24

Il gigantesco assassino attraversò la stanza con sorprendente leggerezza e si avvicinò a Nikki che dormiva. La donna aprì lentamente gli occhi, ma era troppo tardi. Prima che potesse emettere qualunque suono, l’uomo le chiuse la bocca con un palmo enorme, carnoso. Le mise il ginocchio sul fondo schiena e premette sempre più contro la spina dorsale, finché lei capì che stava per spezzarsi in due.

Per piacere, no! Per favore, basta! gridò la sua mente. Non voglio restare paralizzata!

Era chiaro che il paralizzarla era solo una parte di ciò che l’uomo aveva in mente. Aveva già cercato di ucciderla e non c’era riuscito. Non avrebbe fallito di nuovo. La faccia a luna piena si gonfiò in un sinistro sorriso mentre le afferrava il mento e le tirava indietro la testa. Il ginocchio le stava trapassando il corpo.

Nikki si svegliò confusa e disorientata, le dita strette attorno al cuscino. L’aria in quella strana stanza era densa e stagnante. Poi, mentre si sforzava di calmarsi, sentì il regolare respiro dell’uomo che giaceva accanto a lei. Stupita, si mise seduta, cercando di ignorare le mine terrestri che esplodevano dietro i suoi occhi. La vista di Matt Rutledge che dormiva profondamente, il viso sereno e disteso, spazzò via l’ultimo di una serie di estremamente vividi e spaventosi incubi. Un pezzo alla volta, gli eventi della notte appena trascorsa scivolarono al loro posto. L’uomo disteso accanto a lei, il suo medico, l’aveva salvata da sicura tortura e probabile morte, era arrivato in sella alla sua motocicletta e le aveva salvato la vita. Si chiese se la sua copertura assicurativa tenesse conto anche di questo servizio.

Nella minuscola camera c’era un letto che avrebbe dovuto essere più grande di un letto matrimoniale, ma che sembrava più piccolo, e una sedia di vimini bianca con schienale a ventaglio. C’era inoltre un piccolo comodino a tre cassetti su cui erano poggiati alcuni vestiti ben piegati. Nikki raggiunse con passo felpato il minuscolo bagno, si lavò il viso con acqua fredda, quindi si spazzolò denti e capelli con oggetti da toilette nuovi di zecca che sembrava la stessero aspettando. Sulle braccia, una gran quantità di lividi provocati dalle fleboclisi, dai prelievi di sangue e Dio solo sapeva che altro. Sopra l’orecchio destro correva un’escara morbida e grossa, lunga almeno cinque centimetri. Aveva l’impressione di sapere cosa l’aveva causata, ma non riusciva a focalizzare la mente su nulla di specifico.

Tornò in camera da letto, si sedette sulla sedia in vimini e lasciò cadere pesantemente i piedi sul letto. L’impatto fece sobbalzare Matt, che continuò, tuttavia, a giacere imperturbato, un sorrisetto sulle labbra indicava quanto il suo sogno fosse diverso da quelli che avevano tormentato lei. Aveva calciato di lato le lenzuola e giaceva con indosso i pantaloni di una tuta, nudo dalla cintola in su. Aveva la vita piena e le spalle larghe di un atleta non più in pieno rigoglio che cercava comunque di mantenersi in forma. Non era mai stata attirata da uomini che portavano i capelli a coda di cavallo, ma la sua pareva adattarsi perfettamente ai suoi lineamenti marcati. Nel complesso non era bello come un attore del cinema, ma aveva quelle fattezze fisiche che piacevano a lei, e… le aveva appena salvato la vita. S’inginocchiò accanto al letto ed esaminò il tatuaggio sul deltoide. Rappresentava, cosa aveva detto Matt? un biancospino, lungo circa cinque centimetri, e splendidamente riprodotto, per quanto ne capiva. A causa del suo stesso insolito tatuaggio, prestava sempre attenzione a quelli degli altri. Era la prima volta che vedeva tatuato un albero. Comprese che c’era qualcosa dietro quell’albero. Alzò la testa e i suoi occhi si ritrovarono a pochi centimetri da quelli di Matt. Sentì il suo respiro e si aspettò che lui reagisse in qualche modo alla sua vicinanza. Niente. Continuò a dormire e, a giudicare dall’espressione serena, a sognare.

L’orologio sul cassettone segnava le sette e mezzo, il che corrispondeva più o meno alla luce che filtrava attraverso le tende. Pensò che svegliare il suo nuovo compagno di stanza avrebbe richiesto un attacco frontale, ma non subito. Si rimise a sedere e cominciò a riordinare ciò che ricordava degli eventi strani e terribili che erano successi dopo la sua partenza da Boston. Una cosa, forse l’unica, era chiara: Kathy Wilson era al centro di ciò che stava succedendo. Era una di almeno tre persone di Belinda con una sindrome strana, spaventosa e letale. Matt era convinto che quell’insolito insieme di sintomi fosse causato da esposizione a materiale tossico. La sua teoria valeva quanto qualsiasi altra, soprattutto ora, dopo la scoperta dell’enorme discarica di rifiuti tossici nella caverna vicino alla miniera di Belinda. Qual era però il collegamento di Kathy con la miniera? E come mai il capo della polizia aveva assoldato degli uomini per uccidere Nikki e in seguito era parso tanto interessato a sapere con chi Nikki avesse parlato della malattia di Kathy?

Al momento non aveva idea di come rispondere alle sue stesse domande. Conoscendo, tuttavia, Joe Keller come lo conosceva, se lo studio anatomico del sistema nervoso di Kathy poteva rivelare un indizio, lui l’avrebbe scovato. Sul comodino c’era un telefono con un biglietto appiccicato che diceva che le telefonate locali erano gratis e quelle a lunga distanza dovevano essere fatte a carico del destinatario o con carta di credito. Trattenendo il fiato, compose il prefisso per la chiamata a carico del destinatario e il numero che sperava di ricordare fosse quello della linea diretta di Joe Keller. Se l’orologio era preciso, il suo capo era nello studio già da un’ora, forse due, a sorseggiare caffè nero e denso e a risolvere enigmi anatomici e biochimici.

«Che Dio ti benedica», mormorò appena sentì la sua voce accettare la chiamata con un «sì».

«Joe, sto bene», disse subito.

«Grazie a Dio. Eravamo tutti preoccupati. Ci siamo addirittura rivolti alla polizia.»

Nikki stava per spiegargli che un capo di polizia era responsabile dei suoi guai, ma si interruppe di colpo. L’avrebbe fatto in seguito.

«Sto tornando a casa. Dovrei arrivare sul tardi questa sera.»

«Bene.»

«Joe, ho avuto dei problemi nel West Virginia proprio a causa della mia amica Kathy, quella cui hai fatto l’autopsia.»

«Che genere di problemi?»

«Ci sono due casi laggiù che sembrano uguali al suo, neurofibromi e psicosi paranoide progressiva.»

«Perbacco, che notizia», esclamò Keller. «Vedi, il tuo istinto era assolutamente giusto in questo caso. Stavo proprio esaminando i vetrini del cervello della signorina Wilson. Ha, senza ombra di dubbio, una encefalopatia spongiforme.»

Encefalopatia spongiforme. Nikki trattenne il fiato. Quella malattia del sistema nervoso, degenerativa, trasmissibile e infine letale, aveva una gran varietà di forme, tra cui una chiamata morbo di Creutzfeldt-Jacob, il morbo kuru, osservato negli indigeni che mangiavano il cervello umano della Nuova Guinea, l’insonnia familiare letale e l’encefalopatia spongiforme bovina, conosciuta anche come BSE o, più comunemente, come morbo della mucca pazza.

Eccitata, Nikki allungò le gambe e tirò con forza un calcio nella pianta del piede di Matt che serrò il cuscino dietro la testa e spostò il piede. Questa volta gli colpì con più forza il polpaccio con il tallone. Lui gemette e cominciò a stirarsi.

«Continua, Joe», lo incitò, non era tanto sciocca da chiedergli se ne era certo. «È incredibile.»

«Hai detto che ci sono altri due casi là dove sei?»

«Sì, nella città dove è cresciuta Kathy.»

Un altro calcio e finalmente Matt parve uscire dal suo profondo sonno. Se non aveva preso alcun farmaco, era un ottimo candidato per il libro del Guinness dei primati. Era più facile svegliare i suoi pazienti nello studio del coroner.

«E questi altri casi», chiese Keller, «Avevano anche loro una encefalopatia spongiforme?»

«Non lo so. A un esame approssimativo, i loro cervelli erano parsi normali, per cui non è stato fatto alcun esame al microscopio.»

L’encefalopatia spongiforme era provocata da germi chiamati prioni, particelle proteiche infettive capaci di riprodursi senza DNA o RNA (acido ribonucleico). Una delle caratteristiche dell’encefalopatia spongiforme era che, nonostante un quadro clinico spesso spettacolare, il cervello sembrava normale e, solo quando sezioni di cervello venivano esaminate al microscopio, si potevano notare buchi diffusi e spongiformi. Un’altra caratteristica era che il periodo di incubazione della malattia era di una decina d’anni o più, durante i quali la vittima poteva infettare altre persone.

«Anche i tuoi casi presentavano neurofibromi?» domandò Keller.

Matt ora era sveglio, si stava strofinando gli occhi per togliersi le ultime tracce di sonno e la fissava con espressione interrogativa. Lei si portò un dito alle labbra e gli indicò che l’avrebbe messo tra poco al corrente.

«Sì, tutti e due. Da ciò che mi è stato detto, l’esame al microscopio non ha rivelato nulla di insolito.»

«Forse sì o forse no», commentò Keller. «Ho provato su di loro un certo numero di coloranti e di combinazioni di coloranti e ho trovato un metodo che distingue chiaramente queste lesioni dai neurofibromi di riferimento nella mia biblioteca.»

Keller, l’uomo curioso, intellettuale. Nikki sorrise raffigurandosi il suo capo. Non faceva che giocherellare con i coloranti e il potente microscopio elettronico del dipartimento. La sua biblioteca, oltre a centinaia di testi, includeva centinaia o forse migliaia di campioni non colorati di ogni organo e di un numero infinito di malattie, ognuno catalogato con cura. A quanto pareva, tra quei tessuti non trattati con colorante vi erano alcuni neurofibromi comuni, i campioni di riferimento.

Encefalopatia spongiforme con insoliti neurofibromi. La sindrome di Belinda, ipotizzò Nikki… O forse il morbo Rutledge-Solari.

«Joe, ascolta, saremo a casa tra le dieci e la mezzanotte.»

«Dovrei essere ancora qui.»

«Se ci sarai, fantastico, altrimenti saremo lì domattina.»

«Saremo?»

«Un medico di quaggiù mi ha salvato la vita due o tre volte in questi ultimi tempi. Ha più che un interesse passeggero a questa sindrome. Lui pensa che sia provocata da una discarica industriale segreta che riversa sostanze tossiche nella falda freatica della sua città.»

«Per quello che sappiamo sulle infezioni da prione», ribatté Keller, «non vedo proprio come potrebbe essere quella la causa.»

«Va bene, ne discuteremo a quattr’occhi. Grazie, Joe.»

«Sono tanto sollevato nel sapere che stai bene», osservò Keller. «Oh, a proposito, la polizia ha trovato l’uomo che ha ucciso la tua vittima d’annegamento, Roger Belanger. Si chiama Halliday. Ecco spiegata la ‘H.’ Erano amici e soci in affari. La polizia ritiene che abbiano litigato per soldi. Halliday lo aveva invitato a casa sua per fare pace. Ha compilato un assegno, poi i due hanno bevuto qualcosa insieme. Halliday è riuscito a portare Belanger nella piscina, gli ha stretto le mani attorno al collo e lo ha trascinato fino sul fondo.»

«Procedura», sentenziò Nikki.

«Esattamente», concordò Keller.

Quando Nikki appese la cornetta, Matt si era infilato una felpa blu, nuova, con la scritta Yale sul davanti.

«Buongiorno», lo salutò lei.

«’Giorno a te.»

Lei indicò la felpa.

«Hai frequentato quell’università?»

«No, ma mentre tu stavi provando qualcosa nel negozio Target, ieri sera, ho cercato qualcosa anche per me. Questa l’avevano nella mia taglia.»

«Che tu ci creda o no, me ne ricordo. O almeno, circa. Quale università hai frequentato?»

«La vecchia e buona WVU. Quella dei montanari, era l’unica che potevamo permetterci. Si è rivelata una grande università.»

Nikki era certa di ricordare che un’infermiera le aveva detto che Matt aveva studiato medicina a Harvard, eppure lui non aveva ritenuto valesse la pena accennarne. Come se avesse avuto bisogno di altri punti dopo ciò che aveva fatto, ne aggiunse, tuttavia, un altro per il riserbo.

«Dormi profondamente», osservò.

«Già, e tutti se ne accorgono un giorno o l’altro.»

«Se oggi non ti riuscisse di camminare, la colpa è mia, ti ho svegliato a forza di calci.»

«Le infermiere all’ospedale mi interrogano quando telefonano, per assicurarsi che sia sveglio. Non sanno che sono diventato così bravo che posso rispondere alla maggior parte delle loro domande, anche a quelle matematiche più complesse, dormendo. Ricordi qualcosa della notte scorsa?»

«Sfortunatamente sì. Spero di averti ringraziato abbastanza per avermi salvato la vita.»

«Non mi piace perdere i miei pazienti. Allora, con chi parlavi al telefono?»

«Ho chiamato il mio capo, Joe Keller, per dirgli che ero viva e che stavo bene, e per sapere se l’esame microscopico di Kathy avesse rivelato qualcosa.»

«E?»

«Non ci crederai, Matt, ma Kathy aveva una encefalopatia spongiforme. Joe ne è assolutamente certo, e, credimi, lui non sbaglia mai.»

Matt crollò sul letto, incredulo. Non conosceva a fondo le varie versioni di quella malattia, ma si teneva al corrente leggendo testi medici, per quanto, almeno, glielo consentiva la sua giornata piena di lavoro.

«Il morbo del prìone?»

«Sì», rispose Nikki. «Una piccola puntualizzazione, la maggior parte lo pronuncia come hai fatto tu, ma Stanley Prusiner, che ha vinto il premio Nobel per i suoi studi sul prione, lo pronuncia con l’accento sulla o. L’ho sentito parlare circa un anno fa.»

«E prione sia, allora. Incredibile. Credi che anche i miei due casi abbiano avuto l’encefalopatia spongiforme?»

«Come posso dire il contrario?»

«Che diavolo?… Che mi dici dei neurofibromi? Qualcosa di speciale anche su quelli?»

«A quanto pare sì. Joe Keller è una specie di fanatico dei coloranti. Capace di provarne una dozzina su un pezzetto di tessuto solo per vedere che succede. Mi ha detto che le lesioni facciali di Kathy hanno assunto una colorazione scura diversa dal solito tipo di fibroma elefantiasico.»

«Non capisco.»

«Nemmeno io. Ma ascolta, Matt, per come la vedo io, forse tu sei ancora sulla pista giusta. Prima di saltare a qualsiasi conclusione, andiamo a Boston e vediamo cos’ha da mostrarci Joe.»

«Dammi cinque minuti per raccogliere le idee e si parte.»

«Solo fino alla più vicina International House of Pancakes, comunque. Mi è venuta un’improvvisa, insaziabile voglia di frittelle inzuppate di sciroppo di acero.»

«E così sia», borbottò Matt diretto in bagno. «Prima mi ricopre di prioni, poi vuole riempirsi di frittelle. Che genere di donna sarà mai?»

Nikki rimase colpita dalla sua allegra battuta, ma sapeva che la rivelazione di Joe Keller l’aveva colpito. Da ciò che le aveva detto la sera precedente, Matt era deciso a denunciare i dirigenti della società mineraria di Belinda per tutte le scorciatoie prese nel corso degli anni e per tutte le persone che avevano rovinato comportandosi così. Quegli strani casi erano solo il catalizzatore che aveva cercato per distruggerli, la prova che lo smaltimento incontrollato delle tossine organiche stava causando gravi danni biologici. Sarebbe stato, tuttavia, arduo collegare la miniera con l’infezione da prione. In ogni caso, ricordò a se stessa, nulla era ancora certo.

Se vi fossero state delle risposte, Joe Keller le avrebbe trovate.

Matt tornò ben lavato e rasato e molto carino. Si era tolto la felpa Yale e aveva indossato la T-shirt nera e la giacca in tela denim che portava quando era corso nel bosco e l’aveva salvata. A Nikki piacque quel cambiamento, lui era molto più denim che Ivy League.

«Pronta?»

Lei si alzò e gli pose le mani sulle spalle. I suoi occhi trovarono immediatamente quelli di lei.

«Sei stato veramente in gamba e molto coraggioso la notte scorsa», osservò Nikki.

«Se avessi riflettuto su ciò che stavo facendo, con ogni probabilità sarei svenuto.»

«Ne dubito.»

Aveva avuto intenzione di dirgli molto di più, c’erano tante cose che voleva sapere di lui, ma d’improvviso si ritrovò sulle punte dei piedi, le braccia attorno al suo collo.

«Grazie, Matthew Rutledge», sussurrò. «Grazie per avermi salvato la vita.»

Forse aveva sempre saputo che l’avrebbe baciato. Forse, allacciata a lui su quella motocicletta, aveva promesso a se stessa che, fossero sopravvissuti, l’avrebbe baciato, che lui lo volesse o no. Eppure, porre le labbra sulle sue, brevemente e teneramente, fu un’esperienza tanto sorprendente quanto eccitante. Si staccò quel tanto da guardarlo negli occhi, e nei suoi non vide alcun dubbio. Il secondo bacio fu più intenso, più lungo e più appassionato. Le sue braccia muscolose la strinsero, mentre le labbra e la lingua esploravano le sue. Lei fece scorrere le dita sulle sue guance e sul mento. Quando infine si staccarono, riuscì a malapena a stare in piedi.

«Non ricordo l’ultima volta che ho desiderato così tanto baciare una donna», mormorò lui.

«In questo caso, sono felice di essere arrivata al momento giusto.»

«Molto divertente. In realtà, è stato molto divertente. Sai, non ricordo le esatte parole, ma baciare un paziente non vuole dire violare qualche paragrafo del giuramento di Ippocrate?»

Lei lo baciò di nuovo, questa volta giocosamente.

«Chiamalo rianimazione bocca a bocca», ribatté lei. «Credo che la mia assicurazione malattie questo lo copra.»

Lui lanciò un’occhiata nostalgica al letto, ma non fece nulla per spingerla da quella parte.

«Per quello ci sarà tempo», mormorò lei dolcemente. «Te lo prometto. Ora però abbiamo del lavoro da fare.»

«Lavoro da fare, frittelle da mangiare. Mio Dio, quanto baci bene.»

«Anche tu. Se sei d’accordo, possiamo esercitarci ogni cento chilometri, tanto per perfezionare l’arte un po’ di più.»

«Questo farebbe miracoli per la mia capacità di guida. Oh», soggiunse, «tieni.» Le porse la felpa di Yale. «L’avevo acquistata per te. Grande, ma è l’unica taglia che avevano.»

«Perché Yale?»

«Perché era l’unica che avevano senza qualche stupida versione straniera di una frase inglese, come Sport Duro o Grande Corsa.»

«In ogni caso, tu sei molto più West Virginia che Yale, e detto da me, questo è un complimento.»

«Come mai?»

Lei s’infilò la felpa, quindi lo baciò sulla guancia.

«Perché», rispose, sottolineando con il palmo della mano le quattro lettere, «è qui che mi sono laureata.»


Nattie ed Eli Serwanga vivevano in una modesta casa in un quartiere abitato da bianchi e neri a Evanston, lungo la costa del Lago Michigan, appena a nord di Chicago. Ellen era seduta al tavolo da pranzo, sorseggiava tè con miele e cercava di ricordare l’ultima volta che si era sentita tanto triste. C’era lo stato di cose con Rudy e il senso di colpa e di umiliazione che provava per avere aperto la lettera. La sua situazione, tuttavia, impallidiva alla luce di ciò che avevano sopportato quei due. Mentre parlavano, la sua mente tornava di continuo sull’incredibile resoconto degli orrori della battaglia contro la febbre di Lassa della dottoressa Suzanne O’Connor.

Sulla quarantina, i Serwanga, gentili e generosi con lei, erano chiaramente innamorati, la coppia perfetta per avere e crescere dei figli. Invece non ne avevano e non ne avrebbero mai potuto avere. Ad accrescere la loro tragedia, l’irrefutabile prova che Nattie era responsabile, sebbene non intenzionalmente, della morte di due bambini di otto anni che frequentavano il doposcuola dell’ospedale dove lavorava. Una bella situazione.

«Per favore, Nattie», chiese Ellen, «può dirmi di nuovo quando ha scoperto di essere ammalata?»

Nattie prese un fazzoletto di carta da una scatola mezzo vuota e si asciugò alcune lacrime. Era una bella donna, grande ed espansiva, pelle color ebano, occhi enormi ed espressivi.

«È stato circa due settimane dopo il nostro ritorno dall’Africa», ripeté. «Siamo tornati di martedì e due lunedì dopo ho cominciato ad avere mal di gola. Dieci giorni dopo ero in sala operatoria. Hanno fatto nascere il bambino, ma è nato morto. Hanno cercato poi di salvarmi l’utero, ma l’emorragia era stata troppo violenta.»

Eli, che indossava ancora abito e cravatta da lavoro, si alzò e si pose alle sue spalle per confortarla. Erano andati a trovare i suoi parenti in Sierra Leone e lui ammise di sentirsi in colpa per averla convinta a rimanere una settimana in più, mentre risolveva alcune faccende di famiglia, la settimana durante la quale i medici erano convinti fosse rimasta infetta. Ellen sorseggiò il tè e rifletté sull’impatto del suo fresco senso di colpa.

«Se le mie domande la sconvolgono troppo», disse, «me lo dica.»

«Ce la stiamo cavando», replicò Eli. «Ci piacerebbe, comunque, se potesse dirci dove portano tutte queste sue domande.»

Ellen pose sul tavolo la lista dei passeggeri. Durante il volo da Washington a Chicago era riuscita a troncare i tentativi di conversazione di un venditore di elettrodomestici divorziato da poco e completamente egocentrico, seduto vicino a lei, e aveva esaminato tutti i voli, alla ricerca di combinazioni, passeggeri che si erano trovati su più di un volo con una futura vittima della febbre di Lassa. Ve ne erano almeno sei.

«Ho motivo di sospettare che Nattie sia stata infettata o subito prima o subito dopo avere lasciato la Sierra Leone, o sul volo verso casa.»

«Ma come?» domandò Nattie.

«Non lo so.»

«Vuole dire», chiese Eli, «che sta pensando che qualcuno l’abbia infettata deliberatamente?»

«È su questa possibilità che sto indagando. Vi supplico entrambi di non parlare a nessuno dei miei sospetti, finché non avrò finito la mia ricerca. È una questione di vita e di morte. Potete promettermelo?»

«Sì», risposero all’unisono. «Naturalmente», soggiunse Nattie.

«Grazie. Sto indagando sulla possibilità che qualcuno sul volo verso casa le abbia trasmesso il virus. Nattie, questo è un elenco delle persone che hanno viaggiato con lei da Freetown al Ghana e poi dal Ghana agli Stati Uniti. Uno di questi nomi le dice qualcosa? Come vede, vi sono quarantasei passeggeri nella prima tratta del viaggio, inclusi voi due, e trentasette di loro tra i centosessanta sul volo per Baltimora. Uno di questi nomi le ricorda, per caso, qualcuno?» Nattie scosse la testa.

«Sono passati tre anni», rispose. «Credo inoltre di avere perso un po’ di memoria mentre ero ammalata. Temo di non poterla aiutare. Mi spiace.»

«La tua memoria è perfetta», ribatté Eli. «Questi nomi non significano niente neppure per me. Mi dica, pensa che questa infezione fosse casuale o che mia moglie sia stata scelta?»

Ellen rifletté per un po’ sulla domanda.

«Vuole sapere una cosa, a questo non ho mai pensato.»

Cercò poi le parole per parlare dei dieci casi di febbre di Lassa che si riteneva fossero stati causati da Nattie per via del suo lavoro nelle cucine dell’ospedale, compresi i due che erano deceduti. Nattie le evitò il problema.

«Se qualcuno voleva diffondere l’epidemia, una persona con un lavoro come il mio sarebbe stata perfetta, a patto che sapessero cosa facevo per…»

«Che c’è?» chiese Ellen, notando la strana espressione sul viso della donna.

«Eli, ricordi quell’uomo sul volo dalla Sierra Leone? Quello grosso che si era messo a parlare con me davanti alla toilette? Era anche sull’altro volo.»

«L’uomo bianco?»

«Proprio lui. Vendeva qualcosa. Assicurazioni, credo. Avevi detto che faceva paura.»

«Lo ricordo, sì.»

«Sorrideva e parlava, mi ha fatto un sacco di domande sulla mia vita, mascherandole da gioco, come per far capire che esperto agente assicurativo fosse indovinando particolari su di me.»

Ellen provò una piccola scarica di adrenalina.

«Qualcun altro?» chiese comunque.

«Non mi viene in mente nessun altro.»

Ricordando l’esercizio di memoria che le aveva fatto fare Rudy chiese: «D’accordo, potrebbe darmi un foglio di carta e una penna?»

«Certo.»

Eli le portò parecchi fogli.

«Allora», spiegò Ellen, «io me ne andrò in soggiorno. Nel frattempo vorrei che rifletteste assieme e annotaste tutto ciò che ricordate dell’uomo, il suo aspetto, il suo modo di agire, anche le cose che già m’avete detto. Rilassate la mente e fate libere associazioni. So che è passato tanto tempo, ma fate del vostro meglio. Prendetevi tutto il tempo necessario, e se non siete d’accordo su qualcosa, annotate sia l’uno sia l’altro parere.»

«Faremo del nostro meglio», disse Nattie.

Quindici minuti dopo, i Serwanga avevano esaurito tutto ciò che ricordavano. Richiamarono Ellen in sala da pranzo e, scusandosi, le porsero la loro descrizione.


Grande

Alto

Robusto

Viscido

Mellifluo

Sorridente

Cordialone

Capelli folti

Faccia piatta… come un personaggio dei cartoni colpito da una padella

Voce profonda

Forse accento texano

Cicatrice sul viso


Ellen sentì il cuore fermarsi.

«La cicatrice», domandò con voce tremante. «Che mi potete dire della cicatrice?»

«Quell’osservazione è di Nattie», rispose Eli. «Io non ricordo alcuna cicatrice.»

«Ebbene, c’era, ne sono sicura. Proprio qui.»

Indicò lo spazio tra il naso e il labbro superiore.

«È lui», esclamò Ellen.

«Chi?»

«Un uomo molto cattivo. Forse abbiamo trovato qualcosa.»

«Mi è appena venuta in mente un’altra parola che avremmo dovuto mettere nell’elenco: maldestro.»

«Che intende dire?»

«Ero in piedi in attesa che si liberasse la toilette. Lui è arrivato dal corridoio, è inciampato e mi è venuto addosso. Mi ha quasi sbattuta fuori dall’aeroplano.»

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