30.

Non la vedeva più neanche grassa, o bella, e qualsiasi cosa avesse pensato e rilevato di lei, prima di entrare in quello studio, si era dissolta completamente, o non era mai esistita. Come non gli sembrava che passasse del tempo, là dentro, ma piuttosto si srotolasse un unico istante, sempre identico a sé. Cominciava a riconoscere, talvolta, dei passaggi del loop di David Barber, e quel loro ripassare periodico, sempre uguali, dava a qualsiasi trascorrere una fissità poetica di fronte alla quale l’accadere del mondo, fuori da lì, perdeva ogni incanto. Che tutto prendesse forma in un’unica luce immobile dal tono infantile era cosa di infinita delizia. Gli odori dello studio, la polvere che si stava posando sulle cose, lo sporco a cui nessuno opponeva resistenza – tutto dava l’impressione di un animale in letargo, che respirava lento, scomparso ai più. Alla signora con il foulard impermeabile, che voleva sapere, Jasper Gwyn arrivò a spiegare che c’era qualcosa di ipnotico, in tutto quello, affine agli effetti di una droga. Non starei a esagerare, disse la vecchia signora. E gli ricordò che era poi solo un lavoro, il suo lavoro da copista. Pensi piuttosto a combinare qualcosa di buono, aggiunse, se no mi torna dritto dritto a incontrare le scolaresche.

– Quanti giorni mancano?, chiese Jasper Gwyn.

– Una ventina, mi sa.

– Ho tempo.

– Ha già scritto qualcosa?

– Appunti. Niente che abbia senso leggere.

– Io fossi in lei non sarei così tranquilla.

– Non sono tranquillo. Ho solo detto che ho tempo. Pensavo di entrare nel panico fra qualche giorno.

– Sempre rimandare, voi giovani.

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