65.

Emma la lasciò a dormire dalla nonna, e a Robert chiese se poteva andarsene al cinema con qualche amico che lei aveva assolutamente bisogno di restare sola a casa, quella sera. Aveva da fare un lavoro proprio difficile e le sarebbe piaciuto farlo senza nessuno che girasse per casa. Lo disse in un bel modo, e lui, come si è detto, aveva un carattere adorabile. Chiese solo a che ora poteva tornare.

– Non prima dell’una?, provò Rebecca.

– Vediamo, disse lui, che di suo aveva in mente una serata con mezz’ora di televisione e a letto presto.

Poi, prima di uscire la baciò e le chiese soltanto:

– Non mi devo preoccupare, vero?

– Assolutamente no, disse Rebecca – anche se non ne era sicurissima.

Rimasta sola, si mise al tavolo, e iniziò a leggere.

Com’era prevedibile, Doc non si era sbagliato. Tre volte all’alba era in tre parti e la prima era molto simile a uno dei ritratti di Jasper Gwyn. Era perfino vero che risultava più lunga, ma, quando si mise a controllare, Rebecca verificò che le cose importanti c’erano tutte. Senza alcun dubbio i due testi erano parenti stretti.

Doc non si era sbagliato nemmeno a dire che il libro era un bel libro. Le altre due parti correvano via così sciolte che Rebecca finì per leggerle dimenticandosi per lunghi tratti la vera ragione per cui lo stava facendo. Perlopiù erano dialoghi, e i protagonisti erano due, sempre loro – ma in un modo che aveva qualcosa di paradossale e sorprendente. Alla fine veniva da rimpiangere che questo Akash Narayan avesse perso tutto quel tempo a insegnare musica, quando poteva scrivere cose del genere. A patto di credere che esistesse veramente, è ovvio.

Rebecca si alzò a farsi un caffè. Guardò l’ora, vide che le rimaneva ancora un bel pezzo di serata. Andò a prendere i ritratti di Jasper Gwyn e li posò sul tavolo.

Bene, si disse. Riassunto. La Rode non esiste, è Jasper Gwyn che scrive i suoi libri. Identica cosa per Akash Narayan. E fin qui ci siamo, pensò. Perché abbia infilato il mio ritratto nel libro della Rode posso immaginarlo: perché mi amava (questo lo pensò sorridendo). Adesso vediamo di scoprire perché diavolo ha infilato l’altro ritratto in Tre volte all’alba. E proprio quel ritratto, poi. Chi è sto stronzo che si è meritato un regalo bello come il mio?, si chiese. Stava incominciando a divertirsi.

Il problema era che nei ritratti che Jasper Gwyn le aveva affidato non c’era niente che potesse farli risalire con sicurezza a uno dei clienti che avevano pagato per averli. Non un nome, non una data, niente. D’altronde la tecnica semplice ma singolare con cui erano eseguiti non rendeva facile riconoscere la persona che li aveva ispirati, se non avevi con lei una consuetudine profonda. Insomma, aveva tutta l’aria di un lavoro proibitivo.

Rebecca iniziò a procedere per esclusione. Aveva letto una pagina del ritratto della ragazzina, e con grande soddisfazione poteva dire che non era il suo, quello di Tre volte all’alba. Il ritratto di Tom le sembrava di averlo riconosciuto, e se aveva dei dubbi Mallory glieli aveva tolti: quindi anche quello si poteva escludere (peccato, pensò, era l’unico caso che non le avrebbe dato fastidio). Dunque ne rimanevano nove.

Prese un foglio e li scrisse in colonna.


Mr Trawley.

La quarantenne con la mania dell’India (ahi, pensò).

L’ex hostess.

Il ragazzo che dipingeva.

L’attore.

I due che si erano appena sposati.

Il medico.

La donna con le sue quattro poesie di Verlaine.

Il sarto della regina.

Fine.


Si alzò e andò a prendere i ritratti. Mise da parte le cartelline con il ritratto suo, quello di Tom e quello della ragazzina. Poi aprì le altre e le dispose sul tavolo.

E adesso vediamo se riesco a capirci qualcosa.

Provò a fare delle ipotesi e più volte spostò le cartelline aperte, sul tavolo, provando ad accoppiarle con i personaggi della lista. Era qualcosa che ti spaccava il cervello e per questo Rebecca si rese conto solo dopo un po’ di un particolare di cui avrebbe dovuto accorgersi da tempo e che la lasciò interdetta. I personaggi erano nove, ma i ritratti dieci.

Controllò tre volte, ma non c’era dubbio.

Jasper Gwyn le aveva mandato un ritratto in più.

Impossibile, pensò. Li aveva concordati lei, uno per uno, quei ritratti, li aveva seguiti dall’inizio alla fine, ed era impensabile che per tutto il tempo che avevano lavorato insieme Jasper Gwyn avesse avuto modo di farne uno di cui lei non sapeva niente.

Quel ritratto non avrebbe dovuto esistere.

Tornò a contare.

Niente, erano proprio dieci.

Da dove spuntava ‘sto decimo? E chi diavolo era?

Lo capì d’improvviso, con la velocità fulminante con cui si comprendono alle volte, molto tempo dopo, cose che sono lì sotto gli occhi da sempre, solo a saperle guardare.

Prese in mano il ritratto finito in Tre volte all’alba e si mise a rileggerlo.

Come ho fatto a non pensarci prima, si chiese.

La lobby dell’albergo, cazzo.

Continuò a leggere, avidamente, come risucchiata dalle parole.

Diavolo, è proprio lui, identico, pensò.

Allora sollevò lo sguardo da quelle righe e capì che tutti i ritratti fatti da Jasper Gwyn sarebbero rimasti nascosti, come lui aveva desiderato, ma due lo avrebbero fatto in modo singolare, girando per il mondo cuciti segretamente nelle pagine di due libri. Uno lo conosceva molto bene, ed era il suo. L’altro l’aveva appena riconosciuto ed era il ritratto che qualsiasi pittore prima o poi prova fare – quello a se stesso. Da lontano, le parve, si guardavano, una spanna sopra tutti gli altri. Adesso sì, pensò – adesso è come non avevo mai smesso di immaginarla.

Si alzò e cercò un gesto da fare. Qualcosa di semplice. Prese a riordinare i libri che giacevano un po’ dappertutto, in giro per la casa. Si limitava ad appoggiarli uno sull’altro, ma in piccole pile, dal più grande al più piccolo. Intanto pensava alla tardiva dolcezza di Jasper Gwyn, rigirandosela nella mente, nel piacere di osservarla da ogni lato. Lo faceva nella luce di una felicità strana, che non aveva mai provato, e che pure, le parve, aveva portato con sé per anni, aspettandola. Le sembrò impossibile essere riuscita a fare altro, in tutto quel tempo, che custodirla e nasconderla. Di cosa siamo capaci, pensò. Crescere, amare, fare figli, invecchiare – e tutto questo mentre anche siamo altrove, nel tempo lungo di una risposta non arrivata, o di un gesto non finito. Quanti sentieri, e a che passo differente li risaliamo, in quello che sembra un unico viaggio.

Quando Robert tornò a casa, passabilmente sbronzo, lei era ancora sveglia, ma seduta sul sofà. Sul tavolo, sparpagliate, c’erano tutte quelle cartelline.

– Tutto bene?, lui le chiese.

– Sì.

– Sicura?

– Sì, credo.

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