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Ellen Kroft s’inginocchiò accanto alla nipotina e la strinse per le spalle, cercando di ottenere un minimo contatto visivo, qualche connessione.

«La nonna ti ama, Lucy», sussurrò, pronunciando ogni parola con cura, come se parlasse a una bambina di tre anni. «Passa una splendida giornata a scuola.»

La ragazzina, che aveva quasi otto anni, storse il viso in una specie di smorfia, poi inclinò il collo e il suo sguardo sembrò fissarsi oltre la nonna, verso il cielo. Non una parola. Quasi cinque anni di costosa educazione nel miglior istituto per bambini bisognosi di cure speciali, e ancora non diceva una parola.

«Lucy, sei pronta per entrare in classe?»

Gayle era l’insegnante della piccola classe all’istituto Remlinger di Alexandria in Virginia. Sulla ventina, era arrivata da poco nella scuola, ma aveva quell’esuberanza giovanile, quell’atteggiamento positivo e quella santa pazienza richiesti a chi passava la vita a cercare di avvicinare e insegnare a numerosi bambini autistici. Gayle allungò la mano. Lucy continuò a dondolarsi ritmicamente da una parte all’altra come un cavallo muove la coda. Non evitò la mano protesa né cercò di afferrarla. Avrebbe reagito solo davanti a qualcosa di rotante o lampeggiante o dai vivaci colori.

Otto anni.

Erano passati cinque anni dalla diagnosi di profondo autismo fatta alla ragazzina e quasi quattro da quando Ellen aveva cominciato a portarla a scuola, affinché sua figlia Beth potesse riprendere il lavoro.

«Forza, Lucy», canterellò Gayle, accompagnandola via. «Saluta la nonna.»

Saluta la nonna. Ellen rise tra sé e sé sardonicamente. C’era stato un tempo in cui Lucy Kroft-Garland l’aveva fatto. Ora non più. Si voltò e stava aprendo la portiera della sua vecchia Taurus, quando Gayle gridò. Lucy, la schiena arcuata verso l’interno in una posizione che pareva anatomicamente impossibile, era in preda a un violento attacco di epilessia.

Rapidamente, ma con calma metodica, Ellen infilò la mano nel cassetto del cruscotto, tirò fuori quattro abbassalingua in legno legati insieme a un’estremità con del nastro adesivo e corse sul prato. I denti di Lucy sbattevano tra loro come un martello pneumatico, un pericolo per la lingua e le labbra. Dall’angolo della bocca spumeggiava della saliva.

«Che devo fare?» chiese Gayle. «Ho visto altri bambini avere attacchi, ma mai Lucy.»

«Io sì», replicò Ellen, facendo rotolare la nipote sul fianco, in modo da farla vomitare e impedirle di inghiottire. Premette poi il pollice e l’indice nell’angolo della mascella della bambina. Piano piano, la pressione vinse lo spasmo nei muscoli di Lucy. Tra i denti si aprì una piccola fessura ed Ellen inserì con perizia l’improvvisato abbassalingua. Tenendo con una mano il legnetto sulla lingua e con l’altra Lucy ferma sul fianco, fece capire a Gayle che tutto era sotto controllo.

«Devo dire al signor Donnegan di chiamare il pronto soccorso?» domandò la giovane.

«No, cara. Andrà tutto bene. Dobbiamo solo rimanere ancora un po’ qui.»

«Faccio venire comunque il signor Donnegan.»

«D’accordo.»

Il violento attacco era quasi cessato del tutto quando arrivò il direttore della scuola. Ellen era seduta sul prato, la testa di Lucy sul grembo. La bambina era svenuta, in quello stato che i medici chiamano «postaccessuale». Ellen controllò che Lucy non si fosse sporcata o bagnata, quindi alzò lo sguardo sul direttore e scrollò le spalle.

«Dobbiamo chiamare un’ambulanza?» chiese l’uomo.

«Tra venti minuti starà bene. È da tanto che non le succedeva. Forse bisognerà cambiare il dosaggio dei farmaci. Se lei è d’accordo, preferirei rimanesse a scuola. Ci lasci qui ancora per un po’. Se entro venti minuti non sarà tutto passato, la riporterò a casa. Sta comunque meglio qui con gli altri bambini. Molto meglio.»

Per un attimo sembrò che Donnegan non fosse d’accordo, ma poi allungò la mano e diede un colpetto sulla spalla di EUen.

«Qualsiasi cosa lei dica, signora Kroft. È lei quella che conosce meglio di tutti questa bambina.»

Ellen rimase seduta sul prato appena falciato, fissando nulla in particolare, cullando delicatamente Lucy tra le braccia, senza cercare di arrestare il flusso continuo di lacrime dai suoi occhi. Pochi minuti dopo, la bambina cominciò a riprendere conoscenza.


Ellen scivolò dietro il volante della Taurus e si diresse verso nord. Senza volerlo, rivisse l’orribile sequenza di telefonate che avevano dato inizio a torto ciò.

«Mamma, c’è qualcosa che non va in Lucy. Stamattina l’ho portata dal pediatra. Ha detto che era in perfetta forma. Peso e altezza nel cinquantesimo percentile, molto più avanti dei bambini di tre anni per quello che riguarda la favella e la coordinazione mano-oculare. Poi le ha fatto due iniezioni, un vaccino contro difterite, pertosse e tetano e uno contro morbillo, rosolia e orecchioni. Questo è successo otto ore fa. Ma adesso Lucy sta urlando. Mamma, ha la febbre a 39 e non smette di urlare qualsiasi cosa io faccia. Che devo fare?…»

«… Ho chiamato il medico. Lui dice di non preoccuparsi. Un sacco di bambini diventano irritabili dopo le vaccinazioni. Devo darle solo del Tylenol…»

«… Mamma, sono spaventata, realmente spaventata. Ora non urla più, ma è assente. Gli occhi continuano a roteare all’indietro e non reagisce alle mie parole. È come… floscia. Dick è andato a prendere l’auto, la portiamo al pronto soccorso…»

«… Hanno intenzione di tenere Lucy in osservazione. Non capiscono cosa ci sia che non va. Forse un attacco, dice il medico. Mamma, la situazione è brutta. Ho paura. È successo qualcosa di brutto, lo so. Oh, Gesù, che farò? La mia bambina…»

«Che farò?»

Le parole atterrite di Beth riecheggiavano nei pensieri di Ellen, come facevano quasi sempre, dopo che aveva lasciato la piccola all’istituto. A fatica le ricacciò sullo sfondo. Vi erano altre cose su cui concentrarsi quel giorno, soprattutto una riunione dall’altra parte del Potomac, al quartier generale del PAVE, l’associazione dei genitori che richiedevano studi più approfonditi sulle vaccinazioni.

Guidando meccanicamente, Ellen percorse la superstrada George Washington diretta al ponte Teddy Roosevelt. Una sessantatreenne in perfetta forma dai capelli argentei, ancora ricordava il giorno antecedente il suo cinquantacinquesimo compleanno, quando era passata dall’essere, almeno secondo il marito, una donna di «bell’aspetto» a essere «una donna molto bella per la tua età». Un anno e mezzo dopo, Howard l’aveva abbandonata dopo ventinove anni di matrimonio per fuggire con una cameriera sulla trentina che aveva conosciuto durante un congresso di ingegneri a Las Vegas.

In quel momento, era stato come se la sua vita, che scorreva a velocità di crociera, fosse andata a sbattere contro un muro di mattoni. Aveva accettato il prepensionamento dalla scuola media in cui insegnava scienze, poi aveva tirato giù le tapparelle della sua esistenza, chiudendo se stessa dentro e gli amici fuori. Per ironia della sorte, era stata la tragedia di Lucy a riportarla nel mondo.

Era sempre stata una persona positiva, ottimista, ma la dolorosa e inattesa separazione da Howard e la scomparsa di vitalità e vivacità in Lucy avevano minacciato di inviarla a gran velocità verso il fondo di un flacone di Valium. Con l’aiuto di amici ostinati e di uno psicoterapeuta inviato dal cielo, aveva gradualmente aperto le tapparelle e aveva iniziato a mettere un piede davanti all’altro. Ora andava in palestra parecchie volte alla settimana, era coinvolta da vicino nella vita della nipote, faceva volontariato al PAVE e fungeva da unico rappresentante dei consumatori nel prestigioso gruppo federale che valutava il supervaccino sperimentale Omnivax.

Ellen trovò un posto per l’auto a mezzo isolato dal quartier generale del PAVE. Per alcuni anni dopo la sua istituzione a metà degli anni Ottanta, il PAVE era stata un’organizzazione di base gestita dal tavolo della cucina dalle due fondatrici, Cheri Sanderson e Sally Lynch, entrambe convinte che i loro figli erano stati irrimediabilmente rovinati dalle vaccinazioni. Una famiglia alla volta, le due madri avevano scoperto di non essere sole. E ora, con pazienza, duro lavoro e intuizione, il PAVE era diventato una forza che si era guadagnata l’interesse e un certo appoggio dai più alti livelli del Congresso, oltre a decine di migliaia di membri sostenitori. I termini RICERCA, ISTRUZIONE e SCELTA, scritti nel loro logo, esprimevano gli obiettivi dell’ente.

«Non siamo un gruppo di fanatici che assaltano i centri di immunizzazione con i forconi», le aveva spiegato Cheri, durante la prima seduta di orientamento per volontari. «Siamo, tuttavia, dure quando dobbiamo esserlo. Non ci fermeremo, finché le autorità non riconosceranno sia la necessità della ricerca sugli effetti immediati e a lungo termine dei vaccini, sia il bisogno di un’istruzione pubblica e la facoltà di decisione dei genitori quando si tratta di vaccinare i figli.»

Il PAVE aveva veementi detrattori nel campo della scienza, della pediatria, delle malattie infettive e della politica, ma, di anno in anno, indici di morbilità rilevati statisticamente, disastri clinici, riuscite conferenze sponsorizzate dal PAVE e genitori convinti che vi era un rapporto di causa ed effetto tra le vaccinazioni e le infermità dei loro figli, avevano accresciuto l’influenza dell’organizzazione, il numero dei soci e i fondi.

Nei primi anni Novanta, l’associazione, finalmente esentasse, aveva trasferito la sua ampia biblioteca, le decine di cassetti di incartamenti, le sette persone dello staff e i gruppi di volontari al secondo piano di un elegante edificio in arenaria sulla Diciottesima Strada tra DuPont Circle e il quartiere Adams-Morgan. A seguito della sventura di Lucy, Ellen aveva iniziato a mandare modeste donazione. Più tardi, aveva partecipato al corso intensivo per volontari tenuto da Cheri ed era finita ai telefoni. Poco più di un anno dopo, il PAVE era stato informato che era richiesto un rappresentante dei consumatori accanto a scienziati e medici nella commissione federale che doveva valutare l’Omnivax. Cheri e Sally avevano detto a Ellen che, essendo lei un’insegnante di scienze in pensione senza precedenti di militanza e scontro sulla questione dei vaccini, era la persona ideale per quel posto. Le autorità dell’FDA l’avevano accettata. Ellen sospettava che coloro che le avevano offerto quella carica fossero convinti che lei sarebbe rimasta relativamente in silenzio o che gli scienziati e i medici sarebbero riusciti a frustrare i suoi pareri, se fosse stato necessario. Non che importasse. Lei era un solo voto su ventitré e l’appoggio al megavaccino e ai suoi trenta componenti era stato schiacciante fin dall’inizio. Anche se si fosse opposta al progetto, cosa che infatti fece, era stato chiaro fin dalla prima riunione del comitato che il conteggio finale sarebbe stato di ventidue a uno.

La porta degli uffici del PAVE si aprì su una sala affollata con una decina di scrivanie, al momento tutte occupate. Quando Ellen entrò, il personale presente si alzò in piedi e applaudì. Lei fece del suo meglio per farli risedere, poi sorrise cordialmente e s’mchinò. Negli ultimi due anni li aveva tenuti informati sulle riunioni dell’Omnivax, riportandole a volte parola per parola. Tutti avevano sentito racconti di come, equipaggiata di dati epidemiologici e di ricerca accumulati a fatica e di affidavit di esperti che appoggiavano le posizioni del PAVE, si era opposta ad alcuni dei principali fautori dell’ampliamento della portata delle immunizzazioni. Più spesso che no, sembrava avesse tenuto duro.

«Per favore», disse, «è un applauso quasi sufficiente. Voi, laggiù, un po’ più forte, per piacere. Così va meglio. E ora, quelli di voi che lo desiderano, e che si sono lavati secondo il mio protocollo, facciano un passo avanti, s’inginocchino e mi bacino l’anello.»

«Ehi, dove sei stata?» gridò Sally Lynch dall’ingresso.

«Un problemino con Lucy a scuola», rispose Ellen. «Nulla di grave.»

«Anche Cheri è in ritardo. Arriverà tra pochi minuti. Ha detto di avere grandi notizie.»

Quarant’anni passati, Sally, una donna alta dai capelli scuri e un’aria pratica, era più introspettiva e molto meno vistosa della sua socia. Erano una combinazione perfetta, una che lavorava dietro le quinte, l’altra davanti alle telecamere, entrambe comunque ricche di intelligenza, senso di compassione e spirito d’iniziativa. Un difetto di Sally, se così lo si poteva chiamare, era il fervore che a volte oscurava il suo giudizio e altre volte schiacciava la sua pazienza. Quell’intenso impegno era, tuttavia, comprensibile. Poche ore dopo avere fatto la vaccinazione, a Ian, il figlioletto di sei mesi, era venuta una febbre altissima, aveva avuto un attacco epilettico ed era morto. Così. Semplicemente.

L’ufficio di Sally era organizzato e in ordine quanto quello di Cheri Sanderson era sottosopra. Su una parete era appeso un grafico colorato di un metro per un metro, eseguito da un professionista, che mostrava come il numero di bambini autistici che richiedevano assistenza sociale in California era più che raddoppiato negli anni Ottanta, e quasi quadruplicato negli anni Novanta. L’altra parete era ricoperta di decine di fotografie incorniciate, per la maggior parte di bambini autistici, ridotti in quello stato, di questo i genitori erano certi, dalle vaccinazioni. Una di quelle fotografie, una diciotto per ventiquattro appesa direttamente dietro la scrivania di Sally, era di Lucy. Attaccata in un angolo della cornice vi era un’istantanea della ragazzina sull’altalena, scattata poche settimane prima della sua tragica trasformazione.

«Caffè?» offrì Sally.

«No, grazie. Sono già sufficientemente agitata.»

«E così, ancora pochi giorni e sarà finita», osservò Sally, riferendosi all’imminente votazione della commissione sull’Omnivax, il tema della loro riunione di quella mattina.

«Proprio così.»

«Nessun progresso?»

«In un cambiamento dei voti? Che ne pensi?»

Sally batté il pugno sulla scrivania.

«Perbacco, tutta questa faccenda è frustrante», esclamò. «Guarda qui, Ellen, guarda. È la relazione di uno studio diramato dal Congresso. Il Congresso! ‘Controversie sul vaccino.’ Ci pensi? Almeno stanno ponendo domande. All’improvviso, si preoccupano. Ecco, leggi questo. L’FDA e l’EPA hanno chiesto a tutti i produttori di farmaci di eliminare il mercurio dai vaccini per bambini. Hai idea di quanti milioni di bambini sono stati vaccinati prima che a qualcuno venisse in mente di verificare la situazione del mercurio? Qui, guarda, i vaccini antipolio e quelli contro la difterite, la pertosse e il tetano sono stati modificali; il vaccino rotavirus antidiarrea tolto dalla circolazione perché causava danni intestinali e morte; il vaccino contro l’epatite B riesaminato. Ellen, non possiamo permettere che i potenti dell’Omnivax vincano.»

Ellen sospirò e fissò fuori della finestra. Nulla di ciò che le stava mostrando Sally era per lei una novità. Il suo studiolo a casa straripava di taccuini, di libri di testo, di articoli fotocopiati e di tabulati da computer. Nel corso degli ultimi due anni si era trasformata da nonna ansiosa in esperta in vaccinazioni e vaccini. Certo, c’erano state delle vittorie, come la rimozione del mercurio e il ritiro del vaccino rotavirus. Vi era però anche un reggimento impressionante di rispettati e rinomati scienziati e pediatri armati di informazioni, valide o viziate, che dimostravano come il numero di vite che si potevano salvare con ognuno di quei vaccini esigeva che ciascuno venisse incluso nell’Omnivax. Migliaia e migliaia di vite.

«Sally», rispose infine Ellen, «tu e io conosciamo il potere e l’influenza di coloro che incentivano questa cosa, i presidi delle facoltà di medicina, i professori di pediatria, per non parlare del presidente e di sua moglie.»

«Ehi, che succede?»

Cheri Sanderson balzò nella stanza, una tazza di caffè in una mano, una rigonfia cartella in pelle nell’altra.

Neppure un metro e sessanta d’altezza, era una palla cinetica di energia e ottimismo.

«Ellen mi sta dicendo che la votazione finirà ventidue a uno», spiegò Sally.

«Che ti aspettavi?» replicò Cheri. «Quelle persone sono state scelte una a una proprio perché avrebbero votato sì. Che diamine, le grosse case farmaceutiche finanziano molti dei loro laboratori. Come pensavi avrebbero votato? Ti sei comportata alla grande, Ellen. Hai tenuto duro e hai presentato le nostre questioni nel modo migliore.»

«Grazie. Sono un po’ delusa per non avere contato di più, ma, come hai detto, si sapeva fin dall’inizio come sarebbero andate le cose. Allora, che notizia hai da darci?»

Cheri fece una pausa d’effetto.

«La notizia è che, secondo questo comunicato stampa del suo ufficio, l’anticristo del pensiero ragionevole sul vaccino, Lynette Marquand in persona, parlerà alla nazione dagli uffici dell’FDA il giorno dell’ultima discussione del comitato sull’Omnivax.»

«Bel tempismo», commentò Ellen. «La votazione finale è programmata due giorni dopo quella riunione.»

La first lady Lynette Marquand e la dottoressa Lara Bolton, ministro della Sanità e dei servizi umanitari, erano le più forti sostenitrici della vaccinazione di massa. Quattro anni prima, il marito di Lynette, Jim, aveva vinto di misura una elezione aspra, combattuta con ogni mezzo. Ora che mancavano pochi mesi alla fine del mandato, era di nuovo nella mischia, testa a testa con l’uomo che aveva sconfitto per soli due punti e una dozzina di voti elettorali.

Una delle promesse fatte durante la campagna elettorale, quella che con maggiore probabilità si sarebbe realizzata senza problemi, era stata lo sviluppo e la distribuzione di un supervaccino. Il vaccino, l’Omnivax, sarebbe stato inoculato ai bambini in tenera età e poi prescritto a tutti. Conteneva fino a trenta diversi antigeni, virus e batteri uccisi o modificati, e per il momento sarebbe stato iniettato, in attesa che le ricerche, già avviate, permettessero di somministrarlo per via orale. Il sistema immunitario dei destinatari avrebbe creato anticorpi contro i vari germi, per cui, se si fosse imbattuto in alcuni di loro nel futuro, le difese, già attivate immunologicamente, sarebbero state pronte a combatterli. I giornali avevano paragonato l’ardita dichiarazione di Jim Marquand alla promessa di John Kennedy di portare un uomo sulla luna. Adesso, almeno su questo punto, era vincente.

«Che tempismo sottile», ripeté Ellen. «Lynette Marquand sta tenendo comizi per suo marito e lui riceve barcate di soldi per la campagna elettorale dall’industria farmaceutica.»

«E come ha detto Cheri, un sacco di dottori e professori della tua commissione devono le loro carriere alle sovvenzioni per la ricerca del vaccino elargite da svariati fabbricanti di farmaci», aggiunse Sally.

«E così», chiese Cheri, «abbiamo qualche bomba che Ellen possa fare esplodere a quella seduta? Se gli addetti stampa di Lynette fanno il loro lavoro bene come lo hanno fatto finora, ci sarà un bel branco di giornalisti a seguire quello spettacolo.»

«Non so che dire», rispose Ellen. «Settimana dopo settimana, mese dopo mese, ho cercato falle in ciò che il comitato sta proponendo, analizzando ogni elemento dell’Omnivax, cercando qualche valido studio scientifico che potesse confermare che uno solo di quei vaccini era difettoso, o addirittura il contrario, cioè che ve ne fosse uno senza difetti.» Indicò il grafico dietro la scrivania di Sally. «Non riesco a trovare neppure un dato concreto che dimostri che le vaccinazioni hanno contribuito all’aumento dei casi di autismo. Una maggiore consapevolezza, dice un esperto. Una diagnosi errata, aggiunge un altro. Fattori ambientali, mormora un terzo. Dato aneddotico, borbotta con tono di scherno un professore.» Si calmò prima di continuare.

«Quando sono entrata per la prima volta nel comitato, mostravo i denti ed ero pronta a sbranarli uno a uno per ciò che avevano e non avevano fatto. Ancor oggi vorrei farlo, credetemi. Ma vi sono così pochi studi scientifici, anche dalla nostra parte. Nulla riguardo a questa faccenda delle vaccinazioni è chiara, tranne il fatto che dobbiamo saperne di più, molto di più. Nel frattempo, l’altra parte vincerà questa particolare battaglia e l’Omnivax sta per balzare nella nostra civiltà. Tu, Cheri e tutti quelli che sono collegati al PAVE, compresa me, devono continuare a lottare per la verità scientifica, qualunque essa sia.»

L’espressione di Sally rivelava una profonda frustrazione.

«Tutto questo tempo, tutti i tuoi studi, e non hai trovato nulla su nessuno dei componenti dell’Omnivax?» domandò.

«Ci sto ancora lavorando», disse Ellen. «Credimi, è così.»

Sentì il gelo nell’espressione di Sally e sperò che l’amica non arguisse che, in verità, stava nascondendo alcune informazioni. Era certa che né Sally né Cheri sarebbero riuscite a rimanere in silenzio finché la ricerca che Rudy Peterson stava facendo per loro non fosse progredita, specialmente ora che l’Omnivax stava per essere approvato. Rudy stava esaminando scrupolosamente tutte le informazioni sui componenti del supervaccino da più di un anno senza scoprire nulla di nocivo. Vi erano, tuttavia, dati clinici su uno dei componenti che, secondo lui, erano limitati per quello che riguardava il campo d’osservazione e ottenuti da una ricerca vecchia di un decennio e con ogni probabilità inattendibile. Quel componente era il Lasajet, un vaccino contro il virus responsabile di provocare la mortale febbre di Lassa.

Rudy aveva continuato ad asserire che quei dati avrebbero ancora sostenuto le conclusioni positive sulla sicurezza del vaccino. Aveva bisogno di più tempo, e soprattutto che il fabbricante del vaccino non sapesse nulla della sua indagine.

Ellen era certa che quello non era il momento di dire alle energiche direttrici del PAVE che, pur non essendovi un’immediata possibilità di sconfiggere l’Omnivax, c’era la speranza di riuscire almeno a scalfirlo.

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