11.

Durò un paio di mesi. Poi, stanco, tornò al vivere consueto, ma nel farlo lo ripigliò all’istante la nota evanescenza, e senza possibilità di difesa lo assalì un senso di vuoto incurabile. D’altronde quella cura ossessiva nell’accosto al mondo – quel modo di allacciarsi le scarpe – non era poi qualcosa di molto diverso dallo scrivere le cose invece che viverle – dall’indugiare su aggettivi e avverbi – e così Jasper Gwyn dovette ammettere con se stesso che l’abbandono dei libri aveva generato un vuoto a cui non sapeva ovviare se non allestendo liturgie sostitutive imperfette e provvisorie come il mettere insieme frasi nella sua mente o allacciarsi le scarpe con una lentezza da idiota. Ci aveva messo anni ad accettare che il mestiere di scrivere gli era diventato impossibile e adesso si trovava costretto a registrare come senza quel mestiere non gli fosse affatto facile tirare avanti. Così finì per capire che si trovava in una situazione nota a molti umani, ma non per questo meno dolorosa: ciò che, solo, li fa sentire vivi, è qualcosa che però, lentamente, è destinato ad ammazzarli. I figli per i genitori, il successo per gli artisti, le montagne troppo alte per gli alpinisti. Scrivere libri, per Jasper Gwyn.

Capirlo lo fece sentire sperduto, e indifeso come solo sono i bambini, quelli intelligenti. Si sorprese a provare un istinto che non gli era consueto, qualcosa di simile alla necessità urgente di parlarne con qualcuno. Ci pensò un po’ ma l’unica persona che gli venne in mente fu la vecchia signora con il foulard impermeabile, là all’ambulatorio. Sarebbe stato molto più naturale parlarne con Tom, se ne rendeva conto, e per un attimo gli parve persino possibile riuscire a chiedere un aiuto, in qualche modo, a una delle donne che lo avevano amato, e che certamente sarebbe stata deliziata di ascoltarlo. Ma la verità è che l’unica persona con cui davvero avrebbe voluto parlare di quella faccenda era la vecchia signora dell’ambulatorio, lei il suo ombrello e il suo foulard impermeabile. Era sicuro che avrebbe capito. Finì che Jasper Gwyn si fece prescrivere altri esami – non era difficile, sulla base dei suoi sintomi – e tornò a frequentare la sala d’aspetto in cui quel giorno l’aveva incontrata.

Nelle ore che passò lì, ad aspettarla, per i tre giorni degli esami, si studiava per bene come le avrebbe spiegato tutta la faccenda, e benché lei continuasse a non arrivare, lui giunse a parlarle, come se fosse lì, e ad ascoltare le sue risposte. Nel farlo, comprese molto meglio quanto lo stava consumando, e una volta si immaginò distintamente la vecchia signora tirare fuori un libricino dalla borsa, un vecchio taccuino a cui si erano appiccicate un sacco di briciole, probabilmente biscotti – lo aveva aperto cercando una frase che si era segnata, e quando l’aveva trovata aveva avvicinato gli occhi alla pagina, proprio molto vicino, e l’aveva letta a voce alta.

– Le risoluzioni definitive si prendono sempre e soltanto per uno stato d’animo che non è destinato a durare.

– Chi l’ha detto?

– Marcel Proust. Non sbagliava mai, quello.

E richiuse il quadernetto.

Jasper Gwyn detestava Proust, per ragioni che non aveva mai avuto voglia di approfondire, ma quella frase se l’era messa da parte anni prima, sicuro che un giorno o l’altro gli sarebbe tornata utile. Pronunciata dalla voce della vecchia signora suonava come inattaccabile. Cosa devo dunque fare, si chiese.

– Il copista, che diamine, rispose la signora con il foulard impermeabile.

– Non sono sicuro di sapere cosa significa.

– Lo capirà. Quando sarà il caso, lo capirà.

– Me lo prometta.

– Glielo prometto.

Uscendo dall’elettrocardiogramma sotto sforzo, l’ultimo giorno, Jasper Gwyn passò dalla reception e chiese se avevano più visto una signora piuttosto anziana che veniva spesso lì, a riposarsi.

La signorina dietro al vetro lo squadrò un attimo prima di rispondere.

– E mancata.

Usò proprio quel verbo.

– Qualche mese fa, aggiunse.

Jasper Gwyn rimase a fissare la signorina, smarrito.

– La conosceva?, chiese lei.

– Sì, ci conoscevamo.

Si voltò istintivamente a guardare se c’era ancora l’ombrello per terra.

– Ma non mi aveva detto niente, disse.

La signorina non chiese nulla, probabilmente aveva intenzione di tornare al suo lavoro.

– Forse non lo sapeva, disse Jasper Gwyn.

Quando uscì gli venne spontaneo ripercorrere la strada che aveva fatto con la vecchia signora, quel giorno, sotto la pioggia: perché era tutto quello che conservava di lei.

Forse sbagliò una traversa, probabilmente non era stato molto attento quel giorno, così si ritrovò in una via che non riconosceva, e l’unica cosa di nuovo uguale era la pioggia, che aveva iniziato improvvisa, battente. Cercò un caffè dove rifugiarsi ma non ce n’erano. Alla fine, tentando di tornare all’ambulatorio, si trovò a passare davanti a una galleria d’arte. Era il genere di luogo in cui lui non metteva mai piede, ma quella volta la pioggia lo rendeva incline a cercare riparo, e dunque si sorprese a gettare un’occhiata oltre al vetro. C’era legno per terra e il locale sembrava grandissimo, e illuminato bene. Allora Jasper Gwyn guardò il quadro esposto in vetrina. Era un ritratto.

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