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Michelle Maxwell allungò il passo. Aveva completato il tratto pianeggiante del suo consueto percorso di jogging tra le colline circostanti Wrightsburg, a sudovest di Charlottesville, in Virginia. Da quel punto in poi il terreno si sarebbe fatto gradualmente più ripido e impervio. Alta un metro e settantacinque, Michelle era una ex vogatrice olimpionica che dopo gli allori sportivi aveva trascorso nove anni di intenso lavoro nel Servizio segreto. Di conseguenza aveva una notevole forma fisica. Purtroppo, però, un vasto sistema di alta pressione si era stanziato su tutto il medio Atlantico, rendendo insolitamente umida quella giornata di primavera, e i suoi muscoli e i polmoni da ex campionessa cominciarono a darle qualche problema di affaticamento quando affrontò di petto la prima salita. A un quarto del suo percorso di allenamento aveva raccolto i lunghi capelli neri in una coda di cavallo, ma qualche ciocca ribelle le ricadeva sul viso.

Michelle Maxwell aveva lasciato il Servizio segreto per aprire un’agenzia di investigazioni private in quella cittadina di provincia della Virginia, mettendosi in società con Sean King, un altro ex agente del Servizio segreto. King aveva lasciato il Servizio in disgrazia, ma era diventato avvocato e si era rifatto una nuova esistenza a Wrightsburg. I due non si erano conosciuti mentre erano al servizio dello Zio Sam; avevano invece fatto coppia durante un caso l’anno precedente, quando Michelle era ancora alle dipendenze dello Stato e King era stato coinvolto in una serie di omicidi avvenuti in zona. Dopo aver risolto positivamente il caso ed essersi guadagnati una certa notorietà nel corso dell’indagine, Michelle aveva proposto di fondare una loro agenzia e King, sebbene un po’ riluttante, aveva accettato. Grazie alla loro capacità ed esperienza nel campo investigativo, l’agenzia si era rapidamente dimostrata un successo. Poi era arrivato un periodo di bonaccia, di cui però Michelle era contenta. Era una donna che amava l’azione e l’aria aperta, e traeva la stessa soddisfazione sia nel fare campeggio o correre in una maratona, sia nell’arrestare falsari o ammanettare spie industriali.

Il bosco era silenzioso, a parte il fruscio delle fronde agitate da una brezza carica di umidità che faceva giochi di prestigio, sollevando come dal nulla dei mulinelli dal tappeto di foglie secche del recente inverno. Tuttavia uno schiocco improvviso di rami catturò l’attenzione di Michelle. Le avevano detto che da quelle parti ci si poteva anche imbattere in qualche raro orso bruno, ma se avesse incontrato veramente un animale sarebbe stato più probabilmente un cervo, uno scoiattolo o una volpe. Accantonò quel pensiero, anche se la pistola nella fondina attaccata al suo marsupio le dava un indubbio conforto. Da agente del Servizio segreto non era mai andata da nessuna parte senza la sua pistola, nemmeno al gabinetto. Non si poteva mai sapere dove e quando una SIG 9 mm dotata di quattordici colpi potesse tornare utile.

Pochi secondi dopo un altro rumore attirò la sua attenzione e la trattenne: dei passi in corsa. Al tempo del Servizio segreto Michelle ne aveva udito tanti tipi. Molti erano innocui; altri indicavano un’intenzione oscura: furtività, aggressione o panico. Non era ancora sicura di come classificare il tipo appena sentito: buono, cattivo o senza significato. Rallentò un po’ il passo, tenendo la mano a visiera per proteggersi gli occhi dalla luce del sole che filtrava dalla volta degli alberi. Per qualche secondo ci fu un silenzio mortale; poi il rumore di passi in corsa riprese, stavolta molto più vicino. D’accordo, quel che sentiva chiaramente non era il passo misurato e regolare di un patito di jogging. Nell’affrettato e apparentemente incerto scalpiccio si avvertiva un certo grado di paura. Ora sembrava provenire da sinistra, ma Michelle non poteva esserne sicura al cento per cento. In quell’ambiente naturale i rumori tendevano a confondersi.

«Ehilà» gridò. Nel contempo, istintivamente, la sua mano cercò la fondina ed estrasse la pistola. Non si aspettava una risposta e non ne ebbe alcuna. Introdusse un proiettile, ma non tolse la sicura. Come con le forbici, si doveva evitare di correre con una pistola carica e senza sicura. Il rumore continuò ad avvicinarsi; erano sicuramente passi umani. Michelle lanciò un’occhiata dietro di sé: poteva essere una trappola. Poteva trattarsi di un agguato attuato in coppia: uno per attirare la sua attenzione e l’altro pronto a saltarle addosso. Be’, se così fosse stato, si sarebbero amaramente pentiti di aver scelto di aggredire proprio lei.

Decise di fermarsi quando finalmente capì la provenienza dello scalpiccio: da destra, sopra il poggio di fronte a lei. Il respiro era accelerato, la corsa precipitosa; le falcate scomposte, gli schianti prodotti nel sottobosco erano frenetici. Qualche altro secondo e chiunque fosse sarebbe sbucato oltre il ciglio di roccia e di terra.

Michelle fece scattare la sicura della pistola e si appostò dietro una grossa quercia. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe trattato di un altro appassionato di jogging, e lo sconosciuto non si sarebbe neppure accorto della sua presenza armata. Terra e ciottoli schizzarono oltre il ciglio del poggio, preannunciando l’arrivo della fonte di tutto quello scompiglio. Michelle si preparò mentalmente, stringendo con entrambe le mani l’impugnatura della pistola, pronta se necessario a piantare un proiettile in mezzo agli occhi di un essere umano.

Un ragazzino sbucò dalla boscaglia in cima al poggio come sparato da un cannone, restò sospeso in aria per una frazione di secondo nel salto involontario e poi ruzzolò con un urlo giù dalla china. Prima ancora che arrivasse in fondo, un altro ragazzo, un po’ più grande, comparve all’improvviso sulla cresta scoscesa, ma riuscì a trattenersi in tempo e scivolò semplicemente giù sul sedere, cadendo in modo scomposto accanto al compagno.

Non fosse stato per l’espressione di puro terrore stampata su entrambe le facce, Michelle avrebbe pensato che stessero solo giocando in modo sfrenato. Il più giovane stava piangendo, con il volto sporco e striato di lacrime. Il ragazzo più grande lo rimise in piedi sollevandolo per il colletto della camicia, ed entrambi ricominciarono a correre, con la faccia rossa per l’afflusso di sangue.

Michelle ripose la pistola nella fondina, uscì da dietro il tronco dell’albero e alzò una mano. «Fermi, ragazzi!»

I due lanciarono un urlo all’unisono e le sfrecciarono accanto a destra e a sinistra in una confusa immagine in rapido movimento. Michelle ruotò su se stessa, tentò di afferrarne uno, ma fallì la presa. Allora gridò loro: «Cos’è stato? Voglio solo aiutarvi!».

Per un istante pensò di rincorrerli, ma, a dispetto dei suoi trascorsi olimpionici, dubitava di essere in grado di raggiungere due ragazzini, i cui piedi apparentemente volavano come dei jet, sospinti da un arcano terrore. Tornò a girarsi e guardò verso la cima del poggio. Che cosa poteva averli spaventati fino a quel punto? Ma subito le venne un altro pensiero. Chi poteva averli spaventati così? Michelle guardò di nuovo in direzione dei ragazzi in fuga. Poi si voltò e con cautela si inerpicò sull’erta da cui erano sbucati all’improvviso e puntò nella direzione da cui i due provenivano. Qui la cosa si sta facendo un po’ rischiosa. Pensò di ricorrere al cellulare per chiedere aiuto, ma decise di controllare prima la situazione. Non voleva chiamare sul posto la polizia solo per scoprire che i due ragazzini erano stati terrorizzati da un orso.

In cima al poggio Michelle ritrovò con facilità il loro percorso. Si inoltrò nello stretto passaggio tagliato irregolarmente nel sottobosco dai due in fuga precipitosa. Seguì le tracce per una trentina di metri e infine sbucò in una piccola radura. Da quel punto il sentiero era meno sicuro, ma poi Michelle scoprì un minuscolo lembo di stoffa penzolante dai rami bassi di un corniolo, e riprese il cammino attraverso un altro passaggio difficoltoso nella vegetazione. Una ventina di metri più in là si imbatté in un’altra radura, stavolta più ampia, nella quale qualcuno aveva spento con dell’acqua un fuoco da campo.

Si chiese se i due ragazzi avessero campeggiato lì e se fossero stati spaventati da qualche animale selvatico. Eppure non avevano addosso zaini o roba da campeggio, e nella radura non c’era nessuno. Inoltre il fuoco non sembrava affatto recente. No, c’è sotto di sicuro qualcos’altro.

Un istante dopo la direzione del vento cambiò e le portò alle narici un tanfo nauseabondo. Le venne da vomitare, ma reagì istintivamente al panico. In passato aveva già avuto modo di sentire quell’odore inequivocabile.

Era carne putrefatta. Carne umana!

Michelle sollevò la maglietta sportiva in modo da coprirsi il naso e la bocca, cercando di respirare il lezzo del proprio sudore anziché l’aspro fetore di un cadavere in decomposizione. Fece un giro di ricognizione della radura. A 120 gradi della sua bussola mentale lo trovò. O per meglio dire la trovò. Tra i cespugli che orlavano il margine della radura spuntava una mano, come se la donna morta stesse salutando. Più che un ciao, in questo caso, si trattava di un addio. Perfino da quella distanza Michelle vide che la pelle grigiastra dell’avambraccio si era staccata dalle ossa. Si levò in fretta dal lato sopravento del cadavere e cambiò l’aria nei polmoni con un bel respiro profondo.

Perlustrò con lo sguardo la salma dalla testa ai piedi, ma tenne la pistola pronta. Benché il puzzo fetido del corpo, il suo scolorimento e il raggrinzimento della pelle dimostrassero che la donna era morta da un po’ di tempo, c’era la possibilità che fosse stata abbandonata lì solo di recente e che l’assassino si aggirasse ancora nei paraggi. Michelle non aveva nessuna intenzione di fare la stessa fine della sconosciuta.

Il sole faceva brillare qualcosa sul polso della donna. Michelle si avvicinò con cautela e notò che era un orologio. Diede una fugace occhiata al proprio: erano le due e mezzo. Si abbassò sui talloni, con il naso affondato nell’ascella. Chiamò con il cellulare il 911 e spiegò con calma alla centralinista l’oggetto del ritrovamento, la località e l’ubicazione esatta. Poi chiamò Sean King.

«È riconoscibile?» le domandò il collega.

«Penso che nemmeno sua madre la riconoscerebbe, Sean.»

«Vengo subito» ribatté King. «Stai comunque in guardia. Chiunque l’abbia uccisa potrebbe ritornare ad ammirare la sua opera. Ah, un’altra cosa, Michelle…»

«Sì?»

«Non te la sentiresti di cominciare a fare il lavoro di routine?»

Michelle spense il cellulare, si appostò il più lontano possibile dal cadavere, restando comunque in vista, vigile e attenta a ogni minimo rumore. La bella giornata e la corsa per stimolare le endorfine tra le splendide colline avevano assunto tutt’a un tratto un risvolto lugubre.

Strano come un omicidio riuscisse a fare quell’effetto.

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