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Sean King si agitava nel sonno con crescente disagio. Mentre la casa galleggiante rollava nel lieve sciabordio dell’acqua che ne lambiva lo scafo, un piccolo gemito gli sfuggì dalle labbra quando un fuoco gli si accese nel cervello. Ciononostante non si svegliò. Non era un incubo che lo stava aggredendo. Il suo corpo veniva lentamente prosciugato della capacità di assorbire ossigeno. Era stato lentamente e pacificamente condannato a morte.


I fari squarciarono il buio quando Michelle arrivò a bordo della Balena Bianca e salto giù. Scese velocemente la scaletta che conduceva alla houseboat.

«Sean?» chiamò, bussando alla porta del barcone. «Sean?» Michelle si guardò intorno. L’auto di King era parcheggiata lì vicino. Doveva per forza essere in casa. «Sean?»

Provò a girare la maniglia. La porta era chiusa a chiave. Fece il giro dello stretto passaggio tra il parapetto e la parte cabinata sopracoperta e spiò all’interno da una delle finestre laterali. Non riusciva a distinguere niente. Batté il pugno sull’oblò di quella che sapeva essere la camera da letto in cui King dormiva.

«Sean?» Ebbe la sensazione di udire un rumore. Tese l’orecchio e ascoltò attentamente. Era un gemito.

Tornò di corsa alla porta e provò a forzarla con una spallata, ma non cedette. Arretrò di un passo e si scagliò in avanti protendendo la gamba destra in un poderoso, tremendo calcio laterale da kick boxing e fracassò la porta intorno alla serratura e al battente, spalancandola di colpo. Si precipitò all’interno, con la pistola in pugno. Avvertì subito una strana oppressione ai polmoni, che aumentò la sua sensazione di panico. Le giunse all’orecchio un ronzio proveniente da chissà dove, e mentre avanzava nell’oscurità ebbe come la sensazione che qualcosa le si aggrappasse alle gambe. Inciampò e urtò diverse cose prima di riuscire a trovare l’interruttore, e il locale buio finalmente si illuminò.

«Sean? Sean?» urlò.

Lo raggiunse, tentò di svegliarlo scuotendolo forte, ma era privo di sensi. Lo trascinò fuori dal letto, attraverso la cabina, fuori dalla houseboat e all’aria aperta, nonostante faticasse a sua volta a respirare. King giaceva immobile sul ponte di coperta, con il volto di uno spaventoso colore rosso ciliegia. Asfissia da monossido di carbonio. Michelle si curvò su di lui, si scostò i lunghi capelli dal viso e cominciò a praticargli la respirazione bocca a bocca.

«Respira, Sean, respira, maledizione! Respira!»

Continuò a soffiare aria dentro di lui, facendo aderire le labbra alle sue, insufflandogli fino all’ultimo milligrammo di ossigeno che aveva nei polmoni finché non iniziò a sentirsi spossata e intontita dai capogiri. Ciononostante insistette.

«Respira. Dai, Sean, ti prego, ti prego! Respira per me, Sean, respira per me, piccolo, ti. prego. Non morirmi, Sean, ti scongiuro, non farmi questo. Non azzardarti a morirmi. Dài, dài, forza, bastardo, respira!»

Gli controllò il polso e poi gli alzò la maglietta e gli auscultò il cuore. Batteva ancora, seppur debolmente. Insistette di nuovo con la respirazione bocca a bocca, dopo di che sprecò alcuni secondi preziosi per chiamare il 911 con il cellulare. Poi proseguì. In caso di arresto cardiaco era pronta a rianimarlo con un energico massaggio al torace. Ma il cuore di King batteva ancora, e lei lo sentiva distintamente. Se solo i suoi polmoni avessero ricominciato a fare il loro dannato lavoro! Continuò regolarmente a soffiare aria in lui finché non credette di svenire lei stessa. Sembra morto. Oddio, se n’è andato. Ho fallito.

«Ti prego, Sean, ti prego, non fare così. Resisti. Sono qui, sono qui, Sean. Dài, dài, ce la puoi fare, ce la puoi fare.» Proseguì con un respiro a pieni polmoni dopo l’altro, insufflandogli ossigeno in gola a ogni ritmo possibile, per far sì che la ventilazione forzata gli scuotesse i polmoni, li espandesse, gli urlasse dentro il cervello che la battaglia non era ancora finita.

Non puoi morire così, Sean. Non è ancora la tua ora, maledizione, non è la tua ora. Non lasciarmi, Sean King. Non farlo.

Imprecava e soffiava. Soffiava e imprecava, urlandogli di resistere, cercando disperatamente di raggiungerlo dove fosse, in vita, oppure morto, o tra la vita e la morte.

Resta con me, Sean. Resta con me. Non è giunta la tua ora. No, no. Credimi.

E finalmente la situazione iniziò a migliorare. Il torace di King cominciò a sollevarsi e abbassarsi con maggior forza e regolarità; il preoccupante colorito rosso del volto cominciò a schiarirsi. Michelle corse a prendere un bicchiere d’acqua nella cucina della houseboat e glielo rovesciò in faccia. Dov’era l’ambulanza? Ormai avrebbero dovuto essere lì. Stava migliorando, ma le sue condizioni precarie potevano cambiare da un secondo all’altro. E se era rimasto a lungo privo di ossigeno, gravemente asfissiato, potevano essersi verificati dei danni a livello cerebrale? Michelle allontanò dalla mente questi pensieri inquietanti e continuò a prendersi cura di lui.

Mentre gli versava in faccia le ultime gocce d’acqua e si alzava per andare a prenderne ancora, abbassò lo sguardo un istante e restò raggelata. Il puntino rosso di un mirino laser le inquadrava lo sterno tra i due seni, precisamente sopra il cuore.

Non ebbe un attimo di esitazione, principalmente perché era stufa marcia di giocare a rimpiattino con un assassino che li precedeva sempre di un soffio. Ed era furibonda per non averlo beccato l’ultima volta, quando Junior era morto. Con fulminea rapidità spiccò un balzo di lato e contemporaneamente alzò la pistola e premette il grilletto a ripetizione. Esaurì tutto il caricatore, sparando a ventaglio su un’area abbastanza ampia da colpire — lo sperò con tutta se stessa — la persona che aveva già fatto così tante vittime.

Rotolò su se stessa, si alzò sulle gambe in posizione rannicchiata, riparandosi dietro il solido parapetto della casa galleggiante, estrasse il caricatore vuoto e lo sostituì con uno di riserva. Incamerò in canna il primo colpo con un veloce strattone alla slitta di caricamento e spiò oltre il bordo del parapetto. Poi lo udì: un rumore di passi affrettati che si allontanavano di corsa. Stava per lanciarsi all’inseguimento quando King emise un gemito acuto. Michelle gli fu a fianco in un baleno, lasciando completamente perdere qualsiasi intenzione di inseguire il presunto omicida. King stava tentando di alzare il busto per mettersi seduto, respirando affannosamente e con forza sempre maggiore, avidamente in cerca d’ossigeno. Un attimo dopo si sentì male e fu scosso da violenti conati di vomito. Michelle immerse uno straccio nel lago e gli pulì il viso, dopo di che lo strinse a sé, abbracciandolo più forte che poté.

«Stai giù, Sean, stai giù, è tutto finito. Sono qui. Stenditi e basta. Ti tengo io.» Michelle tentò di trattenere le lacrime che le orlavano gli occhi, e che ora erano di gioia. Alla fine decise di cedere e di lasciare che le scorressero liberamente sulle guance. Mentre si stringeva con forza al petto il suo socio e amico avrebbe voluto mettersi a urlare di felicità.

«Che cos’è successo?» disse King con un filo di voce. «Che cosa diavolo è successo?»

«Risparmia il fiato. L’ambulanza sarà qui a momenti.»

King mise a fuoco la vista su di lei mentre Michelle gli sorreggeva la testa in grembo, cullandolo amorevolmente. «Stai bene?»

Fu solo a quel punto che Michelle si rese conto di essere stata colpita da un proiettile. Non fu il dolore, almeno non all’inizio; fu il rivolo di sangue che le sgorgava lungo il braccio. Trovò il foro nella manica della camicia nel punto in cui il proiettile le aveva perforato la stoffa. È solo un graffio, pensò. Il proiettile non era rimasto nel braccio, o almeno non credeva. Stracciò la parte inferiore della manica della camicia e si fasciò in qualche modo il bicipite per fermare l’emorragia.

«Michelle, tu stai bene?» ripeté King con maggiore insistenza, sebbene i suoi occhi adesso fossero chiusi.

«Mai stata meglio» mentì lei.

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