Mentre camminava per Regent’s Park – lungo un viale che sempre sceglieva, tra i tanti – Jasper Gwyn ebbe d’un tratto la limpida sensazione che quanto faceva ogni giorno per guadagnarsi da vivere non era più adatto a lui. Già altre volte lo aveva sfiorato quel pensiero, ma mai con simile pulizia e tanto garbo.
Così, tornato a casa, si mise a scrivere un articolo che poi stampò, infilò in una busta, e portò personalmente, attraversando la città, alla redazione del “Guardian”. Lo conoscevano. Saltuariamente collaborava con loro. Lui chiese se era possibile aspettare una settimana prima di pubblicarlo.
L’articolo consisteva in una lista di cinquantadue cose che Jasper Gwyn si riprometteva di non fare mai più. La prima era scrivere articoli per il “Guardian”. La tredicesima era incontrare scolaresche fingendosi sicuro di sé. La trentunesima, farsi fotografare con la mano sul mento, pensoso. La quarantasettesima, sforzarsi di essere cordiale con colleghi che in verità lo disprezzavano. L’ultima era: scrivere libri. In certo modo chiudeva il vago spiraglio che poteva aver lasciato la penultima: pubblicare libri.
Va detto che in quel momento Jasper Gwyn era uno scrittore piuttosto di moda in Inghilterra e discretamente conosciuto all’estero. Aveva debuttato dodici anni prima con un thriller ambientato nella campagna gallese ai tempi del thatcherismo: un caso di misteriose sparizioni. Tre anni dopo aveva pubblicato un romanzo breve che raccontava di due sorelle intenzionate a non vedersi mai più: per un centinaio di pagine cercavano di realizzare il loro modesto desiderio, tuttavia la cosa risultava impossibile. Il libro terminava con una magistrale scena su un molo, d’inverno. A parte un saggetto su Chesterton e due racconti pubblicati in differenti raccolte collettive, l’opera di Jasper Gwyn si chiudeva con un terzo romanzo, lungo cinquecento pagine. Era la pacata confessione di un vecchio olimpionico di scherma, ex capitano di marina, ex presentatore di varietà radiofonici. Era scritto in prima persona e si intitolava A fari spenti. Iniziava con questa frase: “Spesso ho riflettuto sul seminare e sul raccogliere”.
Come era stato notato da molti, i tre romanzi erano così diversi tra loro da rendere arduo riconoscerli come frutti della stessa mano. Il fenomeno era piuttosto curioso, ma non aveva impedito a Jasper Gwyn di diventare in breve tempo uno scrittore riconosciuto dal pubblico e rispettato da gran parte della critica. Il suo talento nel raccontare era d’altronde indubbio, e in particolare sconcertava la facilità con cui sapeva calarsi nella testa delle persone e ricostruire i loro sentimenti. Sembrava conoscere le parole che ognuno avrebbe detto, e pensare in anticipo i pensieri di ciascuno. Non c’è da stupirsi se a molti, in quegli anni, era sembrato ragionevole pronosticargli una brillante carriera.
All’età di quarantatré anni, tuttavia, Jasper Gwyn scrisse per il “Guardian” un articolo in cui elencava cinquantadue cose che da quel giorno non avrebbe fatto mai più. E l’ultima era: scrivere libri.
La sua brillante carriera era già finita.