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Diane Hinson lasciò il suo studio legale nella zona centrale di Wrightsburg alle sette di sera, come faceva quasi sempre. Si mise al volante della sua Chrysler Sebring ultimo modello e partì. Si fermò a prendere una cena take-away a un ristorante locale, si diresse verso i cancelli del suo residence cintato, salutò con la mano l’anziana guardia giurata — che non portava pistola e avrebbe potuto facilmente essere sopraffatta da una coppia di dodicenni — e proseguì verso la sua casa, situata in fondo a una via chiusa.

Quell’anno le cose si erano messe bene per Diane Hinson. Era diventata socia del Goodrich, Browder and Knight, il secondo studio legale di Wrightsburg, e finalmente aveva conosciuto un uomo che pensava fosse quello giusto, un ragioniere di un metro e novanta e di quattro anni più giovane di lei, a cui piaceva fare rafting ed era capace di tanto in tanto di batterla sul campo da tennis. Diane sentiva che da un giorno all’altro lui si sarebbe lasciato scappare la domanda fatidica, e la sua risposta sarebbe stata un sì immediato. Inoltre, aveva portato nello studio legale un nuovo cliente con parcelle a sei cifre, il che avrebbe aumentato consistentemente il suo reddito personale. Aveva idea di trasferirsi presto in una villetta unifamiliare. Farlo con la fede all’anulare sinistro e un marito con cui invecchiare, per la trentatreenne avvocatessa sarebbe stata la realizzazione di un sogno.

Parcheggiò la macchina in garage ed entrò in casa. Mise la cena nel forno a microonde, indossò una tuta sportiva e uscì. Tre miglia e poco più di venti minuti dopo rientrò in casa un po’ sudata, ma quasi per nulla a corto di fiato. Rispettabile podista sulle medie distanze ai tempi dell’università, e impegnata tennista dilettante, nonostante gli anni si era mantenuta in eccellente forma fisica.

Fece la doccia, consumò la sua cena, sintonizzò la TV su un programma che non vedeva l’ora di godersi e ricevette una telefonata dal suo bel ragioniere, che si trovava a Houston per una revisione dei conti, della sua società. Dopo alcuni sospiri e promesse di sesso memorabile non appena tornato a casa, Diane riagganciò, guardò l’ultimo telegiornale della sera, notò che era quasi mezzanotte e spense la TV. In bagno si svestì e si infilò una lunga T-shirt che teneva appesa al gancio dietro la porta e si diresse in camera da letto.

Avvertì una presenza dietro di sé, ma prima di avere il tempo di urlare una mano coperta da un guanto si strinse a morsa intorno al suo collo, togliendole completamente il respiro e con esso la voce. Una presa fortissima le cinse la vita, imprigionandole entrambe le braccia sui fianchi. Terrorizzata, Diane Hinson si ritrovò a faccia in giù sul pavimento, incapace di muoversi o strillare, mentre un bavaglio le riempiva la bocca e le mani le venivano frettolosamente legate dietro la schiena con il cavo del telefono.

Come avvocato penale aveva difeso degli stupratori, riuscendo a far assolvere uomini che sarebbero dovuti rimanere dietro le sbarre. Aveva riflettuto su quelle vittorie professionali. Ora, mentre giaceva a faccia in giù sul pavimento, con un peso sulla schiena che la schiacciava, si preparò a essere stuprata. Con opprimente terrore sapeva che da un istante all’altro l’aggressore le avrebbe abbassato le mutandine e l’umiliante, dolorosa violenza sessuale sarebbe iniziata. Nauseata dalla paura, si disse che se non avesse opposto resistenza, e lo avesse lasciato fare a modo suo, forse sarebbe sopravvissuta a tutto ciò. Non lo aveva visto in faccia. Non poteva in alcun modo identificarlo. Lui non avrebbe avuto alcun motivo per ucciderla. «La prego» tentò di dire attraverso il bavaglio «non mi faccia del male.»

La sua implorazione restò inascoltata.

Il pugnale penetrò con forza nella schiena, sfiorò il lato sinistro del cuore, venne estratto dal corpo e vibrato di nuovo con forza, producendole un foro di cinque centimetri nel polmone sinistro e recidendole l’aorta mentre veniva di nuovo estratto. Ora della fine, una dozzina di squarci le chiazzavano il dorso. Diane Hinson, però, era già morta alla quarta pugnalata.

L’uomo con il cappuccio nero si chinò su di lei, facendo attenzione a non camminare nella pozza di sangue sul tappeto, e mise Diane Hinson supina. Le alzò la T-shirt, estrasse di tasca un pennarello Sharpie e le disegnò un simbolo sul ventre piatto. Tracciò lo stesso segno sul muro dietro il letto. Lo disegnò in grande, perché non voleva rischiare che nessuno lo vedesse. I poliziotti a volte erano dei tali imbecilli!

Tornò accanto al corpo e sganciò con cura la cavigliera della donna, la stessa che aveva ammirato nel parcheggio del centro commerciale, e se la mise in tasca.

Lasciò il pugnale vicino al fianco della sua vittima: non poteva ricondurlo a lui. L’aveva preso dal cassetto della cucina quando si era intrufolato in casa poco prima. Era rimasto nascosto al buio dietro i cespugli vicino alla porta del garage della donna, in attesa che tornasse a casa. Quando lei aveva aperto il garage, aveva aspettato che scendesse dall’auto ed entrasse in casa. La maggior parte della gente chiude la serranda del garage prima di entrare in casa con il pulsante di comando posto vicino alla porta che separa il garage dall’abitazione. Lei non lo aveva visto sgattaiolare dentro.

Le liberò le mani dal cavo del telefono e, sollevatole un braccio, lo appoggiò su un cassetto semiaperto del comò. Al centro commerciale aveva notato che la donna portava l’orologio, perciò non si era preoccupato di procurarsene uno. Regolò le lancette dove desiderava che fossero e lasciò tirato il perno, bloccando l’ora sul quadrante. Non disse nessuna preghiera sul corpo. Però borbottò qualcosa sul fatto che questo doveva servirle da lezione per non aver conservato lo scontrino di prelievo allo sportello automatico della banca.

Passò in rassegna con metodo la camera in cerca di potenziali prove della sua presenza, ma non ne trovò nessuna. Impronte digitali o delle palme erano fuori discussione. Non solo aveva indossato i guanti, ma aveva incollato con il mastice dei tondini di feltro sulla punta delle dita e sulle palme. Da una tasca del cappotto sfilò un piccolo aspirapolvere tascabile a batterie e lo passò sul pavimento e sotto il letto dove si era nascosto. Fece la stessa cosa nell’armadio a muro in cui si era infilato in un primo momento, e continuò a pulire le scale e infine il garage.

A lavoro ultimato si tolse il cappuccio, indossò una barba posticcia e un cappello, e uscì in strada dalla porta posteriore. Raggiunse a piedi la sua auto, che aveva posteggiato in una strada laterale fuori dallo stravagante residence cintato, con la sua anziana guardia giurata disarmata. La Volkswagen si avviò al primo colpo. Si allontanò rapidamente, ma senza violare il limite di velocità imposto in quella zona. Doveva scrivere un’altra lettera. E sapeva esattamente cosa voleva dire.

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