato un uomo che l’aveva tamponato a un semaforo, ma non come si fosse risolto l’incidente, anche se non pensava che fossero mai state presentate accuse formali.

Se fosse venuta a Belinda, l’avrebbe incontrata volentieri, avrebbe annotato il suo resoconto e le avrebbe riferito tutte le informazioni che fosse riuscito a raccogliere su quell’uomo, inclusa una fotografia, se Sutcher era stato arrestato. E se le prove presentate da lei fossero state sufficientemente interessanti, avrebbe di certo contattato l’FBI e li avrebbe aiutati a compilare un mandato di cattura.

«Le do il numero del mio cellulare, casomai vi fossero problemi», aveva soggiunto.

«E io le do il mio.»

Erano da poco passate le due quando Ellen fece un’ampia curva su una strada di montagna e scorse per la prima volta Belinda, una cittadina da cartolina postale, annidata in un’ampia valle a est di una serie di dolci colline. Al di là delle colline, nell’azzurro del cielo pomeridiano, si stagliavano i dirupati monti Allegheni. Erano passate più di tre ore da quando era partita da casa, ma il viaggio senza soste, con CD di Carly Simon e Natalie Cole che si alternavano con quelli di Lyle Lovett e Sinatra, le era parso molto più breve.

Per tutto il viaggio aveva pensato molto a Rudy. Non la sorprendeva certo che Rudy avesse detto e fatto tutte le cose giuste per non farla sentire in colpa per avere aperto la lettera trovata nel cassetto. Ora doveva soltanto esaminare i suoi sentimenti, cercando sotto il duraturo affetto della loro amicizia la scintilla di passione che, anche a sessantatré anni, desiderava avere. Rudy l’amava sinceramente, di questo non dubitava affatto. Era inoltre un uomo con cui lei avrebbe potuto invecchiare. La questione su cui rimuginava mentre imboccava Main Street era se lui fosse o no l’uomo con cui ringiovanire.

All’incontro con il capo della polizia Grimes mancavano ancora tre ore e, a parte una ciambella dolce e il caffè che aveva portato in un thermos, non aveva mangiato nulla da quando era partita da Glenside. Il malessere da sbornia era passato quasi del tutto, ma il voto che aveva fatto sul bere al mattino sarebbe durato, sperava, per sempre. Pensò di attraversare Belinda e di raggiungere Tullis, solo per vedere come era quel paese, ma il Belinda Diner, un tipico ristorante al limitare della città, era troppo invitante per ignorarlo. Il locale era quasi vuoto. Una cameriera di mezza età ma dall’aria competente in jeans e T-shirt stava servendo due anziane donne in un séparé e due uomini brizzolati in un altro.

«Qualsiasi posto le garbi», gridò la cameriera allegramente.

Ellen prese una copia del Montgomery County Weekly Bugle da una rastrelliera e la portò in un séparé d’angolo, lontano dagli altri clienti. Ordinò il polpettone della casa e si mise a leggere la pagina di cronaca, come faceva sempre quando leggeva il giornale di una qualsiasi cittadina, compresa la sua. Un cane che abbaiava… un forestiero furtivo… una lite… un cervo investito da un camion… un tumulto… un distributore di bibite distrutto… una paziente rapita. Inserite tra due dozzine di notizie della polizia vi erano due righe sul rapimento di una paziente dell’ospedale da un’ambulanza. Ellen trovò l’articolo che parlava di quel crimine in prima pagina e lesse il succinto resoconto, finché non arrivò la cameriera con il pranzo.

«Che cos’è questa storia del rapimento?» chiese Ellen.

La cameriera scrollò le spalle. «Nessuno lo sa», rispose con un accento piacevole. «Ho sentito dire che è stato il suo medico. Il dottor Rutledge. La paziente era lei stessa una dottoressa. Ora è scomparsa ed è scomparso pure lui. Forse era diventata per lui un’ossessione e non riusciva più a vivere senza di lei. E così assolda un paio di delinquenti per portarla via, poi si comporta come se niente fosse.»

«E io che pensavo di essere arrivata in una cittadina addormentata. Medico rapisce paziente. Sembra una miniserie televisiva.»

«Povero dottor Rutledge. Non è più stato lui da quando, alcuni anni fa, è morta sua moglie. È un gran bravo dottore, comunque, da ciò che ho sentito. Se mai fossi dovuta andare da un medico, avrei scelto lui. Allora, cosa la porta qui?»

«Io… ho un appuntamento d’affari. Certo che questa è una splendida città.»

«Grazie, lo pensiamo anche noi. L’appuntamento è qui a Belinda?»

«In realtà, no», rispose Ellen, dopo avere riflettuto se valeva la pensa cercare di determinare dove viveva Vinny Sutcher. «È in una città chiamata Tullis.»

«Perbacco, è proprio la prossima città. Più o meno parte di Belinda.»

Ellen consultò un blocco che tirò fuori dalla sua borsa.

«Deep Woods Road», disse, leggendo l’indirizzo ricavato dalla lista dei passeggeri.

«Mai sentita nominare», ammise la cameriera.

«Io sì», gridò uno dei due vecchi, seduti a quattro o cinque séparé di distanza. «Prenda Main Street fino a Tullis. Attraversi poi tutta la città, svolti a sinistra in Oak, quindi si diriga verso le colline per circa tre chilometri. Dovrà cercare una strada in ghiaia, non credo ci sia un cartello, ma su alcune cassette per la posta c’è scritto Deep Woods.»

«Grazie», gridò Ellen.

«Belinda Road è la continuazione di Main Street fino a Tullis», spiegò la cameriera. «Giri a destra uscendo dal parcheggio e continui diritto. Vedrà un piccolo cartello per Tullis.»

«Quel posto non si merita niente di più grande», sghignazzò il ficcanaso.

La sua battuta fece ridacchiare il suo compagno di tavolo e le due signore nel séparé vicino.

Ellen, abituata a simili ristoranti, non si sorprese nel trovare il polpettone encomiabile e il purè di patate e il sugo adeguatamente casalingo. Lasciò una buona mancia e uscì nel sole del tardo pomeriggio. Mancavano ancora due ore all’appuntamento con Grimes. Da quando il vecchio ficcanaso le aveva indicato la via per Deep Woods Road, non aveva pensato ad altro, spinta dalla rabbia e dalla curiosità di dare almeno un’occhiata a Vinyl Sutcher. Se era come Grimes l’aveva descritto, doveva ricominciare da capo con la lista dei passeggeri. Se la memoria di Grimes fosse stata labile, se lei fosse riuscita a stabilire che la grossa testa di Sutcher presentava una faccia piatta e una cicatrice caratteristica, sarebbe stata sul punto di ottenere una dolce, succulenta vendetta. Doveva solo essere prudente e restare in macchina. Tutto ciò che voleva era dare un’occhiata a quell’uomo o almeno al posto in cui viveva.

Con la stessa vocina che aveva perso la battaglia sulla lettera di Rudy, che ora la supplicava di aspettare fino all’incontro con il capo della polizia, Ellen uscì dal parcheggio e si diresse verso Tullis e Deep Woods Road.

La strada, terra battuta e sassolini spianati, saliva dolcemente attraverso un arco continuo di denso fogliame. Era larga quanto una macchina, con un basso canale di scolo a entrambi i lati e spiazzi dove fermarsi per far passare una vettura che stesse venendo incontro. Prima di una curva c’era una serie di cassette per la posta. Una di esse recava il numero 100 e il nome SUTCHER. Ellen avanzò lentamente, provando uno strano, quasi perverso piacere nel compiere un’azione che sapeva essere potenzialmente pericolosa. Malgrado le cassette per la posta, non vide alcuna casa. Da entrambi i lati partivano invece vialetti in terra battuta che s’insinuavano nel bosco, la maggior parte con un’asse inchiodata a un albero che indicava il numero della casa.

62… 70… 83…

Ellen rallentò ancora di più. Numerosi vialetti erano privi di numero. Che uno di quelli fosse quello di Sutcher?

90…

Con il cuore in gola, Ellen si fermò e, facendo manovra in una delle stradine senza numero, girò l’auto. Poi aprì cautamente la portiera.

Stai facendo una cosa stupida, stava dicendo la vocina. Una cosa assolutamente sciocca.

Infilò le chiavi nella tasca dei pantaloni, chiuse delicatamente la portiera e si avviò su per la strada stretta.

100.

Il numero, dipinto in nero su un’asse di legno di pino, era inchiodato ad altezza d’occhi sul tronco di una piccola betulla. Subito dietro la betulla, il bosco si diradava, lasciando il posto a una radura, dietro la quale vi era un paesaggio spettacolare, una larga valle solcata da fiumi, che si stendeva verso colline lussureggianti e montagne grigio-blu. Al centro della radura vi era una casa nuova, o vecchia restaurata a fondo da poco, a un piano, moderna, con grandi finestre panoramiche e pareti esterne in legno di cedro chiazzato di mogano. Sparsi in giro, notò i resti della costruzione. Il prato non era stato ancora sistemato, anche se la tubazione di un impianto di irrigazione sotterraneo era lì, pronta per essere installata. Non vi era garage, ma una parte del futuro prato era stata ricoperta di ghiaia e forniva spazio per due automobili.

Benché certa che la proprietà fosse al momento vuota, Ellen la osservò per almeno cinque minuti, nascosta e protetta nel bosco. Nessun movimento.

Ansiosa di dare una sbirciatina all’interno, uscì dall’ombra e si diresse verso la casa, il polso che batteva rapidamente. Sebbene la casa non fosse ancora completata, di certo qualcuno l’abitava. Attraverso le finestre vide che era ammobiliata in uno stile decisamente maschile, divani e poltrone in pelle, pesanti tavoli spogli. Incoraggiata dal silenzio, Ellen premette il viso contro il vetro e sbirciò all’interno: sopra la mensola un’enorme testa di alce e numerosi fucili e pistole agganciati alla parete. Scrutò l’interno, alla ricerca di fotografie. Niente. Una finestra alla volta, arrivò al fianco della casa.

Il panorama era magnifico, reso ancora più bello dal sole che stava calando verso le montagne. La casa, pur non essendo costruita su uno strapiombo, era situata in cima a un pendio scosceso. Ellen fece un passo verso il bordo. La scarpata era più che altro terra, erbacce e pietre, ingombra di assi, cinghie e pezzi di cemento da portare via quando quel posto fosse stato sistemato. In quel momento si rese conto che la casa non aveva un solo piano come pareva dalla strada, ma due e forse addirittura tre scavati nel fianco della collina. Fece qualche passo esitante lungo il pendio e rimase a bocca aperta. Vi erano due piani abitabili, quello che aveva esaminato lei e un altro sottostante. Ciascuno presentava un solido muro in vetro sfumato che si stendeva per tutta la lunghezza della casa. Il piano sottostante era un garage, costruito anch’esso nel fianco della collina, da cui partiva uno stretto vialetto che curvava seccamente a destra, per poi dirigersi verso un punto non molto distante da dove lei aveva parcheggiato.

Nel garage vi era una grande Jeep nera quattro per quattro.

A quella vista, Ellen sentì stringersi il petto.

«Allora, che succede qui?»

La tonante voce di Vinyl Sutcher fu come una lancia nel cuore di Ellen. Spaventata, roteò su se stessa, inciampò e cadde su un ginocchio, finendo su un pezzo di cemento puntuto. Balzò in piedi, incurante del dolore, dello strappo nei pantaloni e della macchia di sangue che vi si stava rapidamente spandendo intorno. Sutcher era sopra di lei, a sei metri circa di distanza, le mani sui fianchi, un ghigno sulla sua enorme faccia piatta.

«Sapevo che era lei», esclamò Ellen sprezzante.

«Venga su… ho detto, VENGA SU, PORCA PUTTANA!»

Ellen esitò, poi lentamente ubbidì. Aveva fatto un terribile, tremendo sbaglio e ora ne avrebbe pagato le conseguenze con il dolore e poi, presto o tardi, con la vita. Se il pendio dietro di lei fosse stato solo un po’ più ripido, avrebbe potuto farla finita rapidamente o tentare almeno di trascinare anche lui giù con lei. Così invece, il vialetto in basso avrebbe frenato qualsiasi caduta. Non poteva fare altro che starsene lì a fissarlo.

«Come ha trovato questo posto?» domandò lui.

«Non è terribile rendersi conto di non essere furbi come si credeva?» ribatté lei, non solo a lui, ma anche a se stessa.

Sutcher indossava jeans neri, una camicia nera a maniche corte e stivali neri e fissava Ellen con tutta la cattiveria possibile. I suoi stretti occhi da roditore la guardavano con ira.

«Le ho fatto una domanda», ringhiò.

Colmò gli ultimi tre metri che li separavano, afferrò il polso di Ellen e, con l’altra mano, le piegò le nocche all’indietro finché lei non cadde sulle ginocchia, gridando dal dolore.

«So chi è lei e so cosa ha fatto», riuscì a dire.

Sutcher la tirò in piedi, ma non mollò la mano.

«Di che sta parlando?»

«Le piace tanto fare del male a signore vecchie abbastanza da poter essere sua madre?»

«Mi piace fare del male a chiunque. Allora, glielo chiederò ancora una volta, prima di iniziare a farle del male per davvero. Come ha fatto a trovarmi?»

Ellen visualizzò la nipotina, addormentata nella sua camera da letto mentre quel mostro la fotografava.

«Mi sono messa sottovento e ho annusato», rispose. «Poi ho seguito l’odore ed eccomi qui.»

Senza esitare, Sutcher la colpì, uno schiaffo a mano aperta che la fece girare su se stessa e rotolare giù per il pendio come una bambola di pezza. Contusa e sanguinante, si fermò a metà strada del vialetto, sulla pancia, le braccia e le gambe divaricate, la guancia tagliata schiacciata contro un pezzo di cemento. Era desta e vigile, ma tanto dolorante che, per qualche strano motivo, non sentiva affatto male. Rimase immobile, gli occhi chiusi. Che sarebbe successo ora? Dall’alto, mentre Sutcher discendeva il pendio verso di lei, poté sentire i suoi grugniti e l’acciottolio delle pietre.

Socchiuse gli occhi. Sotto la mano destra vi era una sottile stecca di legno, lunga una novantina di centimetri, dalla cui estremità sporgeva un chiodo, lungo cinque centimetri, forse anche sei. Avrebbe perso contro quel mostro, era un dato di fatto, ma non senza avere tentato di fargli prima del male. Muovendo solo le dita, le serrò attorno al legno. La sua unica possibilità, se ve ne era una, era quella di colpirlo al volto e sperare di prendere un occhio. Il suo odio per quell’uomo era tale che l’idea di accecarlo non la ripugnò.

Il suo respiro affaticato si stava avvicinando. Pensò di averlo sentito incespicare almeno una volta. Bene!… Era qui ora, vicino a lei, e la urtava con la punta dello stivale. Se avesse notato la mano stretta attorno all’asticella e le avesse messo un piede sul polso, la sua unica opportunità per fargli del male sarebbe svanita. Lui sembrava però intento solo a determinare se era viva o no. Per complicargli le cose, trattenne il fiato.

«Forza, girati», disse, infilando sotto di lei la punta dello stivale.

Ellen gli permise di capovolgerla quasi del tutto, prima di completare per lui l’azione. Con un grido acuto, rotolò sulla schiena e nello stesso tempo roteò la sua arma. Il chiodo penetrò fino in fondo nella guancia di Sutcher, meno di due centimetri sotto l’occhio. Lui gridò un’oscenità e traballò all’indietro, tentando di afferrare il pezzo di legno. Proprio mentre lo tirava via, cadde pesantemente e rotolò giù per lo scosceso pendio ricoperto di macerie. Ellen balzò in piedi prima che lui arrivasse al vialetto e, senza badare al dolore delle numerose ferite, si arrampicò su per il pendio.

«Maledetta! Ti ucciderò!» gridò Sutcher. «Sei già morta!»

Anche se lui avesse avuto la chiave della jeep in tasca, non sarebbe mai riuscito a prenderla prima che lei arrivasse alla sua macchina. Inciampando, correndo, prendendo fiato, attraversò di corsa il prato terroso. Pochi attimi prima di raggiungere la Taurus, venne colta dal timore che lui le avesse sgonfiato uno pneumatico o le avesse reso inutilizzabile l’auto in qualche altro modo. Tutto bene. Avere girato l’auto prima di andarsene era stata l’unica idea brillante in un pomeriggio colmo di sciocchezze. Riuscì in qualche modo a salire in macchina e pochi secondi dopo s’immetteva con una derapata sulla strada.

Con gli occhi che saettavano dalla stretta strada allo specchietto retrovisore e ritorno, affrontò la strada sterrata quanto più rapidamente possibile. Avvicinandosi alla fine di quella strada, osò tirare fuori dalla borsa il cellulare. Pregando di trovarsi a portata di un ripetitore, compose il numero che le aveva dato Bill Grimes e rimase sorpresa nel sentire immediatamente la sua voce.

«Signora Kroft, quello che ha fatto non è stata una cosa molto saggia», commentò Grimes dopo che lei gli ebbe fatto un rapido riassunto della situazione.

Dimmi qualcosa che non so, pensò. «Credo mi stia inseguendo», disse. «Che devo fare?»

«Sono su un’auto della polizia», rispose lui. «Lei continui a guidare il più rapidamente possibile finché non mi vedrà arrivare dalla parte opposta, quindi accosti e si fermi. Terrò acceso il lampeggiatore, per cui mi riconoscerà.»

«Oh, grazie.» Ellen sentì il battito del polso calare al di sotto dei mille.

«Tutto bene, signora Kroft. Lei ha fatto una cosa veramente stupida, ma fortunatamente sta bene. Ora prendo io il comando. Lei tiri un profondo respiro e lo esali lentamente. Ora è al sicuro.»


«No! Assolutamente no! C’è un bebè che sta dormendo qui. Ora andatevene, per favore. Basta interviste.»

Don Cleary sbatté la porta e tornò nell’appartamento, imprecando contro la porta a pianoterra con serratura e il sistema di sicurezza con cicalino che da un anno almeno non funzionavano più. Dannazione, pensò, sarà bellissimo andarsene da quel quartiere di case popolari una volta per tutte.

«Altri giornalisti?» domandò Sherrie sonnolenta, dal suo cantuccio sul divano.

«Sono stipati sulle scale come conigli e ci sono troupe televisive sul marciapiede.»

Lui, Sherrie, sua suocera e alcuni amici avevano guardato il programma televisivo sull’Omnivax, avvisati da una certa Tricia dell’ufficio di Lynette Marquand. Come la donna aveva promesso, per proteggere, almeno per il momento, la loro privacy, i loro nomi non erano stati diffusi. Naturalmente, dopo l’iniezione, le cose sarebbero cambiate. Su questo non avevano dubbi. La signora Marquand, aveva detto Tricia, fornirà loro volentieri una persona che li avrebbe aiutati ad affrontare la stampa e li avrebbe avvantaggiati economicamente in ogni possibile modo, e di certo ci sarebbero state molte offerte.

Poi, solo un’ora o poco più dalla fine del programma, il telefono aveva iniziato a squillare. Nessuno di coloro che chiamavano sembrava sapere esattamente come aveva ottenuto il numero di telefono dei Cleary o il nome di Donelle. All’inizio, lui e Sherrie si erano sentiti eccitati. Avevano rilasciato un’intervista registrata a un reporter di una stazione televisiva di Washington e permesso a un fotografo del Post di entrare in casa e di scattare loro una foto con la neonata. Dopodiché, mentre l’assalto dei mezzi di comunicazione si intensificava, avevano cominciato a dire di no. Ora si stavano arrabbiando.

Nella sua culla accanto al divano, Donelle cominciò a piangere.

«Dannazione, l’ho svegliata», imprecò Don. «Scusami, tesoro.»

Corse alla culla, prese in braccio il prezioso fagotto e si sedette vicino alla moglie. Il piagnucolio della piccola si arrestò immediatamente. I suoi occhi scuri si spalancarono e parvero fissarsi sul suo volto.

«Ti sta guardando?» chiese Sherrie. «Che civetta.»

«Già, proprio come sua madre.»

«Smettila! Donny, guarda, non è perfetta?»

«Sì.»

«Cosa pensi diventerà? Una ballerina? O… o un medico? O forse un’atleta famosa?»

«Non lo so e non m’importa», rispose Don. «In verità, c’è un’unica cosa che voglio che sia.»

«Che cosa?»

«Sana.»

In un angolo, il telefono riprese a squillare.

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