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Belinda, West Virginia

«Matt, sono Laura del pronto soccorso… Matt?»

«Sì.»

«Matt, stai ancora dormendo.»

«No.»

«Sì che stai dormendo. Lo sento.»

«Che ore sono?»

«Le due e mezzo. Matt, per favore, accendi la luce e svegliati. C’è stato un incidente alla miniera.»

Matt Rutledge emise un gemito. «Maledetta miniera», borbottò.

«Il dottor Butler ha attivato il protocollo per i disastri. Questa notte tocca alla squadra B. Matt, sei sveglio?»

«Sono sveglio», rispose con voce roca, cercando di accendere la lampada sul comodino. «Nove per sette, cinquantasei. La squadra di pallacanestro di Miami è la Heat. Il quinto presidente…»

«D’accordo, d’accordo. Ti credo.»

Fin dai tempi dell’università, durante l’internato e anche ora, gli era sempre stato difficile chiudere la mente e addormentarsi, ma non tanto quanto poi svegliarsi. Laura Williams conosceva questa sua caratteristica, avendo lavorato con lui al pronto soccorso dell’ospedale regionale della contea di Montgomery per due anni, prima che Matt decidesse di passare alla libera professione. Lei e tutte le altre infermiere non credevano che il dottor Matthew Rutledge fosse completamente sveglio, finché non lo dimostrava oltre ogni ragionevole dubbio.

«La luce è accesa? I piedi sul pavimento?»

«Sono in piedi, sono in piedi. Aspetta un secondo.» Matt lanciò il ricevitore sul letto e infilò un paio di jeans sgualciti, una T-shirt con la scritta CAN AEROSOLS NOW e un maglione leggero. «Si è trattato di una frana?» chiese, tenendo fermo il ricevitore con la spalla. Mentre pronunciava quelle parole sentì le viscere aggrovigliarsi.

«Credo di sì. Le ambulanze sono già là, non ne è ancora tornata una. È appena arrivato l’uomo della miniera, pensa vi siano dieci o dodici feriti.»

«L’uomo della miniera?» Matt infilò un paio di calzettoni da ginnastica. Due dita, il mignolo e il quarto, spuntavano da un buco nel sinistro. Pensò per un attimo di cambiarli, poi tirò indietro le dita e prese gli stivali.

«Ha detto di essere l’addetto alla sicurezza, o qualcosa di simile», rispose lei.

«Alto, capelli neri e una ciocca bianca davanti?» Una specie di gigantesca canaglia, avrebbe voluto aggiungere, ma non lo fece.

«Proprio così.»

«Dovrebbe essere Blaine LeBlanc. È una persona molto importante alla Città della Miniera. Prova a chiederglielo. Laura, grazie, sono in piedi, vestito e già per strada.»

«Bene. La prima unità di soccorso impiegherà un po’ ad arrivare, per cui guida adagio.»

«Lo so. Lo so. I motociclisti sono tra i primi donatori di organi.» S’infilò gli stivali. «Non correrò, te lo prometto. Il resto della squadra sta arrivando?»

«Tutti tranne il dottor Crook. Finora non ha risposto né al telefono né al cercapersone.»

Bene, speriamo che non si faccia vivo, pensò Matt. Robert Crook era un cardiologo i cui pazienti facevano tutti parte dell’alta società. Era uno dei medici anziani del Policlinico di Belinda ed era stato il più deciso oppositore al passaggio di Matt dal pronto soccorso alla libera professione. Alla fine, comunque, coloro che ritenevano che una persona amata da tutti, nata e cresciuta a Belinda, un internista addestrato a Harvard e specialista in pronto soccorso, avrebbe di certo soddisfatto il bisogno di un medico di base la spuntarono su Crook, la cui principale obiezione (espressa ad alta voce) era che Matt era un tipo strano e arrogante che non si vestiva né assomigliava a un medico e che, ma questa considerazione non l’aveva di certo espressa ad alta voce, Matt aveva una volta rifiutato l’invito di sua figlia al ballo studentesco.

«Bene, dovrei arrivare in dieci minuti.»

«Meglio quindici.»

«D’accordo, d’accordo.»

«E, Matt?»

«Sì?»

«Nove per sette fa sessantatré, non cinquantasei.»

«Lo sapevo.»

Matt appese il ricevitore e si legò con un elastico i lunghi capelli castano scuro in una coda di cavallo. Per tutto il tempo in cui lui e Ginny si erano frequentati aveva tenuto i capelli corti, non un taglio da militare, ma quasi. E, per decreto di Ginny, solo lei aveva il permesso di tagliarglieli. Da quando era morta, aveva regolato soltanto le basette. Un anno o poco dopo si era infilato una borchia nel lobo dell’orecchio destro e, pochi mesi dopo, si era fatto fare un tatuaggio sul deltoide sinistro: una riproduzione perfetta, ricavata da una fotografia, del biancospino in fiore nel loro giardino, l’albero preferito da Ginny.

La casa di legno con cinque stanze che avevano progettato insieme era in cima a una scogliera che dava sulla Sutherland Valley nei monti Allegheny. Infilandosi una giacca di jeans, Matt uscì sulla veranda dove, verso la fine dei suoi giorni, Ginny aveva trascorso quasi tutto il tempo. Era stato l’artista del tatuaggio a Morgantown a convincerlo a farsi tatuare sul braccio il biancospino invece della veranda dicendogli: «Posso capire il sentimento, amico, ma, mi creda, l’estetica è antiquata».

Ogni volta che Matt iniziava a dubitare della decisione di tornare nel West Virginia, e ultimamente quei momenti gli capitavano di frequente, non doveva fare altro che andare sulla veranda. Questo era il genere di notte che piaceva a Ginny. Nel cielo illuminato dalla luna nuova non vi era una sola nuvola. Direttamente sopra la sua testa, l’eterno fiume della Via Lattea scintillava nell’oscurità. La fresca aria di fine estate era, come sempre, permeata di un accenno di fumo proveniente dall’enorme stabilimento di lavorazione del carbone adiacente alla miniera. Ciononostante, l’aria era dolce e fragrante di lavanda, tigli, orchidee e rose selvatiche, erba di San Giovanni e centinaia d’altri fiori.

Strade di campagna, portatemi a casa, là dove sono i miei legami…

Matt girò dietro la casa, raggiunse il garage e mise in moto la Harley Electraglide rosso cupo. Oltre a quella grossa moto, aveva anche una Kawasaki 900 e una Honda 250: di tutte e tre curava la manutenzione da solo. Sceglieva la Harley per viaggiare a velocità di crociera e la Kawasaki, veloce come una lepre, quando voleva vivere in modo un po’ più spericolato. La Honda, un fuoristrada, oltre a essere emozionante nei boschi, era l’ideale per le visite a casa di buona parte della sua clientela, raggiungibile solo per strade infernali.

Mentre percorreva il viale in ghiaia verso la Statale 6, Matt provò la prima scarica di adrenalina al pensiero di ciò che lo aspettava. Questo incidente non era certo il primo di cui aveva dovuto occuparsi grazie alla miniera Belinda, anche se, con dieci o dodici feriti, sarebbe stato il più grave. Nel corso degli anni, vi erano state contusioni, ferite, distorsioni e fratture, troppo numerose per essere menzionate. Si erano registrati anche alcuni decessi, ma l’unica volta in cui era stata fatta intervenire la squadra B il tutto si era rivelato una farsa. Un treno sotterraneo era deragliato nelle profondità della miniera. Venti membri della squadra avevano vagato per il pronto soccorso dalle due alle tre del mattino, prima di venire a sapere che, invece di trenta o quaranta vittime, non ve ne era nessuna.

Ma questa volta era diverso, se lo sentiva.

Tra casa sua e l’ospedale vi erano dieci chilometri di strada tortuosa, per i quali la motocicletta sembrava fatta apposta. Matt accompagnò le curve con un ritmo che era diventato una seconda natura. Si chiese se questa sciagura non sarebbe stata una monumentale prova di come la Belinda Coal and Coke Company non seguisse più di tanto le norme di sicurezza. Malgrado la continua pressione che lui e pochi altri coraggiosi tentavano di fare sui proprietari della miniera per indurli ad apportare ammodernamenti e una migliore sicurezza, poco era cambiato. La BC C era disposta a fare solo il minimo indispensabile per assicurare il benessere dei minatori. La società si comportava come ventidue anni prima, quando il soffitto del tunnel C-9, la galleria soprannominata Peggy Sue, era crollato uccidendo tre minatori, tra cui il capo della squadra, Matthew Rutledge senior.

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